8.

561 Words
8.“Allora, che cosa gliene pare, professore?” Arturo Ginzburg osservò la studentessa seduta dinanzi alla sua scrivania, illuminata dalla pozza giallastra dell’abat-jour Art déco. Il volto incorniciato dalle trecce bionde spiccava nella penombra dello studio. “Mmh... direi che siamo a buon punto, ma devo ancora revisionare gli ultimi due capitoli.” “Ah. Dunque quelli dove introduco il discorso dei pascal non li ha ancora letti.” “Non ancora” spiegò il professore. “L’inaugurazione di stasera mi ha portato via parecchio tempo.” “Immagino...” La ragazza strinse a sé la borsa di renna con le frange e lanciò un’occhiata delusa ai fogli sparsi sulla scrivania. Ginzburg notò il modo in cui il panneggio dell’abito di foggia orientale si adagiava leggero sulle cosce pallide tagliate dal cuoio degli stivali. “In ogni caso, signorina, l’argomento l’abbiamo ampiamente sviscerato a voce” continuò. “E non dubito che il suo lavoro sarà all’altezza.” “La ringrazio per la fiducia, professore” Le labbra rosate si incresparono in un sorriso luminoso. “Fiducia meritata.” Fece scorrere tra le dita i fogli dattiloscritti, e si accorse che la ragazza non staccava lo sguardo da quelle pagine, quasi fossero creature vive e reali. Allora, per farle vedere che le teneva da conto, sollevò il pesante rospo di bronzo che teneva sulla scrivania, e glielo poggiò sopra, come per custodirli. “Li leggerò quanto prima.” “Io... la ringrazio professore.” Gli occhi grandi spiccavano sul volto pallido come due pietre viola. “Grazie di cuore.” Lo sguardo di Ginzburg indugiò sulla sagoma della studentessa, sul modo in cui angoli del suo corpo sfuggivano al cono di luce, sbriciolandosi nell’oscurità della stanza. Era piuttosto bassa e più rotonda di altre coetanee, dedite alle diete e alla palestra, ma il suo fascino aveva un che di ingenuo e burroso. “Dovere... e piacere” fece Ginzburg con un sorriso. “Molte sue intuizioni sono state preziose. E stasera non mancherò di citarla.” “Ma è fantastico.” Arrossì. Uno scuro della finestra sbatté con un colpo secco. Una folata di vento attraversò la stanza, gettando a terra un antico orologio da tavolo e rovesciando un lussuoso portamatite di radica. Le pagine della tesi si arricciarono, in preda alla corrente, ma il rospo di bronzo non si mosse, continuando a scrutare il vuoto con occhi vacui. “Oh no, sta per piovere!” Ora la ragazza si era alzata in piedi, aveva afferrato l’impermeabile e quella grande borsa di renna. Il trench marrone le copriva appena l’abito corto, sfiorandole oltraggiosamente le cosce color latte. “Devo andare...” disse, “sono senza ombrello, e devo ancora passare da casa.” “Ci vediamo lì tra poco, allora.” “Sì...” Ginzburg si alzò e l’accompagnò alla porta dello studio. Si domandò se sapesse di essere bella. L’ingenuità delle sue movenze in contrasto con lo sguardo d’ametista gli fece provare un brivido d’eccitazione alle parti basse. Rimasero in piedi, l’uno di fronte all’altro, nel quadrato polveroso del tappeto persiano, con la pioggia che picchiava di fuori e le persiane che sbattevano come in una casa di spiriti. Poi una luce innaturale illuminò a giorno la stanza, balenando sui loro volti in un flash accecante, e gli occhi di Ginzburg si persero nel viola, in tutto quel viola...
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