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La neve cadeva fitta quando Deane uscì dalla casa per andare verso le stalle. Si avvolse bene la sciarpa di lana pungente, chiuse il mantello fino al mento e si infilò in tasca il piccolo feticcio ripugnante che Aoife aveva portato dal villaggio.
La vecchia Aoife aveva insistito per andare a occuparsi della giumenta malata, ma Deane non glielo aveva permesso. Aoife aveva già camminato diverse miglia nella neve. Lei poteva sopportare un po’ di freddo.
Non appena fu nell’aia quasi si pentì di averlo fatto. La neve era ghiacciata e ogni fiocco era come un piccolo ago. Oltre il candore della neve, la notte era buia come un pozzo. Deane corse fino alla grande porta di legno delle stalle e fece per aprire il chiavistello. Era già aperto.
Non perse altro tempo e spinse il battente, entrando nel relativo tepore dell’interno. Il calore di sette cavalli, trattenuto dalle solide pareti di legno e dalle balle di fieno. Si allentò la sciarpa, chiedendosi perché il chiavistello fosse aperto. Forse il garzone aveva dimenticato di chiuderlo.
Oppure, mentre imperversava la bufera di neve, qualcuno era arrivato fin lì e aveva cercato di rubarle un cavallo. Non ci era riuscito, visto che tutti gli animali erano nei loro stabbi.
La giumenta ammalata era nell’ultimo, ovviamente. Deane aveva cercato di tenerla separata dagli altri, per non innervosirli.
Fece per andare da quella parte. Si fermò. C’era qualcosa di sbagliato. Poi, nella luce incerta, vide gli stivali.
Spuntavano da dietro una balla di fieno. In orizzontale, come se l’uomo che li indossava fosse seduto o sdraiato dietro alla balla. Stivali di pelle nera, pregiati, di cui non vedeva la fine.
Deane si infilò una mano nella tasca del mantello, ma trovò solo il feticcio. Sperò che i suoi poteri non fossero di mera guarigione. Sperò che la difendesse, in qualche modo.
Che cosa poteva fare?
Tornare alla casa e prendere un’arma – consentendo a quello sconosciuto di filarsela con una o due delle sue bestie? Oppure poteva avvicinarsi in punta di piedi, tenendosi vicina alla parete della stalla, per coglierlo sul fatto e farlo scappare?
Avanzò lentamente, i passi felpati sul pavimento coperto di paglia.
Avanzò e avanzò, piano.
Oltre gli stivali c’erano due gambe snelle, avvolte in pantaloni di lana nera, con un ricamo argentato che correva lungo un lato. Decisamente, non sembravano i pantaloni di un ladro di cavalli.
Avanzò ancora. Oltre la balla di fieno, un corpo lungo disteso. Una mano pallida posata in grembo, sporca di sangue.
Deane mise da parte la prudenza e si avvicinò di corsa. Era un uomo ferito, quello di cui aveva visto i piedi! Ancora qualche passo e si rese conto di chi era l’uomo ferito.
Irial O’Donnell di Clanaghal giaceva sul pavimento della sua stalla, privo di sensi. Deane si accosciò accanto a lui. Il bel viso nobile era pallido e sudato, i lunghi capelli scuri sembravano sporchi e aggrovigliati.
«Signore?» lo chiamò Deane, scuotendolo delicatamente per una spalla. «Sua Grazia?».
Il duca di Clanaghal non rispose.
Deane lo scosse un po’ più forte. Non era morto, quello era in grado di dirlo. Il suo petto si alzava e si abbassava, anche se debolmente. «Signore, mi sente?».
Le palpebre dell’altro furono attraversate da un fremito. Si dischiusero appena, come se il duca non riuscisse ad aprirle del tutto.
«Acqua...» mormorò, con un filo di voce.
Deane si guardò attorno, disperata. «C’è solo l’acqua dei cavalli, signore» ammise.
«Acqua...» ripeté l’altro. Aveva la fronte sudata, gli occhi pesti, le labbra screpolate... tremava di febbre, si rese conto Deane. Andò all’abbeveratoio dei cavalli e cercò qulcosa con cui trasportare un po’ d’acqua fino a lui. Non trovò niente. Prese un lembo della sua sciarpa di lana grossa e lo immerse nell’abbeveratoio. Tornò di corsa verso il ferito. Gli dischiuse la bocca e ci strizzò dentro il lembo di sciarpa bagnato. O’Donnell deglutì un paio di volte e si inumidì le labbra con la lingua.
Deane ripeté l’operazione una seconda volta. Per fortuna la sua sciarpa riusciva ad assorbire parecchia acqua.
«Signore...» disse, spostandogli i capelli dagli occhi. «Lei è ferito. Che cosa posso fare per aiutarla?».
