— È quella la nostra ultima dimora? — chiese.
— Sì — rispose il dottore.
— Quando l’hai fatta costruire?
— Lo scorso anno.
— Lo sanno gli abitanti della borgata?
— No, perché ho fatto venire gli operai ed i vetri da Nuova York.
— E la rispetteranno?
— Lo scoglio è mio: l’ho acquistato dal comune, con contratto regolare, ed il notaio ha l’ordine di far distruggere il sentiero che conduce quassù e di cingere la scogliera con una cancellata di ferro altissima.
— Che ho già ordinata — disse il signor Max. — Nessuno verrà a disturbarvi.
— Entriamo — disse il dottore.
Con una chiave a segreto aprì una porticina di ferro tanto bassa che non si poteva entrarvi che carponi, ed i tre uomini si introdussero nel piccolo edificio.
L’interno era tutto coperto da vetri molto spessi incastrati in robuste cerniere di rame, e di notevole non aveva che un letto molto largo e basso, con coperte piuttosto pesanti ed un piccolo scaffale su cui stavano delle bottiglie e delle siringhe.
— Ecco la mia dimora, o meglio la nostra — disse Toby, rivolgendosi all’amico. — Ti rincresce?
— Niente affatto — rispose il giovane, che guardava l’oceano attraverso la cupola di vetro.
— Spero che nessuno verrà a disturbarci prima del giorno che avremo fissato nel nostro testamento. Che piacere udire il fragore delle onde! Ecco una bella compagnia.
— Ritengo inutile che tu ti provveda di un letto. Questo è più che sufficiente per tutti e due.
— Ed il sotterraneo dove hai depositato i tuoi valori?
Il dottore si curvò, levò una piastra di ferro che si trovava ai piedi del letto e mostrò una stretta gradinata scavata nella viva roccia, che doveva mettere in qualche cella sotterranea.
— La cassaforte si trova là dentro — disse.
— Vi rinchiuderò anche i miei valori. Domani andrò a Nuova York a cambiare la mia carta e le mie azioni ferroviarie in oro. Ne avremo abbastanza al nostro risveglio. A quando il nostro sonno?
— Fra otto giorni; appena avranno chiusa la base della roccia colla cancellata.
— Una domanda ancora, mio caro dottore. Se si dimenticassero di risvegliarci? Sai che io non ho nessun parente.
— Io ho una sorella che ha sette figli — rispose Toby. — Spero che fra cent’anni esisterà ancora qualche pronipote per venire a riaprirci gli occhi, o per impossessarsi del nostro tesoro nel caso che noi fossimo proprio morti; e poi vi è il notaio ed ho anche depositato un atto presso il sindaco. Non temere James: qualcuno verrà a raccogliere la nostra eredità.
— I miei successori non si dimenticheranno di voi, siatene certi — disse il signor Max.
— Hai nessun’altra obiezione da fare, James? — chiese Toby.
— No — rispose il giovane.
— Sei risoluto a tentare l’esperimento?
— Hai la mia parola.
— Allora, torniamo a casa mia a fare gli ultimi preparativi.
Uscirono, chiusero la porticina, scesero lo scoglio e salirono sulla carrozzella senza aggiungere altra parola.
Dobbiamo confessare però che tutti e tre erano visibilmente commossi.
Otto giorni dopo, prima del tramonto del sole, Brandok, il dottore ed il notaio lasciavano inosservati la borgata e si mettevano in cammino per lo scoglio di Retz.
Avevano ormai prese tutte le disposizioni per quella dormita che doveva durare cent’anni, e tutte le misure perché in quel lunghissimo tempo nessuno si recasse a disturbarli.
Il signor Brandok aveva già fatto trasportare nottetempo i suoi milioni e li aveva rinchiusi nella cassaforte nascosta nel piccolo sotterraneo; aveva venduto tutti i suoi possedimenti, lasciando una parte del ricavato al comune dell’isola purchè vegliasse sulla tomba; il dottore aveva regalato la sua casetta alla sua cuoca e fatto innalzare intorno alla piccola costruzione la cancellata di ferro sulla quale aveva fatto collocare parecchie lastre di metallo colla scritta: Proprietà privata del dottor Toby Holker.
Quando giunsero sulla cima della rupe il sole stava per tramontare in un oceano di fuoco.
Tutti e tre s’erano fermati, guardando l’oceano che fiammeggiava sotto i riflessi del tramonto e che s’increspava leggermente sotto la brezza della sera.
