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963 Words
1. Torino, ottobre 2015Avanzava rapida lungo i portici di via Po, riparandosi con la sciarpa dal vento freddo che faceva vorticare le foglie in una danza ipnotica. Si strinse nel cappotto verde mela, facendosi largo tra la folla del sabato pomeriggio che passeggiava pigra, osservando le vetrine. Lanciò un’occhiata distratta pure lei, non ai negozi di abiti chic sulla sinistra, ma alle bancarelle dell’usato sulla destra. Era in clamoroso ritardo, e si augurò di non trovare nulla di interessante. Intercettò invece una copia in dvd di Zeder mai più ristampata, un’altra di Operazione Paura in perfette condizioni e la prima edizione dell’introvabile antologia di Daphne du Maurier da cui era stato tratta la ghost story di Roeg, Don’t look now, il tutto a meno di dieci euro. Susanna scosse il capo. Anche se inseguita da un feroce serial killer non avrebbe mai potuto fare a meno di gettare uno sguardo alle bancarelle dell’usato, sperando di scovare la prima edizione di Ossessione di King o il raro dvd di Cosa avete fatto a Solange?, e mettere a repentaglio la sua già improbabile vita. Afferrò rassegnata i due film horror e il libro della Maurier, e frugò nella tracolla orientale, finché non estrasse un biglietto gualcito da dieci euro e lo allungò al venditore. Una campana, da qualche parte, batté sette rintocchi. “Dannazione!” “Aspetti signorina!” L’uomo armeggiava nella scatola di latta, in cerca dell’euro di resto. “Lasci stare...” Infilò gli acquisti nella borsa, e si dileguò sotto i portici scuri. “Ma chi sei, Cenerentola?” mormorò il venditore, in lontananza. Susanna colse il tintinnio della moneta che ricadeva nella latta, attutito dal vociare dei passanti e dal turbinio del vento autunnale, e accelerò il passo. Piazza Vittorio era inondata da una luce violacea, come se i raggi scarlatti del crepuscolo fossero filtrati dalle grandi nubi blu e nere che si sfilacciavano lungo il corso del Po, sulla cupola della Gran Madre e in cima agli imponenti palazzi sabaudi. Alzò gli occhi e nell’atmosfera purpurea del tramonto le parve di cogliere i sospiri di una Torino segreta che viveva da sempre dietro al vetro istoriato di quegli abbaini art-nouveau. Un’inquietudine leggera la colse, poi abbassò lo sguardo e attraversò a rotta di collo un paio di semafori rossi in mezzo alla piazza, finché non raggiunse la sponda di pietra che si affaccia sul Po. Scese di corsa la scalinata scavata nella roccia dell’imbarchino, gli stivali di camoscio color crema che sdrucciolavano sui gradini umidi. Sul lungofiume dei Murazzi erano nati parecchi locali che aveva frequentato soprattutto da studentessa quando si divertiva a girare per i club con gli amici, ascoltando musica dal vivo. Sospirò. Ora, che era laureata ma disoccupata, la sua condizione non era cambiata di molto, per non dire affatto. I Murazzi invece lo erano. Una severa ordinanza comunale aveva costretto a chiudere numerosi locali, e sulla banchina, prima meta della movida torinese, la gente si era fatta più rara e parecchie serrande erano abbassate. Sul molo, insieme all’odore acre delle alghe di fiume, si respirava un’atmosfera sottile di abbandono e di vuoto. Il Blue Velvet però aveva resistito. Forse perché esisteva da sempre, o forse perché non c’era mai stato, ed era un semplice luogo della mente che le si materializzava dinanzi nei momenti più oscuri. Susanna sorrise. Forse la revisione degli ultimi film di Lynch non le aveva fatto così bene. Infatti l’insegna del locale era lì, vera e reale dinanzi a lei, un neon blu cobalto che pulsava ammiccante sul molo, riflettendosi nelle acque screziate di viola. “... and suddenly a movement in the corner of the room...” Dall’interno proveniva la voce cupa di Robert Smith. “... and there is nothing I can do when I realize with fright...” Spinse il portone del club ed entrò. “... that the Spiderman is having me for dinner tonight...” Stavolta al Blue Velvet non attendeva nessuno, ma quella attesa era lei. E le sette erano passate da un po’. Attraversò il pavimento a scacchi bianchi e neri, e si fece largo tra la gente che affollava il bancone in metallo anodizzato, sgomitando con garbo per riempirsi il piatto di tartine all’hummus e pasta fredda. Da terra alcuni faretti proiettavano le ombre degli avventori voraci sulle pareti bluastre, trasformandoli in sagome stilizzate ed esistenziali. Detestava le apericene. Quello che doveva sembrare il costoso aperitivo dei ricchi si tramutava in realtà in una cena da poveri, perché a quanto pareva bastava arraffare un po’ di penne scotte al finto salmone e qualche pizzetta e tutti erano sazi e contenti. Scosse il capo, imponendosi, almeno quella sera, di stare al gioco, e scomparve dietro la porticina di sicurezza accanto al pianoforte. Riapparve poco dopo con i capelli legati in una coda alta, il grembiule nero con le iniziali B.V. ricamate in blu, e il sorriso più cordiale che riusciva a sfoggiare. Si augurò che Tony, il principale, non avesse notato il suo ritardo, e prese posto dietro al bancone. Lavò le stoviglie rimaste nel lavandino, servì birre alla spina e preparò caffè a raffica. In quello era molto rapida, si era abituata lavorando in pizzeria, ma sui cocktail non era ancora molto ferrata, a differenza di Ronnie, il giovane barista dai capelli ossigenati, che shakerava le bevande più improbabili con l’appeal di un ballerino. Si augurò che gliene ordinassero il meno possibile. Stava spillando una Kilkenny strong media e una bianca belga, e nel contempo preparando un ristretto in tazza piccola, un espresso nel vetro e un decaffeinato corretto quando udì una voce alle sue spalle. “Un Bloody Mary, grazie.” Si voltò, nervosa, poi si accorse che quella voce la conosceva. Ed era dell’ultima persona che avrebbe voluto incontrare.
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