Capitolo V

1944 Words
Capitolo VSulla strada per Gerico, Giudea Padre e figlio viaggiarono per tutta la giornata. Era ancora mattina quando videro da lontano la cupola dorata del tempio di Gerusalemme brillare al sole. Poi la strada verso Gerico, dove Aaron contava di trovare un posto per la notte, fu tutta in discesa verso il fondo della valle del Giordano. Si inoltrarono nel deserto di Giudea, in un paesaggio arido e brullo, tra radi ciuffi di gramigna e polverose dune bruciate dal sole. Durante il viaggio si concessero solo qualche breve pausa per bere un sorso d’acqua, per mangiare un pezzo di formaggio e qualche oliva salata. Era già sera quando arrivarono alle porte della fiorente cittadina all’incrocio tra le vie per la Giudea e per la vicina Perea. Posta lungo un passaggio obbligato per chi doveva raggiungere la capitale, Gerico era una città antichissima, celebrata dalla Torah, che ne raccontava la conquista da parte delle truppe israelite guidate da Joshua. In realtà, come Aaron sapeva per averci portato più volte a pascolare le sue pecore, le rovine della città antica – quella che, secondo le scritture, sarebbe stata conquistata grazie al possente suono delle trombe dei Leviim, i leviti, che ne avevano fatto crollare le mura – si trovava più in basso nella valle, verso il corso del fiume. Ma la città nuova, ai tempi di re Herodes il Grande, era uno dei capoluoghi più importanti della regione. Sede di un importante sinedrio, dove i rabbini dispensavano sentenze e punizioni secondo la legge di HaShem, Gerico ospitava anche una piccola guarnigione romana incaricata di vegliare sulla sicurezza della strada commerciale per la capitale. Era un bel posto. Il grande anfiteatro, l’ippodromo e le terme dotate di ampie piscine con acque termali rappresentavano un miraggio per coloro che arrivavano in città dalla polverosa strada del deserto. Dopo giorni di cammino tutte quelle comodità rappresentavano un lusso sibaritico. Ma Aaron si sarebbe accontentato di molto meno. Dopo tanti giorni di bivacchi e cammino, contava di trovare un luogo dove consumare una cena calda e sostanziosa e passare una notte tranquilla. Il piccolo Daniel era sfinito, e si meritava un po’ di comodo riposo. Nel mercato centrale, poi, avrebbe sicuramente trovato un regalo degno della bellezza della sua amata Yehudit. «Ancora poco e saremo arrivati, sia lode ad HaShem l’onnipotente.» Aaron guardò il bambino. Non occorreva essere degli aruspici o avere il dono profetico della divinazione per accorgersi che Daniel era stanco morto. La testolina coperta di lunghi ricci scuri ciondolava, seguendo il ritmo compassato dei passi dell’asino e gli occhi faticavano a restare aperti. Era tutto il giorno che viaggiavano. La bianca porta della città, ormai, distava poche centinaia di passi. Presto sarebbero stati al sicuro. Tirando a sé la cavezza dell’asino, Aaron attaccò di buona lena l’ultima salita verso le mura della città. Ma a frenare il suo slancio fu lo spettacolo terribile che si presentò dinanzi a loro non appena raggiunsero la cima della collina. A sinistra e a destra della porta principale si ergevano due croci sulle quali erano inchiodati due uomini. Il viaggiatore rimase impietrito davanti a quello spettacolo terribile. Era la prima volta che gli capitava di assistere così da vicino a un tale orrore anche se, da quando le legioni di Roma avevano conquistato la sua terra mettendo sul trono re Herodes, quei macabri spettacoli erano diventati sempre più frequenti. Per fortuna il piccolo Daniel, dopo aver reclinato il capo sul collo dell’asino, si era addormentato profondamente. Lo sguardo del pastore non riusciva a staccarsi da quei corpi straziati. I crocifissi erano entrambi ancora vivi e si lamentavano con rochi gemiti di dolore. Quello più anziano di colpo aprì gli occhi. E sembrò voler dire qualcosa… Ma dalle sue labbra, screpolate dal sole e arse dalla sete, non uscì alcun suono se non un lamento incomprensibile. Poi