Le iridi grigiastre dell’altro si spostarono lentamente sul suo viso, senza che i suoi occhi si aprissero del tutto.
«Sei... una... guaritrice?» chiese, con voce debole.
«No. No, mi dispiace, Sua Grazia».
«Allora... niente. Sto... morendo».
Deane si infilò la mano in tasca. Le sue dita si strinsero sul feticcio. Lo tirò fuori e lo mostrò all’altro. Era un oggetto ripugnante, fatto di fango, di erba, di chissà cos’altro.
«Però ho questo, signore. Per la giumenta. Pensa che...?».
O’Donnell guardò il feticcio e fece un’espressione vagamente disgustata. Poi tremò. «Mettimelo... in bocca...»
Deane fece come le diceva. Doveva essere davvero vicino alla morte per farsi infilare in bocca quella cosa schifosa. O’Donnell chiuse le labbra e anche gli occhi. Il suo viso fu attraversato da una smorfia ed emise un suono sordo, come se avesse un conato di vomito. Succhiò il feticcio lentamente, con gli occhi chiusi. Alla fine Deane lo vide deglutire.
«Blea...» mormorò, riaprendo leggermente le palpebre.
«Lo so, Sua Grazia. Mi dispiace molto. Le è stato... d’aiuto?».
L’altro annuì appena.
«Signore... è ferito molto gravemente, vero?».
O’Donnell deglutì e annuì di nuovo. «Due stoccate. Una... mi ha bucato il fianco. L’altra... mh. È la prima quella pericolosa... è l’altra quella che... fa male».
Deane abbassò di nuovo lo sguardo sul suo corpo. Il corsetto scuro era macchiato di sangue su tutto il lato sinistro. I pantaloni erano macchiati anche loro a sinistra, poco sopra la forcella. Pensò privatamente che se gli avevano bucherellato le palle doveva far male davvero.
«Vado a chiamare la domestica. Purtroppo i garzoni sono andati a casa, vista la bufera. La porteremo al coperto e... non so. Posso andare a chiamare qualcuno, se la tempesta si placa un po’. Oppure cercherò di ricucirla».
O’Donnel la guardò in silenzio. Rabbrividiva ancora di febbre, ma il faticcio sembrava averla abbassata. E Deane ebbe la netta impressione che ponderasse le parole che aveva sentito.
«Sì» mormorò, alla fine.
Deane fece per alzarsi, ma la mano dell’altro si spostò di qualche centimetro, sfiorandole il polso.
«Come ti chiami?».
«Deane» rispose lei. «Deane Flannaghal».
«Grazie, Deane».
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Ne parlarono quasi sottovoce, lei e la vecchia Aoife, alla luce rossastra del camino, al piano terra della grande casa che a Deane aveva lasciato suo padre.
«Possiamo improvvisare una barella con due bastoni, come fanno i cacciatori per trascinare le prede» propose Aoife. Poi sospirò. «Il villaggio era pieno di guardie. Non ci ho fatto caso, ma avrei dovuto».
Deane sorrise un po’ mestamente. «Nessuno poteva prevedere una cosa del genere».
«Betsy morirà, vero?» chiese l’altra.
Deane strinse le labbra. «Non ha importanza» asserì. «Adesso andiamo a prendere quel pover’uomo».
Portarlo dentro non fu semplice, tutt’altro. Quando lo sollevarono O’Donnell emise un gemito e perse di nuovo i sensi. Le due donne si affrettarono ad assicurarlo alla barella improvvisata e poi a trascinarlo dentro, tra il turbinio della neve.
«Dov’è ferito, signorina Deane?» chiese Aoife, quando furono riuscite a trasportarlo fino a una camera del primo piano, quella che era stata del padre di Deane.
«A un fianco» mentì per omissione lei.
Aoife vedeva ormai poco più che ombre, specie di notte. Non aveva senso turbarla con dei particolari... scandalosi.
Sospirò. «Portami un po’ di brandy, un secchio d’acqua, una spugna e il mio cestino del cucito. Cercherò di rimetterlo in sesto come posso».
L’anziana domestica si torse le mani nodose. «Non dovrebbe farlo lei, signorina Deane. Dovrei farlo io, che sono ormai vecchia».
Deane percepì benissimo il sottinteso, ma finse di non essersene accorta. «Non ti offendere, Aoife, ma se lo ricucissi tu probabilmente si troverebbe un bel ricamo su un’altra parte di fianco. Dai, non preoccuparti e vammi a prendere quello che ti ho chiesto» rise.
Quando l’altra se ne fu andata si accostò al letto e posò sul comodino la sua lampada a olio, in modo da vedere quello che faceva. O’Donnell, per fortuna, era ancora privo di sensi. Era una fortuna perché altrimenti sarebbe stato molto più imbarazzante.
