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Vivevo in una delle Alte Fortezze, il mio ruolo lo prevedeva. C’era anche il retaggio familiare, è ovvio, noi Aextesia abbiamo sempre abitato in una delle trecento roccaforti imprendibili del pianeta. Ma era il luogo in cui ero cresciuta e di conseguenza... casa.
Ricordavo di aver corso nel salone panoramico, da bambina, immaginando di spiccare il volo da una delle finestre. Che squisita tortura rinchiundere lì un uomo che mai più avrebbe volato, né tramite ali sintetiche, né su un aeroveicolo.
Come nel caso delle altre fortezze, casa mia sorgeva su un alto pinnacolo artificiale di granito. Arrivando da terra era impressionante, me ne ero resa conto solo da adulta. Da piccola mi sembrava normale vivere in una specie di nido a trecento metri di altezza. Una roccaforte impredibile, edificata durante le Guerre, quasi un secolo prima. Da terra l’unico accesso era attraverso il tunnel che saliva nelle viscere del pinnacolo, scavato nella viva roccia e interrotto da sei portelli al titanio. Dal cielo, ovviamente, era un’altra storia, ma erano cinquant’anni che gli unici aeroveicoli che si avvicinavano erano quelli di ospiti in visita.
Sia i miei genitori che i miei nonni erano stati guardiani senza nulla da guardare se non il paesaggio, vedette in tempo di pace. Tanto è vero che anche loro, come me, avevano abbracciato altre professioni e viaggiato per il mondo senza preoccuparsi troppo della loro dimora, che erano arrivati a considerare una casa come un’altra, solo più eccentrica della maggior parte delle magioni delle antiche famiglie.
C’era chi viveva in un antico castello, chi in fondo al mare, chi in cima a una torre di vetro in una metropoli, e poi c’eravamo noi, che abitavamo su un picco.
Fu forse per reazione che io, nata su un pinnacolo proteso verso il cielo avevo scelto di fare delle profondità della mente umana la mia professione, diventando una studiosa prima e un’ipnonauta poi.
E fu questo il motivo per cui conobbi DeVrai.
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Coltivare innocue eccentricità era stato il suo modo di dimostrarsi umano. Collezionare orribili immagini religiose dai colori sgargianti e di gusto dubbissimo, avere sempre nell’abbigliamento un dettaglio rosso, assumere come guardie del corpo solo donne dell’Est Pallando.
Questo genere di dettaglio era mimetismo criptico. Ora il mimetismo non gli era più necessario, e lo lasciò cadere come un fazzoletto usato.
Tra gli indumenti che scelse di portare con sé non figurava un singolo pezzo rosso, tra gli arredi non c’era niente che non fosse sobrio e funzionale, in quanto alle ragazze… non che avesse molta scelta, ma sospetto che nel suo bagaglio ristretto avrebbe attribuito maggiore importanza a un paio extra di calzini puliti.
In effetti quando X. DeVrai entrò nel Cubo, ad attenderlo c’erano, per la precisione:
2 camicie bianche
5 magliette a maniche lunghe nere
5 paia di pantaloni neri, di cui tre morfici e due di taglio classico
7 paia di fasce igientiche intime
7 paia di calzini neri
2 pigiami di micromaglia, uno blu a righe bianche, uno bianco a righe blu
1 vestaglia color vinaccia
7 t-shirt bianche
6 asciugamani di cui 2 piccoli, 2 medi e 2 grandi di diversi colori
1 accappatoio di spugna bianca
1 paio di ciabatte blu con la suola di legno
1 kit manicure di pelle nera
1 scrittoio di legno di Aga della tarda Neo Era
2 sedie di legno di Aga della tarda Neo Era
1 poltrona rivestita di stoffa bordeaux, imbottita, della tarda Neo Era
2 fogli
2 penne
5 matite
1 gomma bianca
8 libri: dei commentari sulle ultime guerre, un paio di romanzi, un saggio sull’arte classica, un catalogo.
A parte questo, che era quanto gli era stato consentito di portare nel Cubo, c’era un letto – gentilmente offerto dalla sottoscritta, con tanto di comodo materasso – un comodino – come sopra, dotato di due ampli cassetti – un armadio di metallo grigio – offerto dalla Curia dei Pari – e uno scendiletto abnentino – anche questo offerto dalla sottoscritta. Le lenzuola erano a cura del Sistema dei Censori, mentre le coperte e i piumini provenivano direttamente dai miei armadi.
C’era anche un vecchio olografo – rotto, ma pensavo che forse DeVrai sarebbe stato in grado di aggiustarlo. Il fatto è che io non guardo i programmi, quindi non avevo altro. In quanto al Sistema dei Censori, loro non cedevano i propri olografi tanto facilmente.
