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Il risveglio dei sensi

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Blurb

Sono passati cinque anni dalla rivoluzione che ha cambiato la faccia del paese. Flor Garcia, figlia di un combattente morto, viene mandata come aiuto domestico nella casa di uno dei leader della rivolta, Santos Ruiz, che da anni vive isolato nella sua “finca” di campagna. Nessuno sa perché abbia rifiutato ogni incarico pubblico e si sia ritirato, ancora giovane, a vita privata. All’inizio Flor è intimidita da quell’uomo silenzioso, quasi seccato di averla attorno, ma presto tra loro si sviluppa un legame speciale, che diventa più profondo di giorno in giorno. Ma tutti i nodi vengono al pettine e non tutti sono felici degli esiti della rivoluzione, a partire da Santos...

-

"Mi voltai su un fianco per guardarlo meglio. «Be’, e hai pagato il prezzo dei tuoi errori, no? O sono balle propagandistiche anche quelle?».

Quello che dicevano le cronache ufficiali era che durante la presa della capitale Santos Ruiz aveva guidato i suoi uomini in un cul-de-sac in cui erano rimasti intrappolati per più di tre ore sotto al fuoco dell’esercito regolare. Erano morti a decine. Alla fine erano riusciti a sfruttare le tenebre per aprirsi la strada con un’azione a sorpresa. C’erano state altre morti e Ruiz era rimasto gravemente ferito, tanto che per un giorno si era temuto che morisse anche lui.

«No, no...» rispose.

Si voltò a sua volta su un fianco e si sollevò la maglietta. Per qualche istante restai come ipnotizzata da quel torace incredibilmente appetitoso. Gli addominali definiti, la pancia piatta, i fianchi asciutti... e una lunga cicatrice, che partiva da sotto al suo capezzolo sinistro e attraversava il busto, finendo per scomparire in basso, oltre la cintura dei pantaloni.

«Merda» commentai, senza riuscire a distogliere gli occhi. Santos fece per ricoprirsi, ma io stavo già percorrendo la lunghezza della cicatrice con la punta dell’indice. Era una linea sottile, sporgente, di un rosa più brillante del resto della sua pelle bruna.

Senza avere un’idea di che cosa stessi facendo, allungai la testa e deposi un bacio delicato dove la cicatrice iniziava. Poi un altro, poco più in basso. Poi un altro.

«Flor? Che cosa stai...» mormorò Santos, ma era troppo tardi anche per lui. Mi resi conto che qualcosa si era mosso dentro ai suoi pantaloni e continuai a baciarlo. Lo rivoltai sulla schiena e lui restò lì, con gli occhi socchiusi, passivo, ma certamente non contrario."

