Inclinai la testa da un lato. «Glielo chiederò» stetti al gioco.
«Pensa che potrei avere anche del vino?» aggiunse lui.
«Normalmente no. Forse per le feste. Di solito beve durante i pasti?».
Lui storse il naso. «Dipende che cosa intende per di solito».
«Quando era a casa sua».
DeVrai si strinse nelle spalle. «A volte. Vuole appurare che non sia un ubriacone? Non lo sono».
Sorrisi. «Oh, lo so. Pensavo di farla sbronzare per convincerla a sbottonarsi».
Lui dimostrò all’istante che farlo sbottonare non era affatto facile, rispondendo solo con un sorrisetto. Pensai che non avrebbe detto niente, ma dopo un paio di secondi di silenzio aggiunse, come se gli fosse venuto in mente solo dopo: «Può sempre ipnoindurmi. Nessuno usa più l’alcool, in ogni caso».
Era stato un commento sgradevole, ma cercai di ignorarlo. Sgradevole e sottile, in un certo senso. Negli ultimi anni l’ipnoinduzione era stata usata diverse volte per stuprare delle donne, ma era anche la pricipale tecnica del mio mestiere. Che era un po’ come accusarmi di volerlo stuprare, presumo.
Scelsi di ignorare la cosa e mi limitai a dirgli che del suo trattamento avremo parlato quel pomeriggio.
Mi pulii gli occhiali con un lembo della camicia e tornai a guardarlo.
«Conosce le regole di questo posto?» domandai, cercando di restare sul pratico.
«La sveglia è alle otto…» iniziò a elencare. Lo guardai con orrore. «Nemmeno per sogno» lo interruppi. «Chi le ha detto questa assurdità? La sveglia è alle nove». Dovete capire che la colazione l’avrebbe preparata la mia cuoca e sarei stata io a portarla su.
«Me l’hanno detto le guardie. Alle nove, bene. E quindi il coprifuoco è alle undici invece che alle dieci?».
«Se pensa che farò su e giù per il salone tutta la notte per controllare che lei dorma è di nuovo fuori strada».
Questa volta sorrise.
«Metodo dolce. Mi piace».
«Non si illuda».
Piccola smorfia. «Ogni giorno avrò un incontro con lei» continuò.
«Esatto».
«Devo pulire da solo la mia cella».
«Ancora esatto».
«Non parlerò con nessuno che non sia lei».
«Be’, con il suo legale».
«Non avrò ore d’aria».
Feci una piccola smorfia io, a questo punto. «Non so» non mi sbilanciai. Ero quasi sicura che ne avesse diritto, in realtà, ma non avevo idea di come avrebbe potuto fare. Considerato che l’aria più vicina era quella del mio giardino, no, forse non l’avrebbe avuta.
«Se farò la brava cavia, tra cinque anni mi spediranno in un normale carcere di massima sicurezza».
Provai a sorridere. «Qua però ha una singola».
«E vista sul cielo» aggiunse lui, sarcastico. «E forse, laggiù, la punta di un albero?». Come dicevo, la mia abitazione è circondata da un giardino e nel giardino ci sono alcuni alberi. Uno di essi era cresciuto a sufficienza da “spuntare” oltre i vetri del mio salone panoramico.
«Ci sono perfino degli scoiattoli» spiegai, rifiutandomi di pensare che il Cubo fosse peggio di un carcere di massima sicurezza.
«Affascinante» commentò DeVrai, con un sorrisetto beffardo.
«Sono delle piccole canaglie» ammisi.
Lui mi rivolse un largo, raggelante, sorriso: «Li lasci a me».
Scappare via urlando mi sembrò di nuovo un’opzione accettabile, ma poi, chissà come, il mio cervello riprese a funzionare. Risi.
«Ci ha provato» gli dissi, come se fossi davvero divertita.
Lui si strinse nelle spalle.
«Avrei dovuto essere più raffinato» concesse. «Per esempio mormorare “scoiattoli” con espressione allucinata. Vedrò di fare di meglio, la prossima volta. Scoiattoli, quindi. Come hanno fatto ad arrivare quassù?».
