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Le meraviglie del Duemila

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Fantascienza e fantasia.

Emilio Salgari fu principalmente un narratore di avventure ambientate tra pirati, corsari e tigri di Mompracen. Un"eccezione a questa scrittura, sicuramente la più meritevole di attenzione, è costituita dal suo romanzo Le meraviglie del duemila (1907) considerato il testo più importante della "protofantascienza" italiana. È la storia di due uomini che, grazie alla scoperta di un principio attivo di una strana pianta esotica che sospende le funzioni vitali, riescono a viaggiare nel tempo per ben cento anni, spostandosi dal 1903 al 2003, ritrovandosi a vivere in una società profondamente cambiata; potranno così conoscere un mondo popolato da macchine volanti, treni sotterranei e velocissimi, città sottomarine e molte altre meraviglie tecnologiche poi realizzate. Gli uomini del futuro sono in contatto con i marziani ed entrambi i popoli conoscono il volo interplanetario. I protagonisti finiscono però per perire a causa dell"eccessiva frenesia della vita del futuro e dell"elettrificazione dell"aria: un monito di Salgari contro i rischi celati nel progresso scientifico che fa collocare questo romanzo più nel filone distopico che in quello utopico.

L"autore: Emilio Carlo Giuseppe Maria Salgari (Verona, 21 agosto 1862 – Torino, 25 aprile 1911) è stato uno scrittore italiano di romanzi d"avventura molto popolari. Conosciutissimo e molto apprezzato in Italia e in tutto il mondo, ha scritto pagine tra le più significative per la letteratura rivolta ai ragazzi, di carattere avventuroso, di scoperta di cosa potrebbe accadere nel futuro.

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Il fiore della risurrezione-1
Il fiore della risurrezione Il piccolo battello a vapore che fa il servizio postale una volta alla settimana, fra Nuova York, la più popolosa città degli Stati Uniti d’America settentrionale e la piccola borgata dell’isola Nantucket, quella mattina era entrato nel piccolo porto con un solo passeggero. Accadeva spesso, durante l’autunno, terminata la stagione balneare, che rarissime persone approdassero a quell’isola, abitata solo da qualche migliaio di famiglie di pescatori che non s’occupavano d’altro che d’affondare le loro reti nei flutti dell’Atlantico. — Signor Brandok — aveva gridato il pilota, quando il battello a vapore s’era ormeggiato al ponte di legno — siamo giunti. Il passeggero, che durante la traversata era rimasto sempre seduto a prora senza scambiare una parola con nessuno, s’era alzato con una certa aria annoiata, che non era sfuggita nè al pilota, nè ai quattro marinai. — I divertimenti di Nuova York non lo hanno guarito dal suo spleen — mormorò il timoniere del piccolo battello, volgendosi verso i suoi uomini. — Eppure, che cosa manca a lui? Bello, giovane e ricco... se fossi io al suo posto!... Il passeggero era difatti un bel giovane, tra i venticinque e i ventott’anni, di statura alta come sono ordinariamente tutti gli americani, questi fratelli gemelli degli inglesi, coi lineamenti regolarissimi, gli occhi azzurri ed i capelli biondi. Aveva invece negli sguardi un non so che di triste e di vago che colpiva coloro che lo avvicinavano, e nelle sue mosse qualcosa di pesante e di stanco, che contrastava vivamente col suo aspetto robusto e florido. Si sarebbe sospettato che un male misterioso minasse la sua gioventù e la sua salute, nonostante la bella tinta rosea della sua pelle, quella tinta che indica la ricchezza e la bontà del sangue delle forti razze anglosassoni. Come abbiamo detto, udita la voce del pilota, il signor Brandok s’era