CONTIENE SCENE ESPLICITE - CONSIGLIATO A UN PUBBLICO ADULTO

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1.
1. La casa di Santos Ruiz Moreno sorgeva ai confini meridionali della capitale, in una fascia in cui la città si confondeva con la campagna. Dalla fermata dell’autobus bisognava percorrere un tratto di una strada privata, ben tenuta, sul cui lato si allineavano delle ville recintate. Si proseguiva fino alla fine della via, che terminava in un piccolo piazzale in cui le macchine potevano manovrare per tornare indietro, e si prendeva una strada sterrata che saliva sulla collina. A quel punto camminavi in mezzo agli alberi per un’altra decina di minuti e raggiungevi la casa di Santos Ruiz. Per quanto fosse vicina alle ville di campagna che avevo appena superato era evidente che fosse una costruzione di tutt’altro tipo, per tutt’altro tipo di abitante. Era una vecchia “finca” contadina con l’intonaco di un bianco sporco, il tetto di tegole rosse ombreggiato dagli alberi e un semplice portico sul davanti. Le finestre del secondo piano avevano le persiane aperte, verde brillante, e su un lato la facciata era coperta da un rampicante. Subito oltre il gradino del portico erano allineati dei vasi di fiori, mentre davanti si apriva uno spiazzo lastricato, con l’erba che spuntava tra una pietra e l’altra. Era una bella casa, pensai la prima volta in cui la vidi, una casa solida, accogliente, un po’ trascurata. Ed era lì che si era ritirato Santos Ruiz Moreno, uno dei Padri della Rivoluzione, l’unico a non aver voluto far parte del governo. Dalla presa della capitale erano passati cinque anni. Francisco Cabrera Flores era stato il premier per i primi quattro, per poi lasciare il posto a Oliverios Sànchez Navarro, tuttora in carica. I suoi compagni di battaglie si erano presi il potere e gli onori, Santos Ruiz aveva chiesto solo di essere lasciato in pace. Qualcuno diceva che non fosse più d’accordo con la linea d’azione degli altri due, ma che avesse deciso di non intervenire. Qualcuno diceva che la morte di Isabella Delgado Ortiz, il fiore reciso della Rivoluzione, l’avesse privato di ogni volontà di vivere e forse del senno. Qualcuno diceva che le ferite riportate durante la presa della capitale lo avevano reso un invalido e che solo a costo di grandi sacrifici riusciva a mostrarsi in pubblico per la Giornata della Libertà, una volta all’anno. Non sapevo se quelle voci fossero vere, ma probabilmente l’avrei scoperto presto. Mio padre era stato uno dei combattenti, durante la Rivoluzione, e questo significava che il Comitato si era preso cura di me, dopo la sua morte. A causa della guerra civile non avevo potuto studiare in modo regolare, quindi, a ventun anni, mi stavo ancora mettendo in pari con le superiori. Studiavo alla sera e lavoravo di giorno, e ormai avevo quasi finito. Il mio sogno era di andare all’università e iscrivermi alla facoltà di filosofia, ma non sapevo se il Comitato sarebbe stato d’accordo. Forse sì. Il compagno Delmar diceva che ero sveglia e imparavo presto. E poi quand’ero ancora una ragazza avevo aiutato a confezionare le cartucce per i fucili... anch’io avevo dato un piccolo apporto alla Rivoluzione. Attraversai lo spiazzo davanti alla casa di Santos Ruiz, un po’ stupita che non ci fosse nemmeno una staccionata. Chiunque avrebbe potuto entrare e fargli del male. Ed era vero che la Rivoluzione ci aveva liberati, ma c’erano ancora molti nostalgici del vecchio regime, alcuni folli e pericolosi. Salii il gradino che portava al porticato, con le sedie di vimini e un tavolino. La porta era aperta. Scostai la tenda che impediva agli insetti di entrare e avanzai cautamente nel salone che si apriva subito oltre l’uscio. «C’è nessuno? Compagno Ruiz?» chiamai. Mi guardai attorno. La sala era in ombra, fresca