«Ce li ha portati mio nonno. Ci vediamo oggi pomeriggio».
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Devo specificare che non riuscii a mandare giù un boccone, a pranzo? Considerato che immaginavo lo stesso cibo che mangiavo io che scivolava giù per il tubo digerente del mostro – come molto deontologicamente lo chiamavo tra me e me – potrete capire che le ottime orecchiette al formaggio che Taia aveva cucinato mi risultarono piuttosto indigeste.
Peccato, perché Taia era una cuoca eccezionale, per quanto le sue abilità si limitassero alla cucina soliniana.
La mia razione di orecchiette, comunque, finì quasi intera nel secchio dei rifiuti organici.
Dalle due alle quattro vagai per il giardino, estirpando qualsiasi erbaccia – o anche pianta desiderabile – avesse l’ardire di pararmisi davanti. Alla fine le siepi assomigliavano a trincee, il prato a Marbotto dopo la sconfitta di Onneius.
Alle quattro – l’ora che avevo previsto per gli incontri – mollai tutto e schizzai in bagno a lavarmi le mani. Non un istante prima delle quattro, per dimostrare a me stessa che non ero affatto in ansia. Un paio di occhi verdi e spiritati mi fissò dallo specchio quando commisi l’errore di guardarlo, attraverso la mia elegante montatura nera. Okay: ero in ansia. Uno non ha metà dei capillari rotti se non lo è. O è sbronza, ma io non avevo bevuto. Avevo anche i capelli mezzi sparati in testa, il trucco sciupato e la camicia stropicciata. Usando phon, matita per gli occhi e pettine tutti insieme operai un veloce restauro. Poi cambiai la camicia.
Alle quattro e dieci assomigliavo di nuovo alla seria professionista a cui volevo assomigliare, o almeno così speravo.
Era dall’inizio della carriera che non mi agitavo tanto per un soggetto e la cosa, nell’unico angolo ancora fermo del mio cervello in veloce rotazione, mi dava da riflettere.
Mi guardai nuovamente allo specchio. Trentottenne, determinata, preparata, autorevole, dall’aspetto gradevole, eppure… c’era ancora una scintilla di ansia non sopita in fondo ai miei occhi che gli occhiali non nascondevano.
Sospirai e mi congedai dalla mia immagine riflessa. Non era così che volevo iniziare, ma erano le quattro e un quarto e non avevo alternative. Avrei giocato con le carte che avevo.
Quando entrai nel salone le guardie mi salutarono con un cenno del capo. DeVrai seguì attentamente la procedura di riconoscimento e quando la seconda serratura scattò mi accolse con la massima formalità.
Mi andai a sedere accanto allo scrittoio come quella mattina, questa volta senza chiedere il permesso.
DeVrai si sedette accanto a me quietamente.
«Che cosa significa X?» domandai, quasi distratta.
Lui inclinò la testa da un lato. «Pensavo che arrivasse prima» disse, senza mostrare la minima intenzione di rispondere. «Credevo che fosse ansiosa di iniziare a sventrarmi il cervello».
Ansiosa? Io? Quasi mi misi a ridere. Davvero non si rendeva conto che ero tesa come una corda di violino? Riflettei velocemente: non poteva essere così stupido.
«Ero ansiosissima, invece» replicai. «Così ansiosa che per vincere lo stress mi sono messa a zappare nell’orto. Poi mi sono dovuta cambiare, quindi… che cosa significa X? Durante il processo non credo sia emerso».
Legalmente, si chiamava “Max”. Non era il suo nome e non sembrava che l’avesse mai usato.
DeVrai si strinse nelle spalle.
«Chi lo sa? X. DeVrai era quello che era scritto sul biglietto, quando mi hanno trovato».
Aggrottai appena le sopracciglia. Potevo seguire due strade: continuare sull’X o lasciarmi distogliere. Optai per la seconda, decisa a tenere la prima per la fine del colloquio.
«Dove l’hanno trovata?» chiesi, anche se lo sapevo già.