tornò a chinare il capo. Cercando di accelerare il passo, pregando tra sé che Daniel continuasse a dormire, Aaron si avviò verso l’edificio della dogana, subito oltre la porta principale, e si avvicinò al banco degli esattori incaricati di raccogliere, giorno e notte per conto dell’invasore romano, le tasse dai mercanti in transito per Gerico. «Shalom, pubblicano… Che il Signore li perdoni e abbia pietà di loro, che hanno fatto?» «Shalom Aleichem, viaggiatore. Quelli? Sono solo zeloti…» L’ometto calvo e grasso che sedeva dietro un piccolo scranno si voltò per sputare con disprezzo in direzione delle croci. Poi riprese a contare le monete che estraeva da un sacchetto di cuoio, segnandone con uno stilo il corrispettivo sulla tavoletta di cera che aveva davanti. Non degnò il nuovo arrivato neppure di uno sguardo: il tono era quello di chi era stato disturbato mentre era impegnato in un duro lavoro. E ci teneva a far notare il suo disappunto. Sembrava che ogni parola gli costasse qualcuno dei preziosi sicli d’argento o dei denari romani che aveva impilato con cura di fronte a sé. «Hanno ucciso un fornaio che vendeva il suo pane alla guarnigione romana. Ma i legionari li hanno catturati subito mentre cercavano di scappare. E li hanno condannati a morte in meno tempo di quanto ci è voluto per leggere loro la sentenza capitale». Fece una pausa per segnare un nuovo numero sulla tavoletta con lo stilo, poi continuò: «Il corteo funebre dell’uomo che hanno ammazzato, stamane, ha deviato dalla strada verso la necropoli per passare sotto le croci dei suoi assassini!». Sputò di nuovo nella loro direzione. «Se lo sono meritati… Isaac, il panettiere, era un brav’uomo anche se avrebbe venduto le sue pagnotte al demonio in persona pur di guadagnare qualche aureo! Baruch Dayan Ha’Emet, sia lode al Supremo Giudice!». Ricontò i denari di una delle pile alla sua sinistra, poi la passò a destra: «Comunque io lo conoscevo bene, quel poveraccio. Era avido, forse… Ma simpatico. Non meritava certo di morire per qualche pagnotta. Aveva moglie e sette figli, cos’altro avrebbe potuto fare per sfamarli tutti quanti? Ma per gli zeloti lui era impuro, un traditore. Sono entrati nel suo negozio, lo hanno fatto inginocchiare e gli hanno tagliato la gola come a un capretto. Credimi, quelli dicono di combattere i romani, ma poi finiscono per uccidere più ebrei che legionari…». Sputò per la terza volta per esprimere tutto il suo disprezzo. Poi, sempre tenendo gli occhi fissi sulle monete del bancone, indicò con un rapido cenno della mano i due crocifissi. «Che HaShem abbia pietà di loro. Sarà una lunga notte d’agonia. Sono giovani, in buona salute. il legato Quirino vuole vederli soffrire fino in fondo, quel figlio di buona donna! Ha deciso di fargli godere ogni attimo della loro permanenza sulla croce». Poi l’uomo scoppiò in una gracchiante risata: «Ho scommesso un intero siclo d’argento che dureranno almeno fino a domani sera… Se non di più. E saranno un bell’esempio per quelli scalmanati come loro!». L’esattore sputò un’ultima volta in direzione delle croci, come se volesse dimostrare tutto il suo disprezzo per chi non si piegava al potere di Roma, ai due legionari che, a poche decine di passi da lui, presidiavano la porta della città. Aaron faticò a trattenersi dal rispondergli a tono. Si sentiva ribollire il sangue nelle vene. Non che la politica lo interessasse particolarmente, ma non provava certo simpatia per gli invasori che dettavano legge sulla terra di Israel. Dentro di sé, come la maggior parte degli ebrei, parteggiava per coloro che combattevano per scacciare gli stranieri dalla loro terra. E disprezzava profondamente quelli tra i suoi compatrioti che, come quel pubblicano, si schieravano per profitto dalla parte di Augusto. Il rischio di finire inchiodato a una terza croce, accanto ai due condannati, gli consigliò comunque prudenza. Strinse i pugni, piantandosi le unghie nel palmo della mano e il dolore