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L’Occhio di Odino - Libro Primo

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Blurb

Dopo undici mesi della sua nuova vita, durante i quali ha vissuto eventi straordinari, Ares ha di fronte a sé una strada ancora più impegnativa e ardua. Il suo cammino sarà irto di difficoltà e insidie, ma sarà anche costellato di grandi soddisfazioni e gioie.

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Scelte di Vita-1
Scelte di Vita L’elegante berlina nera di grossa cilindrata si fermò con dolcezza davanti all’entrata principale. Era ormai notte inoltrata. Quando Yolhair gli aveva chiesto come preferiva viaggiare, Ares non aveva avuto esitazioni. Non voleva più saperne di Antica Sapienza e aveva preferito l’auto, pur sapendo che sarebbe stato un viaggio molto lungo. O forse l’aveva scelto proprio per quel motivo: per mettere qualcosa di tangibile tra lui e la Domus. Dopo avergli aperto la portiera, l’autista prese la sua valigia dal bagagliaio. Ares lasciò con riluttanza l’abitacolo. Se avesse potuto, avrebbe prolungato volentieri quel viaggio all’infinito, rimandando così il momento in cui avrebbe dovuto affrontare la realtà della sua scelta. Ringraziò l’uomo sulla soglia dell’ingresso e rimase a guardarlo andare via, trattenendo a lungo lo sguardo sull’interminabile viale deserto. Fu solo quando si decise a voltarsi per entrare che vide, nel vasto atrio ben illuminato, Perseus Byron attenderlo. “Hai fatto buon viaggio? Sarai stanco. È così lontano! Hai mangiato qualcosa? Ti ho fatto preparare una cena leggera.” La preoccupazione dell’attempato Direttore aveva qualcosa di materno che gli ricordò la madre di Archie. Lo rassicurò a monosillabi. “Vieni, ti mostro il tuo alloggio.” “Non ho più la mia stanza?” appurò piano con voce incolore, mentre lo seguiva per i corridoi. Byron gli fece un largo sorriso soddisfatto. “Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere qualcosa di più … accogliente.” Il Direttore aveva completato la frase dopo aver aperto una porta su un confortevole soggiorno arredato con molto buon gusto. “Qui puoi leggere o studiare in … tranquillità.” spiegò, mostrando il comodo salotto davanti al camino e la grande scrivania accanto a una delle portefinestre dalle intelaiature bianche a riquadri. “Lì c’è la tua camera e, naturalmente, la stanza da bagno. E c’è anche un cucinino. È piccolo, ma c’è tutto. Così … Caso mai volessi stare un po’ … Se gradissi farti qualcosa da te …” Il suo silenzio sembrò imbarazzarlo. Si schiarì la voce e riprese in tono forzatamente allegro. “Hermes ci ha mandato dei nuovi cavalli. Domani te li presento. E, indovina un po’, c’è anche un magnifico shire. È bianco e nero, come quello che ti era piaciuto tanto.” La notizia gli provocò una fitta al cuore. Byron parve accorgersene e, nell’intento di rimediare a un’involontaria gaffe, gli inflisse un altro dispiacere. “Il tuo arco è già arrivato. Lo troverai al solito posto.” Gli costò un sforzo terribile esprimergli, con poche parole stentate, il suo ringraziamento. “Bene. Ti lascio riposare. Ci vediamo domani, allora. Sempre che tu te la senta … Be’ sai dove trovarmi. Vieni pure quando vuoi …” si congedò infine, con evidente disagio. Rimasto solo, fu solo dopo parecchio che si guardò lentamente attorno. Come un automa, senza pensare a niente, prese la sua valigia, andò in camera e sistemò i suoi abiti. Quindi, spogliandosi, tirò fuori dalle tasche i suoi tesori: due rotolini di carta pregiata, un ciondolo di ceramica raku raffigurante il simbolo di Tanit, un tubetto di metallo brunito, un massiccio anello con ossidiana. Li aveva appoggiati adagio, uno dopo l’altro, sul letto. Li sfiorò delicatamente con la punta delle dita. Anche quella volta sperò lo confortassero e anche quella volta ricevette solo altro dolore. Distolse lo sguardo, che cadde per caso sul ripiano del cassettone dove era posata una bella scatola di ebano intarsiato piuttosto grande. La prese e vi custodì gli unici ricordi che aveva della sua famiglia, riponendovi anche il Sibilus e il suo Segno. Se non fosse stato di suo padre, l’avrebbe lasciato alla