“Non è stato per quello.” suggerì la voce del cuore. “È stato per amore.”
“E allora non voglio amare, se faccio morire chi amo e mi ama!” replicò duro, con furore.
La testa prese a girargli, avvertì un profondo senso di mancamento. Nella mente ripresero a susseguirsi senza sosta, violentemente, gli stessi pensieri. E tutti incominciavano con Se … Rabbia, rimorso, dolore, senso di colpa, angoscia si alternavano incessantemente. Vuoto. Avrebbe dato qualsiasi cosa per fare il vuoto dentro di sé, per scacciare pensieri e sentimenti, per liberarsi di quella insopportabile disperazione. Se solo ... Si buttò sul letto, prendendo a pugni cuscino e lenzuola, digrignando i denti per la collera, quasi a volerli spezzare. Non una lacrima, neppure quella volta, bagnò i suoi occhi. Dopo aver dato l’estremo saluto a Herakles non ne aveva più. Spossato, si lasciò vincere dal sonno. Un sonno pesante. Finalmente senza sogni. Finalmente il vuoto di cui aveva tanto bisogno.
Il mattino del giorno dopo lo trovò riverso sul letto, ancora vestito. Si alzò con la fatica di chi deve eseguire un compito ingrato, dopo aver cercato fino all’ultimo di evitarlo. Si guardò in giro e si accorse dello stato pauroso in cui si trovavano le stanze che occupava. Non l’avrebbe ricevuta lì, ma decise lo stesso di dare una sistemata. Almeno il minimo indispensabile. Per la prima volta da quando era arrivato, tirò i tendoni e aprì tutte le finestre. Immediatamente, la luce del sole inondò ogni spazio. Era una splendida giornata. Uscì sull’ampio balcone, respirando a pieni polmoni l’aria profumata dei fiori che numerosi popolavano il parco antistante. Rientrato, disfece il letto, portò nella cucinetta i vassoi sparsi in salotto. Andò quindi al ripostiglio, in fondo al corridoio del piano, a prendere l’occorrente per fare un po’ di pulizia. Era regola dell’Istituto che gli ospiti già grandicelli pensassero da soli a riordinare le loro camere e lui aveva imparato prestissimo. Ci teneva molto alla sua stanza, che era sempre la meglio tenuta. La ritrovata attività fisica, gli prese la mano e alla fine tutto era lindo, fresco e in perfetto ordine. Si guardò attorno soddisfatto. Sentì quindi il bisogno di pensare a sé stesso. Si chiuse in bagno, uscendone dopo una lunga doccia, uno shampoo accurato e diversi infruttuosi tentativi di ravviarsi i capelli indisciplinati. Indossò quindi gli abiti migliori che aveva. E andò a fare ciò che avrebbe dovuto fare l’indomani del suo arrivo.
Toc-Toc.
“Avanti.”
Perseus Byron si alzò immediatamente non appena Ares apparve sulla soglia.
“Vorrei ringraziarla per avermi accolto. Mi scusi, se non l’ho fatto subito. È che …”
“Non ti dare pensiero!” lo tranquillizzò l’uomo, appoggiandogli con affetto una mano sulla spalla. “Ti ho già detto, che puoi considerare questo posto come la tua casa, se non la tua … famiglia.”
“Grazie.” rispose con enfasi.
Byron lo fissò per qualche istante. “Danaus Yolhair mi ha accennato che hai avuto … momenti molto … duri. Ci vuole un po’ per riaversi da certe … cose. Prenditi tutto il tempo che vuoi. Con serenità. Non hai nessuna fretta.”
Col braccio sulle spalle, lo accompagnò con garbo all’uscita. Lui sapeva che non voleva congedarlo, ma solo evitargli il disagio di proseguire una conversazione per lui comunque ardua da sostenere.
“Hai fatto colazione stamattina?” Al suo diniego, lo esortò. “Vai a mangiare qualcosa. Farai contenta la signora Pearl. Sai, proprio l’altra sera è venuta da me preoccupatissima. Era tornato alle cucine un tuo ennesimo pasto quasi intatto e lei non sapeva più cosa inventarsi per farti gradire la sua cucina.”
Ares abbozzò un mezzo sorriso. Pearl Taffy, una corpulenta donna nera di mezza età sempre allegra, era l’apprezzatissima cuoca delle Esperidi da oltre quindici anni e aveva sempre avuto un occhio di riguardo per lui. Andò nelle cucine a trovarla.
“Ares!!” lo salutò con entusiasmo, andandogli incontro.