alzato quasi a fatica, come se si risvegliasse in quel momento da un lungo sonno. Sbadigliò due o tre volte, gettò uno sguardo assonnato sulla riva, toccò appena la tesa del suo cappello per rispondere al saluto rispettoso dei marinai e scese lentamente sul pontile di legno. Invece di dirigersi verso la borgata, le cui casette s’allineavano a duecento passi dal porticciolo, si mise a camminare lungo la spiaggia, colle mani affondate nelle tasche dei pantaloni e gli occhi semichiusi, come fosse in preda ad una specie di sonnambulismo. Giunto all’estremità della borgata si fermò e aprì gli occhi, fissandoli su un gruppo di monelli scalzi ad onta dell’aria frizzante, che si rincorrevano lungo le dune ridendo e schiamazzando. — Ecco degli esseri felici — mormorò con un tono d’invidia. — Essi almeno non sanno che cosa sia lo spleen. Stette qualche istante immobile, poi scosse il capo, mandò un lungo sospiro e riprese la passeggiata, per fermarsi alcuni minuti dopo dinanzi a una bella casetta a due piani, tutta bianca, colle persiane verniciate e un giardinetto chiuso da una cancellata in legno. — Che cosa farà il dottore? — mormorò, guardando le finestre. — Starà tormentando qualche cavia o qualche povero coniglio. Il segreto di poter rivivere dopo cent’anni, bell’idea! Io credo che quel buon Toby perda inutilmente il suo tempo. Eppure egli è molto più, felice di me. Tornò a sospirare, attraversò lentamente il giardinetto il cui cancello era aperto e salì la scala, senza quasi rispondere al saluto di una grassa e rubiconda fantesca che gli aveva gridato dalla cucina: — Buon giorno, signor Brandok; il mio padrone è nel suo studio. Il giovine era già al secondo piano. Aprì una porta ed entrò in una stanza piuttosto vasta e bene illuminata da due ampie finestre, tutta circondata da scaffali di noce pieni di un numero infinito di storte e di bottiglie variopinte. Nel mezzo, curvo su una tavola, vi era un uomo sui cinquantacinque anni, di forme quasi erculee, con una lunga barba un po’ brizzolata e tutto intento ad osservare un coniglio che pareva, a prima vista, o morto o addormentato. Udendo aprirsi la porta si levò gli occhiali e si voltò con una certa vivacità, esclamando con voce giuliva: — Ah! sei tornato, amico James? Ti sei stancato presto di Nuova York e mi pare che tu non abbia un’aria molto soddisfatta. Il giovine si lasciò cadere sopra una sedia che si trovava presso la tavola e rispose con un mesto sorriso. — Dunque? — chiese l’uomo attempato, dopo un breve silenzio. — Sono più annoiato di prima ed è un miracolo che sia qui — rispose Brandok. — Perché? — Avevo già deciso di fare un bel salto dal faro della Libertà e di sfracellarmi sul molo. — Una brutta sciocchezza, mio caro James. A ventisei anni, con un milione di dollari... — E cento milioni di noia che mi fa sbadigliare da mattina a sera — disse il giovine, interrompendolo. — La vita diventa ogni giorno più insopportabile e finirò per sopprimermi. Un viaggio all’altro mondo non mi dispiacerebbe. Forse là m’annoierò meno. — Viaggia in questo mondo, amico. — Dove vuoi che vada, Toby? — disse Brandok. — Ho visitato l’Australia, l’Asia, l’Africa, l’Europa e mezza America. Che cosa vuoi che vada a vedere? Il dottore s’era messo a passeggiare per la stanza, con le mani dietro al dorso, la testa bassa, come se un profondo pensiero lo preoccupasse. Ad un tratto si fermò dinanzi al coniglio, dicendo: — James, ti piacerebbe vedere come camminerà il mondo fra cent’anni? Il giovane Brandok aveva alzato la testa che teneva inclinata su una spalla, interrogando il dottore collo sguardo. — Sì, — riprese Toby — io voglio vedere che cosa sarà l’America fra venti lustri. Chissà quali