Così quando DeVrai fu scortato dentro al Cubo da due guardie armate grosse come case, all’orario impossibile delle sette del mattino, quello che trovò fu esattamente questo e nient’altro. Lui sembrò molto meno interessato alle suppellettili che al Cubo stesso.
Immagino che di primo acchito facesse un po’ effetto.
Be’, continuava a farlo anche dopo un po’. Erano tre settimane che era piazzato in mezzo a quello che un tempo era il mio salone panoramico e non ero per niente abituata ad averlo lì.
Era, in effetti, un cubo. Largo e lungo cinque metri, di un vetro speciale, infrangibile, con in un angolo un box di circa un metro e mezzo per un metro e mezzo, che era il bagno. Le pareti del bagno erano bianche fino a un metro e mezzo d’altezza, mentre al di sopra erano trasparenti come il resto del Cubo.
Come dicevo, il Cubo era piazzato in mezzo al mio salone panoramico. Va da sé che nel salone ormai non c’era altro. Solo il pavimento di parquet deturpato dalla base del Cubo. Avanzavano giusto quattro metri tutto attorno. La faccenda del parquet avrebbe potuto essere risolta in modo migliore, ne ero convinta.
Il resto della casa era rimasto come prima, grazie al cielo.
Ma, per i successivi cinque anni almeno, non sarebbe più stata esattamente come prima.
Non credevo proprio.
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Mi chiamo Anna Aextesia e, come dicevo, sono un’ipnonauta. Anche se sono anni che non curo la bronchite di nessuno, nominalmente sono una guaritrice. Sono una cosiddetta esploratrice di menti.
All’inizio il mio era solo un interesse teorico, ma dopo qualche anno di studio ho capito che dovevo impugnare una Sonda di persona per comprendere veramente l’oggetto dei miei studi, così sono diventata una guaritrice specializzata in ipnogavigazione.
È stato navigando nella mente delle persone che ho compreso i limiti che anche questa disciplina ha e ho riconosciuto l’utilità della Parola. Quando ti immergi nella mente di qualcuno tutto è confuso e difficile da interpretare. Ma se il tuo soggetto accetta di collaborare con te e di spiegarti quello che vedi i vantaggi sono notevoli. L’induzione curativa stessa ne risulta amplificata.
Circa dieci anni fa, il Sistema dei Censori richiese per la prima volta il mio aiuto. Da allora ho esaminato decine di quelli che comunemente vengono definiti “criminali” o “pazzi” a seconda delle loro azioni. Persone che erano state alienate dalla società e che si cercava di comprendere in qualche modo.
Insomma, per farla breve, nel mio campo diventai piuttosto famosa.
Quando X. DeVrai venne catturato e affidato al Sistema dei Censori, la Curia dei Pari stessa mi chiese di studiarlo e poi riferire a loro. Solo un’indagine teorica, perché immergersi nella sua mente venne considerato troppo pericoloso.
X. DeVrai. Nome proprio sconosciuto e di conseguenza uno dei pochi Senza Nome rimasti, umani privi di famiglia e origini, di cui la società spesso preferisce dimenticarsi... finché non diventano un problema.
X. DeVrai un problema lo era diventato. Nel corso della sua carriera aveva ucciso decine di bersagli “sensibili”: politici, funzionari di alto livello, giudici. Aveva lavorato, in pratica, contro il suo Paese e la sua gente, al soldo di chiunque pagasse.
Al processo l’accusa aveva chiesto che fosse annichilito. Un mio collega della difesa sostenne che al momento dei crimini a lui ascritti non fosse completamente in sé. Un mio collega dell’accusa sostenne che fosse sempre stato perfettamente in grado di intendere.
Sarebbe stato certamente ucciso, se non fosse intervenuta la Curia. I Pari sostennero che DeVrai poteva ancora essere utile alla collettività, se accettava di lasciarsi studiare per un periodo di cinque anni come una cavia da laboratorio.
Messo di fronte a questa scelta così umana (o farsi frugare il cervello o farselo friggere), DeVrai aveva scelto di donarsi alla ricerca in cambio della salvezza. La sentenza era stata d’ergastolo e all’epoca mi chiesi che cosa avrei scelto io, al suo posto. Forse, alla fine, l’ergastolo anch’io.
A questo punto alla Curia e ai Censori serviva solo un luogo dove rendere esecutiva la sentenza. Un luogo sicuro, imprendibile, da cui DeVrai non avrebbe mai potuto fuggire.
Insomma, un’Alta Fortezza.