Domus. Mise via lo scrigno nel primo cassetto, accanto al Domino di Zoran che, dal fondo della valigia, aveva subito nascosto lì, assieme al pacchetto che Yolhair gli aveva consegnato salutandolo. Non lo aveva aperto, né aveva intenzione di farlo, sicuro che il suo contenuto sarebbe stato per lui fonte di altra sofferenza. Andò in bagno, dove sistemò i suoi articoli da toilette, collocando in un armadietto il rimedio che gli aveva dato il Praesidens, raccomandandosi che lo applicasse sui tre tagli che aveva sul petto almeno due volte al giorno. Le altre ferite erano miracolosamente guarite, ma quell’orribile croce a sei braccia, sebbene si fosse rimarginata, era ancora molto infiammata. Aprì al massimo il rubinetto della vasca. Quando fu riempita quasi all’orlo, vi si immerse, rimanendo con la testa sotto l’acqua calda fino a farsi scoppiare i polmoni. Rimase lì, a occhi chiusi, la mente vuota, finché non sentì freddo. Indossò l’ampio accappatoio e poi, facendosi forza, prese a spalmare il medicamento sul torace. Non guardò, ma fu sufficiente il tocco per fargli rivivere quei momenti spaventosi che lo accompagnarono anche quando, indossato il pigiama, si mise a letto. Sentì a quel punto tutta la stanchezza, e non solo di quel giorno. Lottò disperatamente per non chiudere gli occhi, perdendo la sua battaglia poco dopo. L’indomani mattina, si svegliò di nuovo distrutto, come se avesse faticosamente marciato senza sosta per tutto il tempo. Anche quella notte, come sempre, si era battuto come un leone strappando sua madre e suo padre al rogo, aveva poi affrontato Slay, mascherato da Iena, e Raptor, riducendoli in fin di vita, e si era quindi scontrato con Selkis, l’akrabu Famiglio di Halyster, uccidendolo appena in tempo per salvare Herakles. La felicità che condivideva con i suoi cari al fianco, svaniva appena un istante dopo. Davanti ai suoi occhi atterriti, fiamme implacabili consumavano i suoi genitori, Zoran moriva ancora una volta tra le sue braccia e il corpo della sua viverna mutava in un’orrida massa putrescente. Lui urlava a perdifiato la sua disperazione, nell’assurda speranza che bastasse gridare più forte per far scomparire quelle strazianti immagini, per annientare la realtà. “Se …” Ancora una volta quella fu la prima parola che gli venne alla mente e che, di nuovo, pronunciò con la morte nel cuore. Se avesse saputo … Se Zoran non gli avesse fatto vedere quel filmato … Se avesse confidato allo zio il suo più ardente desiderio … Se non ne avesse parlato a Darnell … Se non avesse mai conosciuto la Saga … Se non avesse capito … Se non avesse saputo dell’Huma … Se non gli avesse regalato la sua piuma … Se non avesse trovato … Se avesse ascoltato Astrea … Se solo le avesse dato ascolto … Mise la testa sotto il cuscino per non sentire più ciò che era solo nella sua testa e lo ossessionava. Rimase a letto tutto il giorno, alternando il tormento della veglia con gli incubi del sonno. E lo stesso i giorni seguenti. Perseus Byron ogni tanto bussava timidamente alla sua porta. Lui gli apriva solo per educazione. E per lo stesso motivo accettava i pasti che gli portava e i suoi sempre più ansiosi inviti a nutrirsi. Solo quando i morsi della fame si facevano insopportabili, mangiucchiava qualcosa. Era passata una settimana. Ogni tanto – molto raramente – aveva pensato che non avrebbe potuto passare tutto il tempo così, ma la domanda di cosa avrebbe mai potuto fare, che rimaneva inesorabilmente senza risposta, cancellava subito quel proposito. La realtà era che non sopportava l’idea di essere costretto a vedere qualcuno. Uscire da lì era sempre più difficile. Se ne stava rintanato in quell’alloggio, per lo più a letto, da ormai una quindicina di giorni, quando qualcuno bussò ripetutamente alla sua porta. “Signor Milton! Signor Milton! Per favore, mi apra.” Era Bertha Collins, una delle assistenti di Byron. Che voleva da lui, adesso?! “Seee … Che c’è?” fece lui da dietro la porta chiusa. “Il Direttore ci ha detto di non disturbarla, ma ecco … Vede … Il Direttore è via e … e … Ecco, c’è qualcuno al telefono per lei.” “Qualcuno? Qualcuno, chi?!” si informò, contrariato. “Non so … Una