Deane iniziò a sciogliere i nodi del farsetto. Era stoffa pregiata, ovviamente, damascata, ma Deane non se ne curò, perché ormai l’indumento era rovinato dallo squarcio che aveva aperto l’avversario del duca, chiunque fosse, e dal sangue rappreso.
«Ecco» disse la voce di Aoife, alle sue spalle. Deane si voltò. L’anziana donna portava un secchio quasi pieno d’acqua e una spugna.
Li prese dalle sue mani e li posò accanto al letto. L’altra uscì di nuovo.
Deane finì di slacciare il corsetto e lo aprì. Al di sotto, la camicia bianca del duca era intrisa di sangue, che si era essiccato solo in parte.
Aoife rientrò con il brandy e con il cestino del cucito.
«Dovrò tagliargli la camicia» disse Deane, aprendo il cestino. «Vai a dormire, Aoife... qua ne avrò per un pezzo e tu sei stata in piedi fin troppo, oggi».
«Forse dovrei restare» considerò l’altra, guardando la camicia insanguinata del duca. Deane era certa che vedesse solo una macchia rossa su una vaga forma biancastra. E, in effetti, Aoife sembrava genericamente turbata dal fatto che una giovane signorina nubile come lei restasse da sola nella stanza con un uomo ancora nel fiore degli anni, nient’altro.
«Vai a letto» ripeté Deane, in tono affettuoso.
D’altronde, pensò, sentendola allontanare, non era più una ragazzina. Se suo padre non si fosse prima ammalato e poi non fosse morto, sarebbe stata sposata da un anno o due. La vita era andata diversamente, ma non era una bambina.
Usando le proprie affilate forbici tagliò per il lungo la camicia del duca. Osservò il suo torace pallido, sporco di sangue. La ferita era sul fianco sinistro, lunga una decina di centimetri, profonda e dai bordi un po’ slabbrati. La lama doveva averlo trapassato tra le costole, ma il punto in cui l’aveva fatto era troppo laterale perché gli avesse bucato qualche organo. O, almeno, così sperava Deane.
Gli sfilò gli stivali e li posò accanto al letto. Poi tagliò la gamba sinistra dei pantaloni. Quando incontrò la stoffa delle mutande, tagliò anche quella.
Fece un bel respiro e osservò ciò che aveva davanti.
Il duca aveva il corpo allenato di un militare, con le gambe snelle e compatte e il torace dai muscoli definiti. D’altronde, veniva considerato un bell’uomo. A Deane venne in mente che il giorno dopo avrebbe dovuto trovare un modo per avvertire la duchessa che O’Donnell era vivo. Al pensiero della duchessa Èanna si vergognò ancora di più di ciò che stava guardando.
Be’, sospirò, immergendo la spugna nell’acqua del secchio, la duchessa avrebbe dovuto perdonarla per aver visto suo marito nudo, visto che probabilmente gli stava salvando la vita.
La ferita all’inguine era più piccola dell’altra, più netta e meno profonda. Era appena a sinistra di... delle parti private dell’altro.
Deane iniziò a ripulire dal sangue la ferita sul fianco. Usò tutta la delicatezza possibile, ma il sangue era incrostato e l’acqua fredda. O’Donnell emise un vago lamento e aprì gli occhi. Chiaramente stordito, guardò lei, la spugna umida e se stesso.
Sul suo viso passò un’espressione dispiaciuta. Spostò lentamente una mano e se la appoggiò a coppa tra le gambe.
Deane gli rivolse un sorriso gentile. «Si è svegliato. Non sono sicura che sia un bene... devo ancora iniziare a ricucirla».
«F-freddo...» mormorò lui.
Deane lo coprì parzialmente con una coperta, drappeggiandogliela sui piedi e sul lato destro del corpo.
«Cercherò di fare presto» gli disse. Finì di pulirgli la ferita al fianco. Prese la bottiglia di brandy e gliela portò alle labbra. «Beva un sorso di questo, prima che lo usi per disinfettarla».
Obbediente, O’Donnell mandò giù un sorso, poi un altro.
«Grazie».
«Adesso brucerà» si limitò a rispondere lei. Versò un po’ di brandy sulla ferita al fianco. L’altro emise un gemito di dolore, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime.
«Ne vuole bere un altro sorso?» gli chiese Deane.
Lui scosse debolmente la testa.
Deane si sedette accanto al letto e infilò un filo in un ago. «Dovrò ricucirla, ora» gli spiegò.
Avvicinò i due lembi della ferita, strappandogli un primo mugolio di dolore. Li infilzò con l’ago, tirò il filo e tagliò. O’Donnell iniziò a respirare velocemente. Era chiaro che l’ago gli faceva male, anche se cercava di non lamentarsi.
Deane ripeté l’operazione cinque volte, prima di annodare tutti i punti lasciandoli un po’ laschi.