Lo strinse in un abbraccio mozzafiato. “Oh cielo!! Come sei magrolino! Dì un po’. Ma cosa ti hanno dato da mangiare finora? Briciole d’aria?! Eri un così bel ragazzo!” Lo scrutò con fare critico e precisò. “Ummm … Sì, lo sei ancora, anche se sei tutto pelle e ossa. Adesso che sei tornato però, ci penserà la tua Pearl a farti mettere su un po’ di ciccia! Non vogliamo mica che le ragazze si pungano, vero?! Chissà quante te ne ronzano attorno, eh?! Su, forza. Siediti lì, che ti porto una bella fetta di torta di mele. La tua preferita!”
Pochi attimi dopo, davanti ad Ares c’era ogni bendidio. Sapeva di non poter rifiutare e così si sforzò di fare onore alla sua generosità.
Poco prima delle due, si sistemò in uno dei divani dell’accogliente atrio da dove poteva vedere comodamente l’entrata. Sentendo un’automobile fermarsi sul piazzale antistante, si alzò e si avviò all’ingresso. Aprì con ansia una delle belle porte a vetri molati. Astrea stava salutando i genitori che gli fecero un cenno con la mano prima di risalire in auto, risparmiandogli l’imbarazzo di invitarli a entrare. La raggiunse a metà scalinata. Come aveva potuto desiderare di non farla venire? Di non incontrarla?
Astrea, che non vedeva da solo un paio di settimane, gli parve diversa. Forse era solo l’abbigliamento. Se il suo animo non fosse stato oppresso da crucci luttuosi e il suo occhio più allenato, si sarebbe accorto della cura con la quale lei si era preparata. I lucidi capelli di una calda tonalità castana, d’abitudine raccolti in una semplice coda bassa, erano sciolti sulle spalle in morbidi riccioli vaporosi. Le folte sopraciglia ben disegnate davano profondità allo sguardo e un trucco leggero valorizzava gli occhi, ancora più grandi e luminosi del solito, così come i lineamenti puri del viso ovale. La figura slanciata era vestita in modo disinvolto, ma raffinato. Jeans celeste chiaro, maglietta candida con delicati arabeschi in cristalli Swarovski, giacca di taglio sportivo in cotone bianco a fitte righine azzurre e una lunga sciarpa in chiffon di seta dalle tonalità marine. Al collo indossava un ciondolo d’argento e brillantini a forma di stella, come gli orecchini.
Astrea gli sorrise.
“Vuoi entrare o preferisci fare una passeggiata?” sondò impacciato, non sapendo bene cosa fosse meglio fare.
Lei si guardò intorno, apprezzando il cielo terso e il bel parco che si apriva davanti ai loro occhi. Astrea sorrise di nuovo, mostrando il viale con un gesto garbato. Per diversi minuti, nessuno di loro parlò.
“E così i tuoi genitori sono qui per un convegno ...” si informò distrattamente, senza guardarla.
“Ehm, non proprio ...” eccepì lei, chiarendo dopo un attimo. “In realtà, volevo vederti. Così ho chiesto ai miei genitori di accompagnarmi qui. Hanno ritardato la partenza per le vacanze, ma solo di qualche giorno. Comunque ne approfitteranno per visitare un centro specializzato vicino a Woodford, che volevano vedere da tempo.”
“E perché volevi vedermi?” si accertò, più sospettoso che stupito.
“Be’, sì … Ecco .... Ho pensato che ... Insomma, dopo quello che è successo, non c’è stato modo di … parlare e posso solo immaginare come ti senta ... ancora. E poi …” Astrea si interruppe imbarazzata. Riprese qualche attimo dopo con aria più leggera. “E poi, te lo avevo promesso. Ricordi?”
Ares assentì, risentendo le sue parole di commiato quando era andato a salutarla in Infermeria prima di partire. Era perplesso. Una voce maligna gli ricordò, che lei non concordava con la sua volontà di visitare l’Aldilà per riportare in vita i suoi genitori. Lui però sapeva che Astrea non era tipo da prendersi rivincite, né era incline a facili rimproveri. “È venuta per ascoltarti, per darti aiuto.” sentì il suo cuore dire. Tuttavia, aveva la netta sensazione che fosse lì per qualche altro motivo Dentro di lui, si fece strada un’idea, che lo mise sulla difensiva.
“Be’, ora mi hai visto. Cosa volevi sapere?”