e profumata di carta. Il motivo era semplice: c’erano libri accatastati un po’ dappertutto, dal tavolo al pavimento accanto alle poltrone, ai bassi mobili, ai tavolini da caffè. «Ehi, ciao». Mi voltai di scatto e iniziai a tossire, presa alla sprovvista. La sagoma di un uomo si stagliava nel vano di una delle porte che davano sul salone. La luce solare ne rendeva invisibili i lineamenti, ma doveva essere Santos Ruiz. Dalla porta veniva anche odore di caffè, così dedussi che si trattasse della cucina. «Tutto bene?» chiese, avvicinandosi di un passo, un po’ incerto. A quel punto lo vidi. Naturalmente era lo stesso Ruiz che avevano ripreso alla televisione all’ultima Giornata della Libertà, ma era anche diverso. Era alto e snello, con capelli, occhi e pelle scuri, come in televisione. Ma i capelli riccioli erano arruffati e aveva la barba di un paio di giorni. Invece del completo da sera portava una maglietta bianca, i pantaloni di cotone di una tuta e delle scarpe da ginnastica bianche. La maglietta non nascondeva i muscoli tonici delle braccia e lasciava intuire pettorali e addominali allenati. «Scusa, compagno Ruiz. Mi hai presa alla sprovvista. Sono Flor Garcia Suàrez, il Comitato mi ha mandata ad aiutarti con la casa» dissi. Per un attimo Ruiz sembrò perplesso. Mi squadrò con le sopracciglia inarcate, come se non sapesse come reagire. Dovette pensare che accanirsi contro una ragazza esile e dall’espressione spaventata non sarebbe stato elegante, così finì per farmi cenno di seguirlo. «Be’, vieni. Ho appena preparato il caffè». Mi precedette in cucina. Era un ambiente grande e pieno di luce. Sui fornelli un po’ vecchiotti ma ben tenuti c’era una caffettiera fumante. Mi fece segno di sedermi al tavolo dal ripiano di marmo, su una delle sedie impagliate. Prese due tazze da una rastrelliera, versò il caffè e posò le due tazze sul tavolo insieme a una zuccheriera un po’ antiquata, di ceramica bianca profilata d’azzurro. Mentre faceva tutto questo non pronunciò una parola, e io mi guardai bene dal parlare. Ero intimidita. Quello lì era uno dei Padri della Rivoluzione. Quel tizio con la barba troppo lunga e la maglietta bianca aveva rovesciato con le armi il regime totalitario sotto il quale io ero nata. Per lui e per gli altri leader della rivoluzione mio padre aveva dato la vita. E anche se in teoria tutti avevano gli stessi diritti e doveri e contavano uguale, le famiglie di Oliverios Sànchez e di Francisco Cabrera vivevano nei grandi palazzi del centro, guardate discretamente dai militari. Sànchez abitava nella Casa Amarillo, la residenza ufficiale dei primi ministri, con attorno ettari di parco recintato. Mentre Santos Ruiz sedeva davanti a me, in maglietta e pantaloni della tuta, e spingeva la zuccheriera dalla mia parte come a dirmi di servirmi. Lo feci. Le mie mani tremavano debolmente e sperai che non se ne accorgesse. Lui bevve un sorso di caffè amaro e tornò a guardarmi. In quell’ambiente luminoso i suoi occhi castani avevano decine di piccole pagliuzze dorate e davano l’impressione di essere contemporaneamente giovanissimi e vecchissimi. «Dunque... aiutarmi con la casa. Che cosa pensavi di fare?». Deglutii. «Ehm, quello che vuoi tu, compagno. Le pulizie, cucinare, riordinare... non lo so». «Chiamami Santos, per favore. Non mi interessa essere il compagno Ruiz. Suppongo che vogliano assicurarsi che non sia diventato più pazzo del solito. Ogni tanto mandano qua qualcuno. Una domestica, una puttana, un giardiniere, un veterano... cercano sempre qualcuno che possa destare la mia simpatia. E sono anche abili, non dico di no». Bevve un altro sorso. «A chi devi riferire?». Scossi la testa, preoccupata. «No, a nessuno, lo giuro». Lui sorrise appena. «Non ti mangerò. Non mangio ragazzine spaventate. Ma tu cerca di non essere