Proseguendo oltre, se il nostro neofita, forte del suo nuovo amore per le antichità, volesse imitare ciò che ha imparato ad apprezzare, sarebbe davvero senza giudizio se scegliesse dal dizionario le parole obsolete per utilizzarle in frasi moderne. Questo fu l’errore dell’infelice Chatterton [17] , che per dare una parvenza di antichità al suo linguaggio eliminò ogni parola che fosse moderna, creando così un linguaggio molto diverso da qualunque linguaggio parlato in Gran Bretagna. Chi volesse imitare con successo una lingua antica deve curare la forma grammaticale, il modo di espressione e di costruzione, piuttosto che limitarsi a raccogliere termini stravaganti e antiquati che, come ho già spiegato, ricorrono negli scrittori antichi nella misura di uno a dieci rispetto alle parole in uso.
Ciò che ho detto a proposito del linguaggio, può dirsi, a maggior ragione, dei sentimenti e dei costumi. Le passioni e le cause da cui nascono in tutte le loro manifestazioni sono in genere le stesse in tutte le classi e condizioni sociali, in ogni paese e in ogni epoca. Ne consegue, quindi, che le opinioni, i modi di pensare e le azioni, per quanto influenzati dalla società, devono, nel complesso, somigliarsi. I nostri antenati non erano così diversi da noi, di quanto non lo siano gli ebrei dai cristiani: essi avevano “gli stessi occhi, le stesse mani, organi, dimensioni, sentimenti, affetti, passioni”, ed erano “sfamati dagli stessi cibi, feriti dalle stesse armi, soggetti alle stesse malattie riscaldati dalla stessa estate e infreddoliti e dallo stesso inverno” [18] . L’insieme dei loro affetti e sentimenti, quindi, doveva quindi essere paragonabile al nostro. Ne consegue, perciò, che tra i materiali a disposizione di un autore se ne troverà una gran parte tanto nel linguaggio quanto nel comportamento, che si adatta ai tempi nostri così come ai tempi in cui è narrata l’azione. La libertà di scelta è perciò assai maggiore e le difficoltà del suo lavoro molto minori di quanto non sembri a prima vista. Per prendere un esempio da un’arte sorella, si può dire che i particolari storici rappresentano le caratteristiche di un paesaggio disegnato a matita: la torre feudale deve ergersi in tutta la sua maestà; i personaggi descritti devono avere i costumi e le personalità della loro epoca; il quadro deve rappresentare le caratteristiche della scena prescelta, con le sue alte rupi o i suoi precipizi. Anche i colori devono essere ispirati in generale alla natura. Il cielo deve essere nuvoloso o sereno, a seconda del clima, e le sfumature devono essere quelle proprie di un paesaggio naturale. Fin qui il pittore è vincolato dalle regole della sua arte, ad una precisa imitazione della Natura, ma non è necessario che copi ogni minimo dettaglio, che rappresenti tutte le erbe, fiori e alberi del paesaggio. Questi elementi, così come ogni più impercettibile punto di luce e di ombra, sono attributi propri della scena in generale, comuni a ogni situazione, e soggetti al gusto e alla sensibilità dell’artista. È vero che questa licenza è confinata entro legittimi confini, sia in un caso che nell’altro. Il pittore non può introdurre elementi incoerenti con il clima e l’ambiente del paesaggio; non può piantare cipressi sull’isola di Inch-Merrin o abeti tra le rovine di Persepoli, e così lo scrittore è soggetto a tali vincoli. Per quanto possa descrivere passioni e sentimenti più di quanto non avvenga nelle antiche narrazioni cui si ispira, egli non deve introdurre nulla che sia in contrasto con le usanze dell’epoca. I suoi cavalieri, scudieri, stallieri e arcieri, possono essere ritratti in maniera più completa che non negli scarni e asciutti abbozzi degli antichi manoscritti miniati, tuttavia il carattere e i costumi dell’epoca devono essere rispettati; devono rappresentare le stesse figure disegnate da un pennello migliore o, per parlare più modestamente, eseguite in un’epoca in cui i principi dell’arte sono meglio conosciuti. Il suo linguaggio non deve essere sempre obsoleto e incomprensibile, ma, se è possibile, non deve usare parole o giri di frase che rivelino un’origine chiaramente moderna. Una cosa è far uso della lingua e dei sentimenti che sono comuni a noi e ai nostri padri, un’altra è attribuire ad essi sentimenti ed espressioni che sono esclusive dei loro discendenti.
Questa è, mio caro amico, la parte del mio lavoro che ho trovato più difficile e, ad essere sinceri, non mi aspetto di soddisfare il vostro giudizio e la vostra più vasta conoscenza in materia, dal momento che a malapena sono stato capace di soddisfare me stesso.
Sono consapevole che sarò considerato ancora più carente, per quel che riguarda l’ambientazione e le usanze, da coloro che esamineranno la mia storia in modo rigoroso, facendo riferimento ai costumi del periodo in cui vissero i miei personaggi. Può darsi che io abbia introdotto molto poco che possa essere considerato obiettivamente moderno, ma, d’altronde, è molto probabile che io abbia confuso i costumi di due o tre secoli e abbia introdotto, durante il regno di Riccardo I, circostanze proprie di un periodo notevolmente anteriore o di molto posteriore. Mi conforta il pensiero che errori come questi sfuggiranno all’attenzione dei lettori in generale e che condividerò forse elogi immeritati con quegli architetti che introducono nel loro gotico moderno, senza criterio e metodo, ornamenti propri di altri stili e periodi artistici. Coloro che, grazie alle approfondite ricerche, hanno gli strumenti per giudicare in modo più critico i miei errori, saranno probabilmente più comprensivi, conoscendo le difficoltà del mio compito. Il mio onesto e trascurato amico Ingulphus mi fornì molti e preziosi suggerimenti, ma la luce che mi hanno fornito il monaco di Croydon e Geoffrey de Vinsauff [19] è così offuscata da una tale quantità di materiali privi d’interesse e incomprensibili, che andiamo a cercare sollievo nelle pagine dell’elegante Froissart [20] , anche se egli fiorì in un’epoca molto lontana da quella della mia storia. Se dunque, mio caro amico, siete tanto generoso da perdonarmi il presuntuoso tentativo di forgiare per me stesso una coroncina da menestrello, in parte con perle realmente antiche e in parte con pietre di Bristol e pasta di vetro, con cui ho cercato di imitarle, sono sicuro che il fatto di conoscere le difficoltà dell’impresa vi concilierà con le imperfezioni dell’esecuzione.
Poco ho da dire riguardo i materiali usati. Si possono soprattutto trovare nel singolare manoscritto anglonormanno che sir Arthur Wardour [21] conserva gelosamente nel terzo cassetto del suo mobiletto di quercia, al punto da non permettere quasi a nessuno di toccarlo, nonostante lui stesso non sia capace di leggere una sola sillaba del suo contenuto. Durante la mia visita in Scozia, non avrei mai avuto il suo permesso di leggere per tante ore quelle pagine preziose, se non gli avessi promesso di citarlo, con un certo rilievo tipografico, come Manoscritto Wardour , donandogli così un’importanza pari a quella del manoscritto Bannatyne e del manoscritto Auchinleck [22] e di qualsiasi altro “monumento alla pazienza” di uno scrivano gotico.
Vi ho inviato, perché lo esaminiate personalmente, un elenco dei contenuti di questo curioso scritto che forse, con la vostra approvazione, aggiungerò al terzo volume del mio racconto, nel caso che quel diavolo del mio editore continui a chiedere pagine, quando già l’intera narrazione è già in stampa.
Addio, mio caro amico. Ho già detto abbastanza per spiegare, se non per giustificare, il mio tentativo e che, nonostante i vostri dubbi e le mie carenze, continuo a credere di non aver compiuto invano.
Spero vi siate rimesso dall’attacco di gotta della scorsa primavera e mi farebbe piacere se il vostro dotto medico vi consigliasse un viaggio da queste parti. Ultimamente sono stati esumati parecchi reperti interessanti, dagli scavi presso le mura e l’antica sede di Habitancum. A proposito di quest’ultima, penso che sappiate già della notizia di un rozzo e bisbetico contadino che ha distrutto la statua antica, o meglio, il bassorilievo comunemente chiamato Robin di Redesdale . A quanto pare la fama di Robin richiamava più visitatori di quanto permettesse la crescita dell’erica in una brughiera che vale uno scellino per acro. Anche se vi firmate reverendo, per una volta siate vendicativo e pregate con me che a quel contadino venga un attacco di calcoli, come se tutti i frammenti del povero Robin si fossero accumulati in quella parte delle sue viscere. Non riferitelo a Gath, affinché gli scozzesi non si rallegrino di aver finalmente trovato tra i loro vicini un caso analogo a quella barbara impresa che ha portato alla distruzione del Forno di Arthur. Ma non c’è fine alle lamentele quando si toccano simili argomenti. I miei saluti alla signorina Dryasdust; durante il mio ultimo viaggio a Londra ho trovato gli occhiali che desiderava. Spero che li abbia ricevuti intatti e che siano di suo gradimento. Vi invio questa mia per mezzo del corriere cieco ed è quindi probabile che il viaggio duri un po’ di tempo. [23]
Le ultime notizie che mi sono giunte da Edimburgo dicono che il gentiluomo che occupa la carica di Segretario della Società Scozzese di Studi Storici [24] è il miglior disegnatore dilettante di quel regno, e che molto si aspettano dalla sua capacità e zelo nel delineare quegli esemplari delle antichità nazionali che si stanno sgretolando a causa del tempo, o che sono stati spazzati via dal gusto moderno, per opera della stessa scopa distruttrice che John Knox utilizzò ai tempi della Riforma.
Ancora una volta addio, vale tandem, non immemor mei [25] .
Mi creda, reverendo e carissimo signore,
il vostro fedele e umile servitore.
Laurence Templeton
Toppingwold, nei pressi di Egremont,
Cumberland, 17 novembre 1817.