2.

2439 Words
2. Passarono diverse settimane, poi l’avvocato Kline mi contattò di nuovo. Questa volta mi fece fare solo dieci minuti di anticamera. «Addison, è un piacere rivederla» disse, venendomi incontro e stringendomi la mano. «Posso offrirle qualcosa da bere? La solita acqua frizzante?». «Volentieri, grazie». Si sedette dietro la scrivania, mi fece segno di sedermi davanti. «Il Signor K è stato molto soddisfatto delle sue foto. Come avrà capito non sono le sole che ha commissionato. Il suo servizio è uno dei suoi preferiti. Sarebbe contraria a girare un filmato?». Sbattei le palpebre. «Un filmato? Da sola?». Un sorriso rassicurante da parte dell’avvocato. «No, con un attore. Soft-erotico, non ci sarebbero rapporti sessuali. Ovviamente le sottoporremo la sceneggiatura, prima di firmare il contratto. Stesse condizioni di riservatezza della volta scorsa». Ci pensai. «Cachet quadruplicato». «Posso senz’altro leggere la sceneggiatura». +++ Lui, il tizio con cui dovevo girare, si chiamava Stan. Aveva un viso piuttosto comune e dei denti cavallini che non mi facevano impazzire, ma aveva un fisico perfetto, muscoloso, tonico... e abbronzato. Rispetto al mio, il suo corpo era molto più scuro. Si presentò con un sorriso rilassato e mi strinse la mano. Il regista ci spiegò che avremmo girato tutto in due o tre scene, ma che le avremmo ripetute più volte per sicurezza. «C’è qualcosa che ti infastidisce di brutto?» mi chiese Stan. «Se ti tocco la bocca o mi faccio leccare le dita?». «N-non so» ammisi io. «Se qualcosa non ti piace dillo e basta, okay?». Annuii, sollevata dal suo tono tranquillo. «Okay». Ci togliemmo le vestaglie ed entrammo nel set, che poi era una camera da letto piuttosto minimale. Le luci erano quelle di una pubblicità, non di un porno. In una parola, c’era chiaroscuro. Stan indossava dei jeans, io un completo di pizzo blu scuro. Mi prese per mano e mi tirò verso di sé. Tranquillo, ma senza tentennamenti. Lo accarezzai, piuttosto a disagio, mentre lui mi baciava il collo. Non so spiegare la sensazione. Essere lì, circondati da sconosciuti che riprendevano, spostavano luci e ombrelli, comunicavano tra loro a gesti... e nel contempo dover interagire con un uomo che non conoscevo, che trovavo esteticamente accettabile, ma non attraente... farmi toccare da lui, toccarlo... Ci spogliammo a vicenda. Quando gli slacciai i pantaloni e mi resi conto che aveva un’erezione, avvampai di vergogna. Sapevo che doveva averla. Sapevo che era un professionista. Ma l’idea mi imbarazzò lo stesso e sentii anche... una punta di curiosità? Come sarebbe stato, là sotto? Lo vidi poco dopo. Era grosso, è ovvio. Glabro, dalla pelle scura e dal glande rossiccio. Mi abbassò gli slip e mi guidò verso il letto, accarezzandomi e baciandomi. Iniziò a girarmi la testa. Non ricordavo bene che cosa avrei dovuto fare. Ricordavo che non ci sarebbe stata penetrazione, ma... che cosa avremmo fatto su quel letto, quindi? Lo toccai. Toccai il suo torace e lasciai che mi stringesse. Sentii il suo membro duro su un fianco. «Non mi ricordo cosa...» gli sussurrai in un orecchio. Mi accarezzò la schiena e la nuca. «Fai quello che vuoi. Sto molto bene». Per qualche motivo l’idea che lui stesse molto bene mi rassicurò. Mi fece sentire più a mio agio. Lo stesi sul letto e gli baciai il petto. La sua pelle sapeva di BBCream e cipria effetto mat. Baciai quegli addominali duri, giù fin sulla pancia. Stan mi accarezzò la testa e giocò con i miei capelli, poi con i miei seni. Dolcemente, facendoli indurire piano-piano. Non pensavo nemmeno più al regista e ai cameramen. Non ricordavo quali fossero le tre scene che dovevamo girare. Stan mi accompagnò una mano sul suo uccello e io iniziai a fargli una sega. Era così grosso, così duro... Stan mi baciava il collo, io baciavo il suo. Eravamo vicini e a nostro agio. Mi piaceva il modo in cui mi toccava. A un certo punto Stan mi fece voltare, mettere a pecora sul letto. Sentii il suo pene strofinarmi su una natica, poi la sua