così spaventata, okay? Se non devi riferire troveranno un altro modo per farti delle domande sul mio conto. Rispondi pure sinceramente... non ho niente da nascondere». «Io... non so che cosa dire». «Non c’è bisogno di dire niente, Flor Garcia Suàrez». Finì di bere il suo caffè e si alzò. Lasciò la tazza vuota nel lavello. «Non faccio niente di speciale. Qua dietro c’è il mio orto... me ne occupo io. Il resto del tempo mi alleno e leggo. Specialmente leggo, diciamo. Se senti il bisogno di cucinare, spolverare o fare quello che ti hanno mandata a fare, fai pure. Andrà bene comunque». +++ Le giornate erano stranissime, a casa Ruiz. Arrivavo nella tarda mattinata in autobus, mi legavo i capelli e iniziavo a pulire. Era una grande casa contadina, piena di libri e di vecchie cose, la polvere si accumolava velocemente. Ruiz dormiva in una stanza del primo piano affacciata sul davanti. La arieggiavo, sprimacciavo i cuscini e rifacevo il letto. Pulivo il suo piccolo bagno personale. Mi occupavo delle altre stanze al primo piano, ma con meno cura, visto che non le usava nessuno. Poi scendevo al piano terra e spolveravo nelle tre stanze stipate di libri fino al soffitto sul retro. In realtà i libri non ci stavano più, quindi tracimavano nelle altre stanze, dove finivano impilati qua e là. Cercavo di spolverare tutto, per poi spazzare e passare lo straccio. A quel punto Ruiz di solito tornava dall’orto. Faceva il caffè e lo bevevamo insieme, seduti al tavolo della cucina. A volte scambiavamo due parole, ma per lo più restavamo in silenzio. Dopo lui andava a farsi una doccia, per poi sprofondarsi in una poltrona e leggere. Leggeva voracemente, come se fosse l’unica cosa importante della sua vita. Io restavo in cucina e iniziavo a preparare il pranzo. C’erano sempre verdure fresche e frutta, mentre la carne la compravo io in città. Per pranzo facevo qualcosa di leggero, perché dopo mangiato Ruiz andava ad allenarsi. Non sapevo bene che cosa significasse, perché si chiudeva in una stanza, oltre una porta che restava sempre chiusa. Sentivo provenire dei tonfi, come se picchiasse su un sacco da pugilato, e degli schianti, come se rompesse delle stecche di legno. Quando usciva era lucido di sudore e saliva a farsi un’altra doccia. Io mettevo in ordine quello che c’era da mettere in ordine, poi mi riposavo a mia volta. Mi sedevo su una delle poltrone troppo morbide e sceglievo un libro a caso dall’enorme massa di libri di Ruiz mentre lui faceva la siesta. Dopo la siesta usciva. Andava nell’orto o a fare una passeggiata nei dintorni, per tornare più o meno all’ora di cena. Io leggevo e poi cucinavo qualcosa di più sostanzioso. Mangiavamo insieme al tavolo della cucina, praticamente in silenzio. A volte parlavamo di come stava venendo su qualche verdura. “I pomodori sono belli sugosi” dicevamo, o “pensi che i fagiolini non fossero ancora da raccogliere?”. A volte parlavamo del tempo o della manutenzione della casa. Così scivolò via il primo mese e io ormai mi stavo abituando a occuparmi di quell’uomo silenzioso e tranquillo, che non chiedeva mai niente e aveva rinunciato a essere una figura pubblica. Mi chiedevo che cosa lo avesse spinto a quella sorta di reclusione, a soli trentacinque anni, ma dovevo ammettere che il modo in cui viveva aveva un certo fascino. O forse il fascino lo aveva soltanto lui, come lo aveva sempre avuto. Che lo volesse o meno i suoi occhi erano magnetici e ti dava l’impressione di sapere sempre con precisione che cosa stava facendo. Non mi stupiva che migliaia di uomini l’avessero seguito per combattere per la rivoluzione. Seguirlo sembrava naturale, in un certo senso. Il fatto che Ruiz non volesse più essere seguito da nessuno non aveva cancellato questa sua abilità naturale. Dopo cena, lavavo i piatti e li mettevo ad