meraviglie avranno inventato allora gli uomini. Macchine straordinarie, navi colossali, palloni dirigibili e mille altre cose strabilianti. Ormai il genio umano non ha più freno e gl’inventori nascono come i funghi. — Hai trovato finalmente il modo di prolungar la vita? — chiese Brandok, con tono leggermente ironico. — Di fermarla, invece. — Ah! — Ne vuoi una prova? — Possibile che tu abbia fatta una simile scoperta? — esclamò Brandok, con stupore. — So che tu da molti anni ti dedichi a certi esperimenti. — E sono pienamente riusciti — disse il dottore. — Vedi questo coniglio? — È morto? — No, dorme da quattordici anni. — È impossibile. — Fra poco te lo farò risuscitare con una semplice puntura e un bagno tiepido. — Quale filtro misterioso hai scoperto? Non ti prendi gioco di me, Toby? — A quale scopo? Chiudiamo le porte perché nessuno ci oda o ci veda, e tu assisterai ad una risurrezione meravigliosa. Fece girare le chiavi, chiuse un po’ le finestre, accostò una sedia al tavolino e dopo aver offerto al suo giovine amico un sigaro, disse: — Ascoltami ora; poi verrà l’esperimento. Toby, dopo essere stato alcuni momenti silenzioso, raccolto in se stesso, s’era alzato per prendere da uno degli scaffali un vaso di vetro contenente una piccola pianta disseccata, che pareva unica nel suo genere. — Ne hai mai veduta una simile, amico James? Il giovine Brandok guardò il dottore con una certa sorpresa, dicendo: — Vorrei sapere che cosa c’entra questa pianticella coi conigli che dormono da tanti anni. Immagino che non avrai l’intenzione di aumentare le mie noie. — Niente affatto — riprese Toby, imperturbabilmente. — Tu dunque non conosci questo fiore, quantunque tu abbia assai viaggiato? — Sai bene che io di botanica non me ne sono mai occupato. — Allora non hai mai udito parlare del fiore della risurrezione? — No, mai — disse il giovine. — Ascoltami dunque: la storia è interessante e non t’annoierà. Cinquant’anni or sono, un mio collega, il dottor Dek, viaggiava nell’Alto Egitto collo scopo di trovare un’antica miniera di metalli in cui lavoravano un tempo dei sudditi dei Faraoni. Un giorno incontrò un arabo infermo ed il dottore lo curò amorosamente, salvandogli la vita. Il figlio del deserto era povero, eppure volle ricompensare il suo salvatore, dandogli un tesoro che da solo valeva tutte le pietre preziose del mondo. — In che cosa consisteva? — chiese Brandok, che cominciava ad interessarsi vivamente a quel racconto che assomigliava ad uno di quelli delle Mille ed una Notte. — In una piccola pianta disseccata, che dall’arabo era stata scoperta in una antichissima tomba, nel seno di una sacerdotessa egiziana che per bellezza non aveva avuto uguali. Il dottor Dek, ascoltando i pomposi elogi fatti a quel piccolo fiore, sepolto chissà quanti secoli prima dell’era cristiana e che portava dei bottoncini arsi dal sole ed ingialliti, non aveva potuto trattenersi dal sorridere. — Ed io avrei fatto altrettanto — disse Brandok. — Ed avresti avuto torto, — disse Toby — poichè l’arabo prese la pianta, la bagnò con alcune gocce d’acqua e sotto gli sguardi del dottore si compì un prodigio meraviglioso. La pianta, appena sentì inumidirsi, cominciò a fremere, poi ad agitarsi, i suoi tessuti si raddrizzarono e i suoi bottoni si gonfiarono, poi si schiusero. Il fiore a poco a poco sbocciava, dopo venti secoli e più di sonno, svolgendo i suoi leggeri petali, i quali si distendevano come raggi superbi intorno ad un punto centrale, pieni di eleganza e di freschezza. — Strano fenomeno! — esclamò Brandok, che pareva avesse dimenticato il suo spleen. — Quel fiore, — proseguì il dottore — assomigliava ad una margherita raccolta in qualche giardino