bocca sulla schiena. Ero eccitata, a quel punto. Ansimavo. Stan mi baciò la schiena e arrivò fino alle mie natiche. Me le leccò e a me sfuggì un sospiro di piacere. Mi toccò sul sesso. Sentii il suo palmo che mi massaggiava l’esterno della fica, stringendomela dolcemente. Tornammo ad abbracciarci. A rotolare sul letto, l’uno sull’altra. Aprii le cosce e Stan mi strofinò l’uccello tra le grandi labbra. Chiusi gli occhi. Stavo godendo. Volevo essere penetrata, a quel punto. Lo toccai sull’uccello. Gli massaggiai i testicoli, mentre lui mi palpava le tette e me le leccava. «Toccati da sola, tesoro» mormorò in una delle mie orecchie. Aprii le cosce e mi accarezzai il clitoride con la punta di un dito. Lo fece anche Stan, con un’espressione divertita. Gemetti e spinsi il bacino verso di lui. Continuava a baciarmi il collo, le orecchie. Mi fece leccare le dita con cui mi aveva stuzzicata. «Perché non ti metti un dito dentro?» mi sussurrò. «Perché non mi tocchi le palle?». Non ero contraria. Ero eccitata, rilassata, provavo piacere. Aprii le cosce e mi penetrai con due dita, mentre usavo l’altra mano per coccolare le palle di Stan. Lui iniziò a sgrillettarmi e a me sfuggì un gemito. «Mmm... sì» ansimò lui. Con l’altra mano mi palpò le tette, schiacciandomi più forte il clitoride. Strizzai gli occhi e iniziai a venire. Gemendo. Sobbalzando. Presi in mano il suo uccello e lo masturbai più in fretta. Sentii il suo schizo sulla pancia. Mi abbracciò, stringendomi contro di sé in modo gentile. Mentre lo faceva, io finivo di farlo venire tra i nostri corpi. Mi accarezzò e mi baciò le guance. Riprendemmo fiato con le gambe intrecciate. «Forse abbiamo un po’ esagerato» disse lui, con una risata leggera. Parlava a bassa voce, era tutto intimo e gradevole. Sorrisi il viso vicino al suo. «Non mi ricordavo più il copione». Sospirai. «Dio, non andava bene, vero?». «Andava benissimo, almeno per me». Si alzò su un gomito e guardò dalla parte del regista. In quel preciso momento tornai a essere consapevole della loro presenza e arrossii di colpo. «Alfie? Abbiamo fatto un casino? Lo so che non dovevo venire, ma Addison è... fresca». «Fresca?» chiesi io. Stan rise sottovoce. «Non sei del giro. Sei un bel po’ arrapante, perché sei naturale». «Ah. Uhm...» Il regista disse che andava benissimo. +++ Nei giorni seguenti pensai al Signor K che guardava quel filmino. Ne sarebbe stato soddisfatto? L’avrebbe usato per masturbarsi o il suo era solo desiderio di controllo? Quello che non avevo ancora capito era che fosse un’audizione. La mia audizione. Passarono dei mesi. Due mesi e mezzo durante i quali pensai sempre meno al misterioso Signor K. Anche se a volte ci pensai, è chiaro. Probabilmente era un anziano riccone. L’idea faceva un po’ schifo, ma mi dissi di prenderla con filosofia. In fondo non dovevo conoscerlo. Non sapevo neppure chi fosse e non l’avrei mai saputo. Mi aveva pagata per un lavoro – un lavoro che non si era neppure rivelato sgradevole. Ma il tempo passò e ci pensai sempre meno. La mia agenzia mi disse che non aveva più intenzione di rappresentarmi e non avevo trovato un altro lavoro. Iniziavo a essere davvero preoccupata quando l’avvocato Kline mi mandò di nuovo a chiamare. +++ «Credo che prima di esporle la nostra nuova proposta dovrei parlarle del Signor K. Acqua frizzante?». «Grazie». Mi versò da bere, mi passò il bicchiere e ci accomodammo. Il suo studio continuava a mettermi in soggezione. Credo che fosse proprio l’effetto che voleva ottenere, con quegli spazi grandi, i mobili antichi, l’atmosfera ovattata. «Il Signor K non ha ancora trentacinque anni. È un uomo di aspetto gradevole, educato, istruito. I suoi genitori sono morti qualche mese fa in un incidente». A quel punto capii chi fosse il “Signor K”. Circa sei mesi prima Herman e Melody Mayer erano morti durante una vacanza sulle Alpi francesi, travolti da una valanga insieme alla loro guida e a una coppia di amici. La notizia era finita sui TG nazionali, dato che Mayer era un