«In una navetta per turisti, al parco di Roja».
«Quanto aveva?».
«Cinque mesi».
«E poi che è successo?».
Lui mi guardò per un istante in silenzio, come se stesse meditando se rispondere al mio fuoco di fila o meno.
«Il solito» disse alla fine. «Orfanotrofio, riformatorio, fuga dal riformatorio, inizio di un’attività autonoma, carcere».
«Così fan tutti?» replicai, inarcando un sopracciglio.
«Le dona quel gesto» troncò il discorso lui, con una finta carineria.
«A lei, invece, quell’espressione distante non dona affatto. Cerchiamo di essere onesti: non potrà eludere le mie domande per cinque anni. Se vuole, però, può chiedere che vengano poste in seguito. In fondo… abbiamo tempo».
DeVrai scosse leggermente la testa, come se la mia dichiarazione l’avesse confuso.
«Non capisco che cosa vuole da me. Capisco perché devo essere qua – altrimenti mi uccidevano, è un argomento maledettamente buono – ma non capisco che cosa intende fare a livello pratico. Quando userà...»
«La Sonda?» chiesi.
Lui annuì, teso.
Sorrisi in modo comprensivo.
«Oh, non molto presto, non si preoccupi. E non ho alcuna intenzione di “sventrarle il cervello”». Cercai i suoi occhi per assicurarmi che capisse bene. «Non è gentilezza, da parte mia. Usare la Parola, prima della Sonda, è il metodo di indagine migliore. Quindi... non tema, quando userà la Sonda le scivolerà dentro alla mente come un pistone ingrassato in un meccanismo».
«La... Parola. Non prevede la mia collaborazione? Perché dovrei?».
«Di ragioni potrei citarne diverse. Per prima cosa passare cinque anni a difendersi potrebbe essere un’esperienza snervante. E le assicuro che il mio tempo di resistenza è superiore al suo. Secondariamente, se lei si dimostrerà un buon soggetto alla fine dei cinque anni potrebbero offrirle la possibilità di scegliere se tornare in una prigione convenzionale o restare sotto studio. Per terza cosa, lavorare con me potrebbe permetterle di scoprire cose a cui non aveva mai pensato prima su di sè e sul mondo. Infine, non dimentichi che lei ancora non mi conosce. Niente vieta che prima mi osservi e poi decida se può o non può darmi fiducia».
DeVrai mi guardò, per niente impressionato.
«Che vantaggi concreti posso ottenere, facendo la brava cavia?» disse. «Ora e subito, intendo».
Sospirai.
«Vorrei che fosse chiaro: che lei cooperi o che non lo faccia il trattamento a lei riservato non cambierà. Non credo nelle punizioni e nelle ricompense, vanno bene giusto per i bambini e per i ritardati, non per le persone adulte. Non credo nei maltrattamenti. Lei mangerà sempre decentemente e i suoi diritti non verranno mai meno. Non si lasci distrarre da questioni del genere, non la porteranno a niente».
DeVrai mi rivolse un ghigno da lupo affamato. «Una filantropa».
«Adesso non esageri. D’altronde, non è detto che lei sia il soggetto ideale per il nostro studio».
Lui, per una volta, parve colpito. Nell’ego. Ah, l’ego degli assassini!
«Ah, no?».
Sollevai le sopracciglia. «No» risposi. Assolutamente vero, tra l’altro. Era un caso così particolare che non ero sicura che si potessero generalizzare le conclusioni che avrei tratto dal suo caso.
«E allora perché…» iniziò lui, poi si morse le labbra. «No, forse non voglio saperlo. Solo una cosa: lei non ha la possibilità di riconsegnarmi per l’annichilimento, vero?».
In senso lato ce l’avevo. Se nelle fasi iniziali avessi deciso che DeVrai non era, dopo tutto, un soggetto adatto non ero sicura di che cosa sarebbe successo. «Non ho intenzione di permetterlo».
«Merda!» esclamò lui, alzandosi di scatto. «Lei ha la possibilità di uccidermi! Mi avete fottuto fino in fondo, vero?».