improvviso lo aiutò a non far trasparire la rabbia. Voleva andarsene, lasciare quel luogo di morte velocemente, per quanto fosse possibile. Aveva paura che Daniel si svegliasse. E voleva evitargli lo spettacolo crudele di quei poveri corpi martoriati. Così si costrinse a sorridere, annuendo con aria di complicità. «Che l’Onnipotente ci aiuti, amico. E ci colmi di benedizioni. Ognuno pagherà alla fine per il male che ha fatto. Ma ora dimmi, sai se c’è un posto in città dove passare la notte?» Cercò di cambiare discorso. Desiderava solo trovare una sistemazione e qualcosa di caldo da mangiare. E pur di ottenere ciò che voleva era disposto a venire a patti con quell’uomo disgustoso. Ma nuovamente l’esattore finse di non aver sentito la domanda. E, ostentando ogni movimento come per sottolineare la sua intenzione di porre fine alla discussione, si immerse nuovamente nello studio dei suoi registri. «Ascoltami, pubblicano. Posso pagare! L’Onnipotente mi è testimone. Ti ricompenserò per il tuo aiuto…» Aaron fece tintinnare le monete che teneva nascoste nella bisaccia, gettando poi sul banco un luccicante siclo di rame. «Cibo e alloggio?», l’esattore delle imposte, veloce come un rapace, ghermì la piccola moneta che ancora rotolava sul ripiano di legno. Poi sul suo volto di avido avvoltoio si disegnò un sorriso untuoso. «Sei sfortunato, amico. HaShem evidentemente ha ben altro da fare che guardarti con benevolenza questa sera. Qui in città non troverai posto in nessuna locanda. Sai, con la storia del censimento voluto dall’imperatore, sono in molti coloro che si muovono da una città all’altra per registrarsi nei libri di Augusto. E poi, questo pomeriggio, è arrivato qui a Gerico proprio Publio Sulpicio Quirino, il legatus romano. Ha requisito per sé, per sua moglie e per la sua scorta di servitori e legionari tutti i posti disponibili. Sai com’è… I romani non amano mischiarsi con chi non è cives dell’Urbe. Ma non sono gli unici, visto che anche la Torah proibisce la promiscuità con chi è impuro. Quindi, come al solito, vince chi paga meglio! E chi impugna la spada dalla parte del manico. Qui a Gerico non c’è posto per te e per il tuo marmocchio.» «Ma io e mio figlio siamo stanchi morti, è tutto il giorno che viaggiamo. Il piccolo non sta più in piedi», provò a insistere Aaron. «Posso pagare…» «Ho paura che ciò non faccia alcuna differenza per Quirino. Un patrizio romano che divide lo stesso tetto con un viandante giudeo? Non si è mai sentita una cosa simile… Anche se tu fossi ricco come Herodes il Grande e cagassi monete invece che merda, nessuno ti aprirebbe la porta. Fattene una ragione. Se fossi in te proseguirei il viaggio. Dai suvvia… Ora lasciami finire i conti. Voglio tornare a casa per cena. È tardi e sono stanco…» Aaron rassegnato, tirò la corda che legava l’asino e si avviò verso la direzione da cui era arrivato. «Ho sentito dire che i pescatori, giù lungo le rive del Giordano, ospitano nelle loro case i viaggiatori che transitano lungo la strada per Gerusalemme», forse impietosito per la sua espressione avvilita, o semplicemente per ripagare la moneta che gli era stata donata, l’esattore gli diede un ultimo consiglio. «Non è troppo distante. E non chiedono molto per una buona cena e un pagliericcio caldo. Dammi retta, non perdere tempo. In fondo non è che un’altra ora di cammino giù per la discesa…» Ad Aaron non restava alternativa. Per un attimo lo sguardo stanco corse a suo figlio che, con il capo reclinato sul fardello assicurato sul dorso dell’asino, continuava a dormire come se nulla fosse successo. Poi non esitò oltre: si sarebbe rimesso in viaggio e si sarebbe fermato nel primo posto riparato che avesse trovato lungo la strada per il lago di Genesaret: «Shalom pubblicano, seguirò il tuo consiglio. Che il Signore sia con te…». Ormai la decisione era presa: avrebbe cercato di raggiungere il fiume prima che suo figlio si svegliasse.
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