magnate dell’acciaio ed entrambi erano figure in vista del jet-set newyorkese. Lasciavano due figli adulti: Keegan Mayer, il maggiore, e Rainey, il minore. Il “Signor K” doveva essere Keegan Mayer. Non avevo un ricordo chiaro di lui, ma non assomigliava per niente al Signor K che mi aspettavo. Era giovane, belloccio, alto, in forma, fidanzato con un’altra tizia del jet-set di cui non ricordavo il nome, una biondina tutta alla moda... «Per quanto lei possa pensare di conoscere l’identità del Signor K» continuò Kline, senza lasciarmi il tempo di dire che avevo capito chi fosse, «non dovrà mai riferirsi a lui con il suo vero nome, cognome, o soprannome. Non dovrà mai accennare alla sua vita privata. In pratica dovrà fingere di ignorare completamente chi sia». «Ho capito. Ma con chi dovrei farlo?» chiesi io, inarcando un sopracciglio. «Con chiunque. Ma specialmente con lui». Fece scivolare un fascicolo sulla scrivania, spingendolo verso di me. «Desidera assumerla per sei mesi. Un contratto estremamente ben retribuito. Prego, legga pure». Iniziai a leggere. Dato che non avevo molto tempo, individuai le parole chiave e desunsi il resto del contenuto. Il committente veniva subito identificato con il “Signor K”, rappresentato dallo studio legale Kline&Partners. In quanto alle mie funzioni... «Eh? Dovrei trasferirmi in un altro appartamento?». «Per il periodo del contratto, sì. È un immobile di pregio, situato in una fila di altri immobili di pregio sull’82esima Strada Est, nelle vicinanze della Regis High School». Era in pieno Upper East Side, praticamente a un passo dal Metropolitan Museum. Un posto dove persino i divi di Hollywood avevano delle difficoltà a trovare casa. Continuai a leggere. Man mano che proseguivo il contenuto sembrava diventare più allucinante, tanto che iniziai a credere di aver preso un abbaglio. «Io non credo che sia legale» dissi, quando fui più o meno a metà della seconda pagina. Kline si permise un sorrisetto. «Le assicuro che lo è. Il Signor K la assume come performer – e ha il pieno diritto di recedere da questo accordo in qualsiasi momento, anche durante... lo svolgimento dello stesso, diciamo». «Ah, intende mentre mi faccio scopare da lui nel modo che preferisce lui?» feci, piuttosto sarcastica. Kline aprì le mani, mostrandomi il palmo. «Come noterà, è tutto dettagliato». Lo era. Secondo il semplice piano del Signor K io mi sarei trasferita nella casa da lui fornita sull’82esima Strada, dove sarei rimasta a sua disposizione per un fisso di trentamila dollari al mese. Ogni volta in cui lui avrebbe avuto bisogno dei miei servizi mi avrebbe mandata a chiamare, per una tariffa oraria di cinquecento dollari. Si impegnava a chiamarmi almeno una volta alla settimana o a risarcirmi delle perdite. Gli incontri potevano avvenire a casa mia, sua o in un luogo scelto dal Signor K. Le prestazioni prevedevano tutte le più comuni pratiche sessuali e alcune un po’ meno comuni, purché non dolorose o dolorose in modo per me tollerabile (molto rassicurante, vero?). Io potevo continuare con la mia esistenza, ma ero obbligata ad avvertire in caso di mia non-reperibilità o malattia. Prima dell’inizio del periodo di sei mesi del contratto dovevo sottopormi a tutti gli accertamenti medici e il Signor K mi avrebbe dato prova della sua buona salute. Dovevo assumere un anticoncezionale. Ero vincolata alla segretezza, come d’altronde il Signor K. Potevo recedere dal contratto in qualsiasi momento, rinunciando al compenso di lì in poi. Avrei avuto tre giorni per liberare la casa. «Non capisco perché devo trasferirmi in questo posto sull’82esima» dissi. «Per comodità. Nel contratto non c’è scritto, visto che si tratta di un accordo privato tra lei e il Signor K... ma avrà notato la clausola sui... possibili eventi di gruppo?». L’avevo notata. «Il Signor K sta assumendo altre sei persone, che alloggeranno nelle altre sei case della schiera». «Eh?». Kline sembrò quasi mortificato. «Sì, Addison, non è l’unica. Il Signor K si avvarrà dell’aiuto