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Prima di entrare pensai bene di osservarlo per qualche istante, giusto per vedere se stava affilando un piede dello scrittoio o se mostrava qualche altro lampante impulso omicida nei confronti della sottoscritta.
Apparentemente si guardava solo attorno con vaga curiosità.
Non potei impedirmi di pensare che calzava un magnifico paio di scarpe di pelle di kirino, con lacci che avrebbero potuto benissimo e velocemente essere trasformati in una garrota per la sottoscritta; che aveva mani pallide e con dita molto lunghe e muscolose, che avrebbero potuto con facilità stringersi attorno alla mia gola; che possedeva denti candidi e sicuramente taglienti, che avrebbero lasciato sulla mia giugulare un bel segno odontoiatricamente perfetto; e che doveva essere quasi un piede più alto di me, cosa che poteva indubbiamente sfruttare a suo vantaggio in molti modi, tra i quali “mettermi in soggezione” mi sembrava quello meno rilevante.
Il fatto che fosse snello non mi aiutava a raffigurarmelo in qualche modo come “innocuo”, forse, chissà, perché sapevo che aveva fatto fuori personalmente una decina di persone, snello o non snello. E se la sua mente era stata giudicata “troppo pericolosa” per un’immersione un motivo doveva esserci.
Anche la sua faccia pulita, perfettamente sbarbata, il taglio dei capelli classico, tirati all’indietro senza scriminatura, non mi rassicurava affatto. I suoi occhi erano neri e distaccati, il viso lungo e affilato, piuttosto inespressivo. Non mi piaceva per niente. Aveva proprio una faccia da sicario, per niente divertente se stai per farci una chiacchierata insieme.
Lascia perdere l’osservazione (ormai ero sicura che mi avrebbe squartata non appena fossi entrata) e cercai di tirare fuori un po’ di palle.
Appoggiai le cinque dita della destra sul rilevatore di flusso fuori dalla prima porta, guardai lo scanner che mi avrebbe letto l’aura, ed entrai nello stretto corridoio di vetro che immetteva nel Cubo. Ripetei la trafila con la seconda porta, sperando in cuor mio che le mie dita sudate impedissero al sistema di riconoscere il mio flusso.
Purtroppo le riconobbe, e la seconda porta si aprì con un clack attutito.
DeVrai mi guardò per la prima volta, con vaga curiosità.
Solo il fatto che la porta mi si stesse chiudendo inesorabilmente alle spalle mi impedì di voltarmi e fuggire urlando.
«Lei è la chiarissima Aextesia?» mi chiese, inclinando la testa da un lato, molto educatamente.
«Sono io» risposi, con un sorriso tirato che doveva apparire rilassato.
«Ah. L’ho notata, là fuori, ma pensavo che fosse un’inviata dei Censori. Così questa è casa sua?». Mi sorrise, persino, il mostro.
«Esatto. Le dispiace se ci sediamo un attimo? Vorrei fare due chiacchiere con lei».
DeVrai mi degnò di un blando gesto di accettazione, andandosi a sedere su una delle due sedie coordinate con lo scrittoio. Io presi l’altra.
Facendo scorrere un dito sul piano del mobile commentai: «Molto bello». Poi aprii il taccuino e presi la penna. Niente di meglio che trincerarsi dietro a un taccuino e una penna, in queste circostanze.
Lui, comunque, non rispose al mio commento, ma si limitò a guardarmi, immobile. Non è mai un buon segno quando un soggetto sta fermo e tu ti divincoli, se volete saperlo.
A ogni modo, abbozzai un sorrisetto e decisi che avrei provato a sorprenderlo. Positivamente, speravo. O almeno abbastanza perché non facesse di una stringa una garrota.
«Quali sono i suoi piatti preferiti?» chiesi, con la penna sul taccuino come una cameriera che attende le ordinazioni.
Fu sorpreso, ne sono certa. Solo che non lo diede a vedere in alcun modo.
«Mangio tutto» rispose, invece.
«Sicché se per pranzo le portassi zuppa di cavolo o filetto di carne per lei sarebbe la stessa cosa?» azzardai uno scherzo.
DeVrai sospirò teatralmente, come a dire che considerava la battuta puerile.
«Preferirei il filetto» concesse. «Non mi dica che sarà lei a cucinare?» aggiunse, buttandola sul personale.
«Cucinerà la mia cuoca» puntualizzai. «Ma immagino che deciderò io la sua dieta».
«Capisco» disse lui, serio. «Allora potrebbe chiedere alla sua cuoca di cucinare del pesce, di tanto in tanto? Mi piacciono particolarmente le triglie e il nasello. Oh, e il polpo».