«Sei... sei molto brava... dove hai... imparato?» chiese il duca.
«Gli animali» spiegò lei. «L’anno scorso una giumenta ha dovuto essere aperta... per il parto. Il signor Doyle è venuto per l’operazione. È molto esperto. Lo chiamano sempre, in casi del genere. Mi ha insegnato come fare».
Lo disinfettò di nuovo con il brandy e O’Donnell emise una specie di lamento. Preparò un tampone con un panno pulito e lo appoggiò sopra alla ferita.
«Dovrebbe... uhm...»
L’altro capì e scostò la coperta. Deane fece del suo meglio per fasciarlo senza avvicinarsi troppo, ma ovviamente doveva far passare il lino dietro la sua schiena e lui non poteva rivoltarsi. Alla fine, un po’ sudata, legò la fasciatura e si allontanò di un passo.
«Ora ricominciamo» spiegò.
O’Donnell non disse assolutamente nulla. Lasciò che lei ripulisse la sua ferita all’inguine guardando il soffitto, senza spostare la mano dalle sue parti basse.
«Mi dispiace, dovrebbe...» mormorò Deane, senza sapere bene come continuare. Era tutto... incrostato di sangue e il signor Doyle le aveva spiegato che non era una buona cosa. Tutto deve essere pulitissimo, vicino a una ferita, se no arrivavano le mosche, e con le mosche arrivava la cancrena. Non sapeva da dove le mosche arrivassero, anche d’inverno, ma non dovevano farlo.
O’Donnell spostò la mano. «Dispiace a me. Sei... vedova?» chiese.
Deane scosse la testa e l’altro non chiese più niente. Deane pulì delicatamente tutto il sangue. Era la prima volta che vedeva quella parte in un uomo. Nei cavalli era diverso: i testicoli erano in bella vista, ma il membro vero e proprio era in un fodero. Nel caso di O’Donnell era tutto lì, davanti ai suoi occhi.
Deane si rese conto che stava arrossendo, ma continuò a pulire fino a rimuovere ogni traccia di sangue secco.
Poi osservò la ferita.
«Mmh» fece, dimenticandosi dell’imbarazzo. Osservò meglio.
O’Donnell le rivolse uno sguardo perplesso.
«Non... non vorrei sbagliare, Sua Grazia, ma... qui, ehm. La ferita... un’estremità arriva quasi alla coscia. C’è un... tendine? Nei cavalli quello è un tendine e suppongo che gli esseri umani non siano poi così diversi. È... danneggiato. Non è reciso, ma è... intaccato».
«Riesco a muovere... le dita del piede...» disse l’altro.
«Mh? Sì, sì. Solo che... io penso che dovrebbe cercare di stare molto fermo, nei prossimi giorni. In modo che quel tendine possa guarire».
«Se no rimarrei... azzoppato, giusto?».
Deane gli rivolse un’espressione confusa. «Non ne sono sicura. Meglio non correre il rischio».
L’altro annuì debolmente.
Lei prese la bottiglia. «Forse ne vuole un altro po’, prima che cucia?».
O’Donnell annuì di nuovo. Deane lo fece bere, poi versò del brandy sulla ferita. Lui gemette piano.
«Ecco, ora potrebbe rimettere la mano dov’era prima...» mormorò lei, arrossendo di nuovo. Lui si coprì di nuovo.
Deane prese ago e filo. Cucire in quel punto era piuttosto imbarazzante, ma ormai il più era fatto. Diede tre punti in tutto e fece finta di non vedere che O’Donnell piangeva. Appoggiò sulla ferita un altro tampone di stoffa e lo bendò. Questa volta sembrava più semplice. Passò attorno alla coscia e dietro alla vita. In un primo momento pensò di impacchettare tutto, ma poi si rese conto che anche il duca doveva fare la pipì come tutti gli altri.
Sospirò.
«Dovrebbe...» Sospirò di nuovo. Non avrebbe mai finito. Gli spostò la mano, gli spostò il membro più in basso, finì la fasciatura. «Ecco fatto» annunciò sollevata. Lo coprì con la coperta.
«Ha fame? Le porto qualcosa da mangiare?».
«No, grazie... ha già fatto... fin troppo...»
Deane gli rivolse un sorriso un po’ mesto. «È sempre stato generoso con noi, Sua Grazia. Ed è il signore di queste terre. Domattina, se la tempesta è passata, manderò qualcuno al castello. Adesso dorma».
«Deane...» chiamò lui.
Lei tornò a guardarlo.
«Per favore... non... mandare nessuno... al castello...»
Sulla fronte di lei si disegnò una ruga di perplessità. «Dove, allora?».
Lui deglutì. Sembrava spaventato. «Da nessuna... parte. Per favore... promettimelo».
«Lo prometto» disse lei.
Tornò nella sua stanza con più di un pensiero.