Astrea sembrò più a disagio. Inspirò a fondo e ammise, comunque premurosa. “Scusa, Ares, non volevo essere invadente, ma ho pensato che, forse, avevi bisogno di parlare con qualcuno che … sapesse. Che potesse capire o che, semplicemente, ti stesse ad ascoltare.”
“E quel qualcuno saresti tu?” replicò lui rabbioso. Gli occhi di Astrea luccicarono. Ares non se ne accorse e proseguì con astio. “Cosa ci fai tu qui?! Perché sei venuta, eh?! Ti hanno mandato loro, vero?!”
“Loro?! Loro … chi?”
“Non far finta di non capire! Non mi farai cambiare idea! Sappilo!!”
Lei lo guardò allibita. “Non mi manda nessuno. Non so di cosa tu stia parlando.”
“Allora sei venuta per rinfacciarmi che avevi ragione!!”
“No! No!! Non è vero! Non …”
Ares non sentì e continuò a inveire. “Be’, se è così, lo so da me. E da subito! Quindi hai fatto un viaggio a vuoto. E adesso che lo sai, puoi tornartene da dove sei venuta.”
Astrea scosse appena la testa. “Scusa, ho sbagliato.” Lo fissò sgomenta e poi abbassò lo sguardo. “Tolgo il disturbo.”
Ares continuò a guardare nel vuoto, mentre lei se ne andava. Rimase immobile, sentì il rumore dei suoi passi allontanarsi. In un attimo si riscosse e la rincorse.
“Astrea, no! Aspetta. Scusami! Ti chiedo perdono. Non volevo dire quello che ho detto. Sono contento che tu sia venuta, ma … È che …”
Lei, che si era subito fermata, si voltò lentamente. Il suo viso, prima radioso, si era spento. Lo sguardo afflitto. Ares sentì una morsa allo stomaco, rendendosi conto di averla ferita. E gratuitamente.
“Ti prego … Perdonami.” la esortò supplichevole, prendendole la mano. Non riusciva neanche lui a spiegarsi quell’accesso d’ira, perché se la fosse presa proprio con lei. Lei che gli aveva sempre dimostrato un’amicizia sincera e incondizionata.
Astrea sorrise debolmente e, accarezzandogli adagio una guancia, lo tranquillizzò. “Va tutto bene. Capisco … Sarei ancora sconvolta come te, se Nostradamus fosse mo… non ci fosse più.”
La mente di Ares fu attraversata da un pensiero sconvolgente: lei non sapeva. Era al corrente solo della morte del suo Famiglio. Si era dimenticato che né lei, né i suoi amici sapevano che Zoran era morto. Non sapevano nemmeno chi fosse in realtà. Tutti ignoravano che fosse suo zio. Lei, come Archie e Horatio, lo conosceva come Greenman e, da ciò che aveva detto loro, erano convinti che fosse un individuo pericoloso, che si trattasse di un nemico, un seguace di Belyal. Rabbrividì al pensiero di quell’orribile ingiustizia.
“Saresti ancora … disponibile ad ascoltarmi?”
Lei annuì, sorridendo.
“Grazie!” rispose profondamente grato. Le tese la mano, che lei prese dopo una breve esitazione. “Vieni. Conosco un posto dove staremo tranquilli.”
Ci vollero pochi minuti per arrivare al roseto riservato di Perseus Byron e dove lui era autorizzato ad andare. Era lì che spesso si rifugiava quando tornava amareggiato dai vari tentativi falliti di trovare una famiglia. La guidò tra le diverse coltivazioni a un pergolato di roselline rampicanti, rosa pallidissimo e giallo tenue, arredato con diversi mobili da giardino di ferro battuto. Astrea prese posto in una poltroncina e lui sul divano di fronte. La guardò intensamente e comprese che poteva aprirle il suo cuore. Chinò la testa e cominciò a parlare con voce bassa e piatta.
“Ci sono … cose … molte cose che non sai … Che non ho mai detto a nessuno. Yolhair non voleva … non vorrebbe ancora, ma … Ti avevo parlato di Greenman …”
“Sì. Mi avevi detto che l’ultima volta che l’avevi visto era in quella grotta sulla scogliera. L’hai rivisto?! È lui che ha ucciso Herakles? Ti ha fatto del male?!” indagò angosciata.
Ares negò con decisione. “È meglio che ti spieghi dall’inizio.” Respirò a fondo. “Sono stato io a trovare l’Archivio. La vigilia dell’ultimo giorno della Mostra, ho sognato la signora Letard e ho capito che non dovevamo trovare una sigla. ‘LS’ erano le iniziali dei Lumen che avevano creato certi Cimeli.”