In lontananza un grande piroscafo fumava, dirigendosi verso la costa americana; lungo le scogliere dell’isola alcune barche pescherecce s’avanzavano dolcemente, tornando verso il porto della piccola borgata; alla base della rupe le onde s’infrangevano rompendo il silenzio che regnava sull’immenso oceano. I tre uomini tacevano: il notaio sembrava profondamente commosso; Brandok e Toby un po’ preoccupati. Rimasero così parecchi minuti, guardando ora le barche ed ora il sole che pareva si tuffasse in acqua; poi ad un tratto il dottore si scosse, dicendo: — Non ti penti della parola data, James?.
— No — rispose Brandok, con voce calma.
— Anche se non dovessimo risvegliarci mai più?
— Nemmeno.
— Signor Max, salutiamoci ed abbracciamoci, poichè non ci rivedremo mai più, a meno di un miracolo.
— Bisognerebbe che campassi centoquarant’anni, una età impossibile — disse il notaio, sospirando. — Io morrò, mentre voi risusciterete.
— Un abbraccio, amico, e lasciamoci.
Il signor Max, vivamente commosso, cogli occhi umidi, si strinse fra le braccia il dottore, tenendoselo per qualche momento sul petto.
— Addio, signor Brandok — disse poi, con voce rotta, porgendogli la mano. — Vi auguro di tornare in vita e di ricordarvi di me.
— Ve lo promettiamo — rispose il giovane. — Addio, signor Max: noi andiamo a dormire.
Il notaio s’allontanò, volgendosi più volte per un gesto d’addio; poi scomparve pel sentiero che conduceva alla base della rupe dove aveva collocato una grossa cartuccia di dinamite, per distruggerlo.
— Vieni James — disse Toby, quando furono soli. — Guarda un’ultima volta l’oceano.
— L’ho guardato abbastanza, e poi non lo troveremo certo cambiato, se risusciteremo.
Aprirono la porticina ed entrarono nella loro tomba, che gli ultimi raggi di sole illuminavano a sufficienza, facendo scintillare la cupoletta di vetro.
Toby prese dalla mensola una bottiglia e due bicchieri e la stappò.
— Un buon bicchiere di champagne — disse, versando lo spumeggiante nettare. — Alla nostra risurrezione, James!
— O alla nostra morte, che per me sarà lo stesso — rispose il giovine, forzandosi di sorridere.
— Almeno lo spleen non mi tormenterà più.
Vuotarono d’un fiato i bicchieri, poi il dottore chiuse in un plico alcuni documenti che collocò entro una cassetta di metallo.
— Che cosa fai, Toby? — chiese Brandok.
— Qui dentro vi sono le fiale contenenti il misterioso liquido che dovrà ridarci la vita, e insieme la ricetta che insegnerà come dovranno servirsene coloro che verranno a risvegliarci.
— Hai finito?
— Sì. Un altro bicchiere.
— Sia — rispose Brandok.
Vuotarono la bottiglia, poi il dottore sturò una fiala ed empì due piccole tazze. Era un liquore rossastro, un po’ denso, che aveva un profumo speciale.
— Bevi — disse, porgendo una delle tazze a Brandok.
— Cos’è?
— Il narcotico che ci addormenterà, o meglio che sospenderà la nostra vita e che impedirà alle nostre carni di corrompersi.
Il giovane prese la tazza con mano ferma, guardò il liquido in trasparenza, poi lo tracannò senza che un muscolo del suo viso avesse trasalito.
— È un po’ amaro, però non è cattivo — disse. — Ah! che freddo, Toby. Mi pare di avere un blocco di ghiaccio al posto del cuore.
— Non è nulla, e poi durerà poco. Gettati sul letto e copriti.
Mentre Brandok obbediva, il dottore bevve anch’egli la sua tazza, poi s’accostò barcollando ad un vaso di terra che si trovava in un angolo ed afferrato un martello che si trovava li presso, con un colpo vigoroso ne spezzò il coperchio, poi raggiunse frettolosamente il compagno.
Una temperatura da Siberia aveva invaso la stanza. Pareva che da quel vaso misterioso uscisse una corrente d’aria gelata, come quella che spira nelle regioni polari.
Il dottore guardò Brandok: il giovane non dava più segno di vita. Pareva che la morte l’avesse colto di colpo.
— Fra... cento... anni... — ebbe appena il tempo di balbettare il dottore, e stramazzò a fianco dell’amico. Nello stesso momento l’ultimo raggio di sole si spegneva e le prime ombre della notte scendevano sul sepolcreto.