Lo fissai seria, in silenzio, per alcuni secondi. «Anche lei ha questa possibilità, scommetto» replicai, calma. O, almeno, dopo averlo detto iniziai a sentirmi stranamente calma, per la prima volta da quando quell’uomo era entrato in casa mia.
«Non sia idiota. Se la uccidessi mi farebbero fuori immediatamente».
Continuai a fissarlo.
«Io non la conosco. Potrebbe considerarla una opzione accettabile».
Lui rise in modo quasi isterico. «Un’opzione accettabile? Non credo proprio! Può stare tranquilla, non le farò niente».
Lo stavo ancora guardando quando capì qualcosa. Qualcosa, ne ero certa, di sbagliato. In ogni modo glielo vidi passare il faccia.
«Ma neanche lei può disfarsi di me così alla leggera, giusto? Sarebbe come ammettere un fallimento. La sua è un’antica famiglia».
Come supponevo, non aveva capito niente. Evitai di smentirlo.
«Ci sono fini peggiori che finire in trattamento per cinque anni. In realtà... ha appena evitato una fine peggiore. Propongo di restare entrmbi in vita, nei prossimi mesi».
DeVrai si lasciò cadere a sedere, seccato. Grugnì un assenso per niente convinto.
Allungai una mano. «Patto fatto, Xander?» dissi.
Un guizzo di divertimento passò attraverso i suoi occhi scuri, poi tutto tornò alla calma piatta. Mi strinse la mano in modo formale.
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Quella sera, sul diario, riportando schematicamente gli avvenimenti del giorno, scrissi: iniziato a creare una sorta di alleanza di lavoro. Patto instabile, falsato, ancora in nuce.
Mi chiedevo se fosse possibile spingere un soggetto come DeVrai ad aprirsi a sufficienza da sondarlo in modo soddisfacente. Non ne ero sicura. Non volevo ferire la sua mente, anche se ben poche persone avrebbero condiviso il mio scrupolo, considerando il numero di persone che lui aveva ferito e ucciso per soldi. Mi chiesi per l’ennesima volta se la Curia non volesse semplicemente usarmi per disegnare una mappa della criminalità del paese, dalla criminalità comune, su-su fino agli intrighi politici. Un uomo come DeVrai doveva sapere molte cose, e la sua mente ancora di più.
Non dormii molto bene quella notte, ma l’avevo messo in conto. Inton mi chiamò verso le dieci, così insonnolito dopo una giornata di incontri da non ricordare nemmeno che il mio “ospite” doveva arrivare quel giorno.
Inton era un missionario molto impegnato. Sei mesi all’anno lavorava con il Culto di Agaumia nei peggiori luoghi del mondo e durante gli altri sei raccoglieva fondi per le sue iniziative benefiche. Insomma: non lo vedevo quasi mai.
Malgrado questo c’era sempre una camera per lui nella mia casa, anche se priva di letto. Non avrei mai permesso che dormisse in un posto diverso dal mio.
Quella notte immaginai che fosse sulla strada di casa e che a tarda notte, mentre dormivo, lui si sarebbe infilato nel letto e mi avrebbe baciata sulla nuca. Però, mi dissi per convincermi a prender sonno, se non mi fossi addormentata non sarebbe mai potuto accadere…
Mi ero quasi auto-convinta quando l’immagine di Inton che scivolava in silenzio accanto a me si tramutò improvvisamente in quella di DeVrai. Spalancai gli occhi di scatto, saltai a sedere sul letto e scrutai attentamente tra le ombre. Be’, era troppo buio perché potessi essere sicura di essere sola. Accesi la luce e constatai che, in effetti, lo ero.
Poi saltai giù dal letto, ormai completamente sveglia, e chiusi la porta a chiave.
Non dormii molto presto, dopo tutto quel movimento, ma quando finalmente lo feci un vago pensiero mi accompagnò nel dormiveglia: e se fosse arrivato Inton?
Be’, mi risposi, avrebbe bussato.