persona cerca di lei.” “Ditele che non ci sono.” “Ma … ma veramente … Ecco, mi dispiace, ma le ho detto che sarei venuta a chiamarla …” “E dite che non mi avete trovato! Chiunque sia non ci voglio parlare.” comunicò perentorio, facendo per allontanarsi. “Ma signor Milton … Mi sembrava …” La Collins si interruppe. Gli parve che fosse dispiaciuta per lui. “Sta bene. Come desidera. Peccato … Era così gentile.” La sentì dire, mentre se ne andava via. Sbuffò infastidito. “Aspetti, signora Collins. Vengo.” Aprì la porta e la seguì fino a una delle stanze della segreteria, dove fu lasciato solo. Prese sconcertato la cornetta e disse senza convinzione. “Pronto?” “Ciao, Ares. Scusa se ti ho disturbato. Non ti chiedo come stai … Posso solo immaginare come ti senta. Ti ho chiamato, perché i miei genitori devono partecipare a un convegno medico che si terrà in questi giorni vicino al tuo Istituto. Mi chiedevo quindi se … Se non ti dispiace, domani potrei passare da te verso il primo pomeriggio. Alle due, se per te va bene. Sempre che tu sia d’accordo … Ovvio …” Astrea tacque e lui si sentì dire. “Certamente.” “Oooh benissimo. Ci vediamo domani, allora. A prestissimo. Buona serata.” lo salutò lei, con palese sollievo. La comunicazione si interruppe. Ares rimase imbambolato con il ricevitore in mano. Si rese conto solo in quel momento di aver acconsentito alla sua visita. Ma cosa gli era venuto in mente?! Si rimproverò per tutto il tragitto fino al suo quartierino. Poco prima di arrivare alla sua porta, passò davanti a un grande specchio nel corridoio. Ciò che colse con la coda dell’occhio, lo obbligò a voltarsi e guardare l’immagine riflessa. Stentò a credere a ciò che vedeva: un viso affilato, stanco, sciupato. Precocemente invecchiato. I capelli arruffati e opachi. Gli occhi spenti. I suoi lineamenti si confusero con i tratti di Zoran, la prima volta che ne aveva visto il vero aspetto, ai quali si sovrapposero quelli di sua madre e infine di suo padre. Nei loro occhi gli parve di indovinare un’afflitta disapprovazione. Si precipitò nella sua stanza. Chiuse in fretta, come se fosse inseguito da malintenzionati, appoggiando subito le spalle alla porta, ansimante. Non ne poteva più. La sofferenza era infinita, il tormento senza tregua. Ogni cosa lo riportava alle sue responsabilità, a ciò che aveva perso per sempre. Ogni ricordo congiurava a rafforzare rimorso e condanna, torturandolo in continuazione, fino alla pazzia. Se solo avesse dato retta ad Astrea ... E adesso, cosa voleva? Perché diamine le era venuto in mente di venire?! Non voleva incontrarla, ma non poteva fare diversamente. Non sapeva come rintracciarla, in nessun modo. Dopo tutto però era sua amica e lui non voleva offenderla. Semplicemente, non sopportava l’idea di vederla, di ricordare che lei non approvava. L’aveva aiutato fin dall’inizio, fin dal primo giorno che si erano conosciuti. E gli aveva dato una mano davvero notevole anche a trovare la Lacrima, ma non era d’accordo con il suo desiderio … No, ossessione. Non aveva cercato di dissuaderlo, né l’aveva apertamente biasimato. Semplicemente, non aveva condiviso la sua scelta, come invece aveva fatto tutte le altre volte. Semplicemente, gli aveva detto che i suoi genitori non l’avrebbero voluto. Se solo le avesse dato ascolto … Dopo quella terribile notte, quando Zoran e Herakles erano morti, non le aveva più parlato. Quella notte, anche i suoi compagni erano stati feriti, ma lei più gravemente. Era andato a trovarla all’Infermeria della Domus solo due volte e per pochi minuti. Incontrarla era ormai inevitabile. Non sarebbe stato scortese, ma neanche cordiale e lei se ne sarebbe andata alla svelta. Una voce in fondo al cuore gli disse che gli avrebbe fatto bene parlare con qualcuno, con una persona amica. Sentì un fugace benessere che subito scacciò: non voleva perdere la sua disperazione. Non gli sembrava giusto. Aveva l’impressione che se fosse stato meno male, se avesse alleviato la sua sofferenza, sarebbe stato come scordarsi Zoran e Herakles. E anche i suoi. Come dimenticare che era colpa sua. Del suo egoismo.

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