asciugare. Poi mi scioglievo i capelli e andavo via in tempo per prendere l’ultimo autobus. +++ Più o meno dopo un mese questa tranquilla routine iniziò a cambiare. Quella mattina avevo arieggiato camera sua, avevo pulito e fatto le solite cose, ma al momento del caffè avevo qualcosa di cui parlargli. Ruiz rientrò dall’orto caldo di sole, con addosso un odore di salvia, terra e sudore ancora fresco. Mise la caffettiera sul fuoco e prese le tazze, in silenzio. «Ieri sera è venuto a parlarmi il compagno Delmar» dissi io. Ruiz si voltò verso di me e mi guardò, ma non disse niente. Quel giorno indossava una maglietta di cotone azzurro, che risaltava sulla sua pelle ambrata, e dei pantaloni di una tuta grigio chiaro, stretti alla caviglia. Se non fosse stato così serio e silenzioso mi sarebbe venuta voglia di morderlo, perché era bello, virile e sensuale. Ma teneva a distanza le persone, me compresa, quindi quella mattina mentre gli dicevo del compagno Delmar ero più che altro preoccupata. «Mi ha chiesto come mi trovavo, se il lavoro era troppo duro, se il compenso mi bastava per vivere. Ma a volte lo fa. Di passare, dico. Per chiedermi come va con la scuola e così via. Era amico di mio padre». Ruiz annuì lievemente. «Ho capito». «Mi ha chiesto com’era... be’, com’eri tu, in pratica. Non so se era solo curiosità. Sai... gossip». «Gossip?» fece lui, inarcando le sopracciglia. «Sì, insomma... perché non compari mai in pubblico e così via». «Non vedo perché dovrei comparire. Non ho niente di cui parlare». Sollevai le mani come a dire che mi arrendevo. «Ehi, stavo solo ipotizzando che parte delle sue domande dipendessero da quello... non sto criticando». Ruiz sbuffò appena, ma il suo cipiglio si sciolse. «Lo so. Probabilmente l’ha mandato qualcuno. Sapevo che sarebbe successo». Versò il caffè e mi mise davanti la mia tazza e lo zucchero, mentre lui restò in piedi, appoggiato contro il bancone. «Gli ho detto che conduci una vita sana, ti tieni in forma e coltivi l’orto. Che fai delle belle passeggiate e leggi molto. Tutto qua. Hai detto che non è un segreto, giusto?». Lui scosse la testa. «Ma certo. Non è un segreto, infatti. Quindi vai a scuola? Pensavo che avessi già finito». Mi strinsi nelle spalle, un po’ intimidita. Prima di quel momento non aveva mai chiesto nulla su di me. «Ehm, no. Sto finendo le superiori. Sono indietro per via... ho perso quattro anni, durante la guerra. Voglio andare all’università». Ruiz socchiuse gli occhi. Tutte quelle pagliuzze dorate e brillanti. Per la prima volta sembrava interessato. «Davvero? Che cosa?». «F-filosofia. Pensavo». Lui bevve un sorso dalla sua tazza e mi rivolse un mezzo sorriso, mentre un guizzo di divertimento gli attraversava lo sguardo. Per la prima volta quel suo abbozzo di sorriso fu seducente, o questa fu la mia impressione. «Almeno ora so che libri leggi, mentre io dormo». Arrossii di colpo, aprendo la bocca senza riuscire a dire niente. «Ehi, va bene. Me ne sono accorto subito, se mi avesse dato fastidio te lo avrei detto. Ma non riuscivo mai a capire che libri leggessi, perché li rimetti sempre a posto esattamente dov’erano». Abbassai lo sguardo. «Ne hai così tanti». Sentii le sue dita che mi facevano rialzare il mento. La pelle ruvida delle sue mani. So che arrossii di nuovo, perché mi sentii la faccia improvvisamente calda e avvertii un brivido che correva dal petto al sesso, ugualmente caldo. «Mi fa piacere che li legga anche qualcun altro. È quello a cui servono, no? Non smettere, per favore». Scossi la testa. «N-no». Lui sbuffò e mi rivolse un mezzo sorriso bonario. «Uno di questi giorni ti convincerai anche che non ti mangerò». Non replicai, ma in realtà pensavo che farsi mangiare da lui non doveva essere niente male.

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