di altre sei impiegate, oltre a lei». Feci una smorfia. «Dio, ma è sesso-dipendente?». L’avvocato sospirò. «Non glielo so dire. Credo che sia una specie... di reazione alla tragedia, diciamo». Certo, “diciamo” così, pensai. Ma in fondo che cosa me ne fregava? La proposta era semplice. Potevo fare una gigantesca marchetta da minimo 192.000 dollari, una marchetta che mi avrebbe consentito di cercare con calma un nuovo lavoro decente, o potevo rinunciare e mantenere intatta la mia preziosissima integrità morale. Quale integrità morale? Appunto. Anthony ripeteva sempre che non avevo integrità morale. Non ero mai stata una calcolatrice, è una cosa totalmente diversa. E non sapevo fare niente, quindi non ero molto ottimista sulle mie possibilità di successo, nell’immediato futuro. «E posso smettere quando voglio. Non ci sono penali» ribadii. «Non ci sono penali» mi assicurò Kline. +++ Insomma, mi trasferii in un harem. Un harem sui generis per molti motivi, ma harem è comunque la parola che lo descrive meglio. Le case appartenevano a una schiera di sette villette dalla facciata color avorio, le finestre a bovindo e la porta d’ingresso tra due colonne, con un piccolo timpano sopra. Sul retro ognuna aveva un giardino, che confinava con il giardino delle altre villette e con il giardino posteriore di un condominio di lusso sull’83esima, la strada successiva. Davanti all’ingresso c’era un posto auto privato. L’interno era arredato con gusto e mobili di design. Sembrava una delle case che le agenzie più importanti davano alle loro modelle appena arrivate in città, ma meno spartana. Se avessi ancora avuto qualche amica l’avrei invitata subito a vedere il posto assurdo in cui ero finita, ma la relazione con Anthony aveva azzerato tutte le mie amicizie. Come dicevo, non era proprio un harem. Per prima cosa potevamo invitare chi volevamo a casa nostra e frequentare chi volevamo. L’unico obbligo era quello di assicurarsi di restare in buona salute, per cui qualche limitazione c’era. Dato che non avevo relazioni non mi preoccupai della faccenda. Secondariamente, non c’era nessun eunuco a controllare l’harem. Eravamo lasciate a noi stesse, con solo un numero per le emergenze che ci aveva dato l’avvocato Kline. Per terza cosa... negli harem le donne condividono gli spazi; noi non lo facevamo. Anche se conobbi quasi subito la mia vicina di destra e quella di sinistra (stavo nella terza villetta in direzione del Metropolitan): Layla e Harper. Layla era un po’ più giovane di me, afroamericana, con i capelli riccioli e di un colore ramato. Aveva un bel sorriso aperto. Harper doveva avere un paio d’anni più di me ed era un tipo raffinato, con l’aria della ragazza bianca di buona famiglia. Dopo di lei ci stava una tizia di cui non conoscevo il nome, ma che – scoprii dopo qualche giorno – Harper aveva soprannominato “la curvy”. In effetti aveva un aspetto giunonico – e un viso davvero splendido, contornato da lunghi capelli color miele rosso. Nella prima casa della fila, subito prima di Layla, c’era una tizia con i capelli corti e scuri di nome Eva. Aveva qualcosa di latino, ma non avrei saputo dire con precisione. Layla commentò che eravamo un po’ come le Spice Girls, ognuna aveva il suo personaggio: «Eva è la sporty spice». «E tu chi saresti?». Layla sospirò. «Probabilmente la scary, no? Mel B era l’unica nera». «Ah. Quindi Harper sarebbe la posh spice, giusto?». «Di sicuro. Se non è chic lei...» «E io, scusa?». Layla si strinse nelle spalle. «Loro erano solo cinque. Tu potresti essere un nuovo componente, la spice fatale!». «Eh?». «Non so. Hai un po’ un’aria da femme fatale». «Chi, io?». «Non sembri né ginger, né baby. E abbiamo una curvy in più». Sospirai. «Ottimo». Eravamo tutte decise a mantenere dei rapporti di buon vicinato, o così sembrava, tranne la Settima Ragazza, quella dell’ultima villetta, che non parlava con nessuno e sembrava sempre arrabbiata. Fu lei a essere chiamata per prima.
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD