Capitolo VIVillaggio di Jala, Giudea
Myriam e Yeshua avevano passato tutta la giornata all’interno di uno stabbiolo usato come ricovero per le greggi nei pressi dell’abitato di Jala, un paesino a poca distanza di Beit Lechem. Insieme ad abba Yosef avevano abbandonato il luogo dove era nato il bambino poco dopo la partenza di Aaron e Daniel. Quel posto non era sicuro: molti di coloro che avevano seguito la cometa erano rimasti accampati nei pressi della grotta. E la piccola famiglia del falegname aveva bisogno di tranquillità.
Così, marito e moglie avevano aspettato che scendesse la notte e, dopo aver fasciato il neonato in un caldo tallit di lana, si erano allontanati badando bene che nessuno si accorgesse della loro fuga. Prima dell’alba avevano trovato una casupola abbandonata lungo la strada per Gerusalemme. Era un posto tranquillo, all’ombra di un piccolo uliveto, nei pressi di una fonte d’acqua fresca e pulita. Il capofamiglia aveva contrattato con la famiglia di allevatori che vivevano poco lontano che, in cambio di pochi sicli di rame, aveva accettato di ospitarli per qualche giorno.
Il piccolo, dopo l’abbondante poppata del mattino, si era addormentato e la donna aveva finalmente potuto riposare un po’. Da parte sua Yosef era partito per il villaggio e aveva acquistato da un mercante siriano un sacchetto di farina di carrube, un piccolo orcio di olio d’oliva e qualche manciata di lenticchie secche. Durante il viaggio di ritorno, era riuscito a comprare a buon prezzo da alcuni contadini un po’ di formaggio, un vasetto di miele e qualche uovo. E lungo la strada aveva raccolto erbe amare, ortiche e spinaci selvatici, oltre a un intero orcio pieno di more mature al punto giusto. Avrebbe avuto abbastanza cibo per riuscire a sfamare la sua famiglia almeno per qualche giorno.
Yosef aveva deciso di non affrontare le fatiche della lunga camminata verso Nazareth ancora per un po’. Myriam non era ancora in grado di viaggiare e, in osservanza alle prescrizioni della Torah, Yeshua doveva essere circonciso l’ottavo giorno dalla sua nascita. Per questo il falegname aveva deciso di portarlo con sé, una delle mattine seguenti a Beit Lechem. Era una cittadina abbastanza grande e sicuramente gli avrebbero indicato un mohel, un sacerdote addetto alla cerimonia del brit milah, il patto del taglio, disposto a prendersi cura del bambino in cambio di una piccola offerta.
Avrebbe dovuto andare da solo, perché la legge di Moshe prescriveva che la donna, dopo il parto, fosse considerata niddah, impura, per quaranta giorni. Sua moglie, quindi, non poteva incontrare nessuno se non i familiari più stretti, prima di recarsi al tempio per purificarsi con il rituale bagno mikveh. Solo allora la famigliola del falegname, dopo aver adempiuto a tutti i precetti previsti dalla religione, avrebbe potuto tornare a casa, a Nazareth. Fortunatamente la casupola forniva un buon riparo, caldo e asciutto: la fonte non lontana avrebbe fornito loro l’acqua fresca e se nessuno fosse arrivato a cacciarli via, con la benedizione di HaKadosh Baruch Hu sarebbero stati comodi e tranquilli fino al momento della partenza.
Al tramonto Myriam aveva usato parte delle provviste per preparare una buona cena calda. E presto il profumo del cibo aveva invaso lo stabbiolo. Quando lo chiamò per avvisarlo che tutto era pronto, Yosef aveva appena recitato l’Arvit, la preghiera della sera, ed era impegnato a strigliare l’asina: il silenzio e la quiete che regnavano nella casupola confermavano che il neonato dormiva.
«Yosef, marito mio. Se HaShem vorrà donare al nostro piccolo Yeshua un sonno tranquillo, stanotte avremo qualche ora per riposare anche noi…»
L’amata voce di sua moglie risuonò dietro le sue spalle. E lui sentì le braccia della ragazza circondargli il petto, la pelle morbida e vellutata del suo viso cercare conforto sulla sua schiena stanca. Per qualche attimo restarono così, abbracciati a godersi il silenzio, ringraziando l’Altissimo per avergli regalato quel momento di pace. Yosef amava sua moglie, la profondità del suo sentimento non era mai stata messa in dubbio neppure quando lei, pochi giorni prima della cerimonia del loro nissuin, la data fissata per le nozze, le aveva confessato di essere incinta.
Prima aveva creduto di aver capito male, poi si era infuriato. Mai come quel giorno si era sentito tradito, deluso, offeso. Sapeva benissimo di non essere il padre del bambino perché, fedele alla legge del Signore, non aveva mai sfiorato la ragazza neppure con un bacio. Urlando come un ossesso aveva minacciato di lasciarla, di rompere il fidanzamento, di cancellare le nozze e rimandarla da suo padre esponendola all’ignominia di tutto il villaggio. In preda all’ira aveva fantasticato persino di andare a denunciarla come adultera al Sanhedrin, il sinedrio: il qiddushin, il loro fidanzamento ufficiale, era già stato celebrato e la promessa sposa non l’avrebbe passata liscia Aveva gli stessi doveri di fedeltà di una moglie. Sarebbe finita male: per chi tradiva il marito, la Torah prevedeva la lapidazione.
Lei avrebbe dovuto arrivare vergine al matrimonio e il fatto che Myriam – la sua amatissima Myriam – avesse potuto tradirlo così, donando a un altro ciò che a lui spettava per diritto lo aveva mandato fuori di senno. Pur non essendo un uomo violento e non avendo mai alzato le mani su nessun essere umano, a stento aveva resistito alla tentazione di colpirla per farle male. Ma in realtà, il falegname di Nazareth era un uomo buono, le arrabbiature gli duravano lo spazio di un battito di ciglia. E nonostante il suo orgoglio ferito aveva accettato di parlare con lei. Voleva capire cosa l’avesse spinta a comportarsi così, desiderava sapere perché era successa una cosa simile. E in cuor suo sperava che la spiegazione data da Myriam potesse essere tanto convincente da non compromettere il loro rapporto. Ma non si sarebbe aspettato di sentirsi dire ciò che la ragazza gli aveva rivelato tra le lacrime.
«HaKadosh Baruch Hu mi è testimone, Yosef… Non ti ho mai tradito! Mai! Io ti amo…», gli aveva detto, con gli occhi pieni di lacrime e la voce rotta dai singhiozzi. «Ma colui che verrà al mondo non sarà il figlio di un uomo, ma di HaShem… Un angelo è venuto a trovarmi! So che è difficile, ma devi credermi! Mi ha detto che sono stata scelta per essere la madre del Messia…»
I singhiozzi della ragazza gli spezzavano il cuore.
«Non stavo sognando, era tutto vero. Ho detto di sì, ho accettato il piano dell’Onnipotente. Ora non so quale miracolo stia accadendo nel mio ventre, posso assicurarti che non ho mai giaciuto con un uomo. Non ti ho mai tradito! Eppure avrò un figlio…»
Di fronte a una spiegazione così assurda l’uomo era crollato. Aveva sentito le gambe mancargli all’improvviso. E per un attimo aveva temuto di diventare pazzo… Perché Myriam non gli confessava semplicemente di aver ceduto alla corte di Josaphat il fornaio o di Shmuel il levita? Perché non gli diceva qualcosa che lui avrebbe potuto comprendere? Le avrebbe fatto una scenata, l’avrebbe ripudiata. Poi, col tempo le ferite nel suo orgoglio si sarebbero cicatrizzate. E forse lui l’avrebbe persino perdonata. L’amava troppo per rinunciare a lei. Ma così, no! Aveva il diritto di sapere chi era colui che aveva giaciuto con la sua promessa sposa!
Il fatto che fosse stato un angelo non gli passava minimamente per la mente. In quel momento ogni fibra del suo corpo urlava a piena voce la sua impossibilità a credere a quanto la ragazza gli aveva detto. Eppure Yosef conosceva le scritture che riguardavano l’avvento del Mashiach… Come ogni figlio d’Israel era stato educato alla beit el safer della sinagoga, conosceva a memoria le parole della profezia di Yeshayàhu: “Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio…”. Ma la sua era una fede fatta più di abitudine che di ricerca interiore. Non poteva certo definirsi ateo, perché tra gli ebrei quello era un lusso che pochi potevano permettersi: la legge dei tribunali era regolata proprio dai comandamenti religiosi e chi non seguiva le prescrizioni della Torah, prima o poi, finiva nei guai. Ma credere addirittura che un angelo fosse venuto dal cielo apposta per mettere incinta la sua futura moglie per conto di HaShem, gli sembrava davvero troppo…
Probabilmente aveva fatto la figura dell’allocco, così, a bocca aperta, seduto sul pavimento, senza la forza di dire neppure una parola. L’idea che Myriam potesse aver mentito sperando di scampare alla sua ira, gli aveva accarezzato la mente… Ma perché scegliere una storia così maledettamente complicata e difficile da credere? Poi l’aveva guardata negli occhi. Aveva visto la profondità della sua disperazione, la sua paura di sentirsi respinta e abbandonata, la sua ferrea volontà di andare fino in fondo… E aveva deciso di starle comunque vicino. Col tempo avrebbe scoperto la verità!
Ricordava ogni attimo di quella sera: si era alzato, si era avvicinato a Myriam che piangeva. E l’aveva stretta forte contro il suo petto possente. B’Ezrat HaShem l’avrebbe protetta a ogni costo.
«Non ti lascio sola, Myriam… Io ti amo. Il Signore mi è testimone.»
Ed era scoppiato a piangere a sua volta come un bambino, travolto da una marea di sensazioni ed emozioni impossibili da arginare.
Poi era venuta quella strana notte in cui il malak, il messaggero dell’Onnipotente, aveva parlato anche a lui: «Yosef, figlio di David, non temere di prendere Myriam come tua consorte. Quello che sta nascendo in lei è opera dello Spirito. Partorirà un figlio e tu lo chiamerai Yeshua, Adonai è salvezza. Egli salverà il suo popolo dai peccati».
Al risveglio, Yosef ricordava solo una grande luce e queste parole. Forse si era trattato di un sogno della sua mente suggestionata, questo non poteva escluderlo. Ma era la conferma di quanto gli aveva detto Myriam. Le credeva, ora non aveva più dubbi. Le sarebbe stato vicino e avrebbe protetto lei e il bambino da ogni pericolo e da ogni avversità.