incantato. Quella risurrezione misteriosa durò parecchi minuti, poi il fiore a poco a poco rovesciò la sua corolla dalle tinte iridescenti, scoprendo in mezzo ai petali alcuni granelli antichissimi. Ahimè! La preziosa semente che il fiore della risurrezione custodiva con tanta gelosa cura, da tanti secoli era irrimediabilmente sterile. A quale suolo affidare quei granelli? Quale sole avrebbe potuto tenerli in vita? Sorpreso e ammirato, il dottore portò seco la meravigliosa pianta e rinnovò in Europa centinaia di volte l’esperimento del vecchio arabo, e sempre il piccolo fiore del deserto, la pianta misteriosa degli antichi Faraoni, risuscitò nella sua immortale bellezza mercè alcune gocce d’acqua. Morendo, il dottor Dek regalò il fiore della risurrezione al discepolo ed amico suo James, il quale ripetè anch’egli, con eguale successo, la prodigiosa esperienza. Infine il fiore della pianta egiziana venne offerto ad Alessandro Humboldt ed il grande naturalista lo risuscitò più volte davanti ai suoi dotti colleghi. Fra le sue mani la pianta misteriosa non fece che rinascere e morire, senza che egli potesse penetrarne i segreti; ad ogni operazione ripeteva colla tristezza del genio impotente: “Nulla c’è in natura che somigli a questa pianta!” — E nessuno ha mai potuto penetrare il mistero di quella pianta che tolta dal sepolcro, dopo migliaia di anni risuscitava grazie ad una goccia d’acqua e riapriva la sua corolla eternamente bella, come per dire al mondo: “Ecco come ero al tempo dei Faraoni”? — chiese Brandok. — Sì, uno solo: io! — disse Toby. — Tu!? — Sì, io — ripetè il dottore. — Dunque?... — Adagio, questo è un segreto. Durante un viaggio che feci venticinque anni or sono in Egitto, potei avere uno di quei fiori e studiare e anche spiegare i misteri della sua risurrezione. E da quel fiore mi è sorta l’idea di fermare la vita umana per farla risvegliare dopo un numero più o meno lungo di anni. Perché se poteva rivivere un umile fiorellino, non avrebbe potuto fare altrettanto un organismo così completo come quello dell’uomo? Ecco la domanda che mi rivolsi e alla cui soluzione impiegai venticinque anni di studi ininterrotti. — E ci sei riuscito? — Pienamente — rispose Toby. S’era alzato, avvicinandosi al tavolino e aveva preso fra le mani il coniglio che pareva morto, avendo le gambe e la testa irrigidite. — Ha odore, questo animale? Fiutalo, James. Credi che sia morto? — È freddo e il cuore non batte più. — Eppure la sua vita non è altro che sospesa da quattordici anni. — È dunque la morte artificiale che hai scoperto? — Una semplice puntura del mio filtro misterioso è bastata per fermare le pulsazioni del cuore di questo animale e per conservarlo per un così lungo tempo. — È meraviglioso! — Forse meno di quello che sembra — disse il dottore. — Sai che cosa sono i fakiri? — Dei fanatici indiani che eseguono degli esperimenti meravigliosi. — E che si fanno seppellire talvolta per quaranta e anche cinquanta giorni entro una cassa sigillata, colla bocca e le narici turate da uno strato di cera, e che poi risuscitano senza aver l’aspetto d’aver sofferto. Un bagno nell’acqua calda, un po’ di burro sulla loro lingua per renderla più pieghevole ed eccoli ritornare alla vita. Ora vedrai. Prese da uno scaffale una piccola fiala di vetro che conteneva un liquido rosso, vi immerse una siringa, poi punse replicatamente il coniglio, la prima volta in direzione del cuore e la seconda volta alla gola. L’animale non aveva dato alcun segno di vita ed aveva conservata la sua rigidezza. — Aspetta, James — disse il dottore, vedendo apparire sulle labbra del giovine un sorriso d’incredulità.

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