1.
Se pensi a un harem, pensi a qualche paese del Medio Oriente. Un posto esotico fatto di deserto e grattacieli dalla forma avveniristica, donne velate e uomini con uno strofinaccio in testa.
E quello che pensi – quello che stai pensando anche ora, sul serio – è più che altro una fantasia occidentale, che non ha molto a che vedere con quel che un harem è davvero. Un harem è un posto. È il nome che prendono gli appartamenti privati delle donne, in un palazzo arabo. Un posto in cui gli uomini non sono ammessi.
In quanto alle donne, uno immagina uno stuolo interminabile di mogli e concubine. Ma nel mondo moderno, le nazioni che permettono la poligamia non consentono nulla del genere. Per il Corano il massimo numero di mogli che un uomo può avere è quattro. E in tutti i paesi dove la poligamia è legale, non è poi così diffusa, dato che il marito ha dei diritti, certo, ma anche dei doveri nei confronti di tutte le spose.
No, l’idea di harem che aveva il Signor K, credetemi, non aveva molti punti di contatto con le tradizioni di nessuna religione e di nessun paese del mondo. Veniva dritta-dritta dalle fantasie occidentali di cui parlavo prima e non si basava sul matrimonio, ma su un contratto di assunzione molto, molto particolareggiato.
Un contratto che firmai quando avevo ventinove anni.
Venivo dalla Virginia e negli undici anni precedenti avevo vissuto a New York mantenendomi come fotomodella. Avevo provato ad andare all’università, ma si era rivelato un fallimento, così, dato che non volevo tornare a casa con la coda tra le gambe, avevo pensato di sfruttare il mio aspetto per fare due soldi.
Non pensate a grandi sfilate o stilisti famosi: le mie foto finivano nei cataloghi, più che sulle riviste. Certo, ogni tanto qualcuna finiva anche su qualche rivista, come quella di una marca di biancheria intima in cui ero su un letto a cosce aperte e che mi fruttò una bella telefonata di rimprovero da parte di mia madre. Ma ero senza soldi e quello era uno dei lavori meglio pagati che mi fossero passati sotto il naso di recente.
La carriera di una modella è breve. A venticinque anni inizi a non essere più molto desiderata, a trenta sei da buttare. Io avevo ventinove anni, un rapporto fallimentare alle spalle e pochissime alternative davanti.
Avevo iniziato a cercarmi un lavoro presso qualche marchio di abbigliamento per il cui catalogo avevo posato, ma avevo ben poche qualifiche. E avevo ricevuto decine di proposte indecenti.
Purtroppo è vero: quando sei su un catalogo in mutande, c’è sempre qualcuno che pensa che la merce in vendita sia tu. O che possa essere tu, se ti fa un’offerta abbastanza generosa.
Ero uscita con uomini che si aspettavano che andassi a letto con loro perché ti avevano offerto la cena in un ristorante di lusso. Uomini che ti regalavano un bracciale e davano per scontato che gli avresti lasciato fare qualsiasi cosa. Uomini vecchi, spesso brutti, di solito per nulla affascinanti. Nel loro cervello l’equazione era semplice: loro pagavano, tu gliela davi. Anzi, gliela davi con gratitudine, felice di essere stata scelta da uno di loro.
La cosa triste era che funzionava davvero. Molte ragazze erano grate di venire scelte da loro ed erano felici di intrattenerli in cambio di qualche piccolo segno di apprezzamento.
Mi ero tenuta lontana da quel giro. Non accettavo inviti da uomini molto più vecchi di me, non uscivo con uomini che non mi piacessero almeno un po’. Poi avevo conosciuto Anthony e non ero proprio più uscita con nessuno, neppure per una serata tra amici, ma non era bastato.
A ventinove anni vedevo le mie alternative assottigliarsi sempre di più.
Iniziavo a credere che avrei dovuto fare come molte delle mie colleghe e accaparrarmi un marito benestante quando ancora potevo. Poi mi rispondevo che per fortuna non l’avevo fatto, dato che la cosa più vicina a un marito benestante che avessi avuto era Anthony.
Per dirla tutta, quando firmai il contratto del Signor K mi sentivo una nullità.
Fui contattata da uno dei suoi legali. Mi diede appuntamento nel suo studio sulla Sesta Avenue, dicendo alla mia agenzia che voleva discutere di una proposta di lavoro.
La mia agenzia fece un po’ di storie – le proposte di lavoro andavano discusse con loro, non con me – ma alla fine mi mollò il suo numero. Volevano scaricarmi, lo sapevo benissimo.
La segretaria dell’avvocato Kline mi fissò un appuntamento. Andai nel suo studio e fui lasciata in ammollo una mezz’ora. Sapevo che lo facevano per sminuirti, ma con me ci riuscivano sempre lo stesso. Quando, alla fine, entrai nell’ufficio, mi sentivo insicura, in una posizione di debolezza.
Kline era un uomo sulla cinquantina con i capelli grigi e un aspetto paterno.
Si scusò per avermi fatto attendere e mi offrì qualcosa da bere. Accettai un bicchiere d’acqua.
Si sedette dietro la sua scrivania. La sua enorme scrivania.
«Signorina Nelson. Addison. Posso chiamarla Addison?».
Il mio sorriso fu un po’ meccanico. «Certamente».
«Addison. Il mio cliente, che per il momento chiameremo solo Signor K, ha visto la sua foto su una rivista. È rimasto colpito dalla sua persona e vorrebbe prenderla in considerazione per un... suo progetto, diciamo. Posso farle qualche domanda? La avviso che sono domande di natura personale, persino privata. Se rispondere la mette a disagio è libera di non farlo e di andarsene quando preferisce».
In altri anni mi sarei alzata in quel momento. Per quanto Kline sembrasse placido e accomodante, c’era solo un genere di proposta che cominciava così, il genere di proposta che prevedeva di farti lavorare con gli organi sessuali, che fosse per un film, per una festa privata o per un incontro privato.
Ma il tempo era passato, i soldi scarseggiavano e non potevo permettermi di fare troppo la difficile. Se volevano farmi degli scatti osé la cosa mi interessava.
«Ho capito».
«È una persona molto pudica, Addison?».
Appunto. «Non molto, no».
«Disapprova l’esibizione della nudità?».
«Non direi. Be’, nel giusto contesto».
«Ha mai posato nuda?».
«No».
«È contraria per motivi ideologici o per, diciamo, calcolo professionale?».
Mi permisi un sorrisino. «Nessuna modella è contraria per motivi ideologici, avvocato Kline. Posiamo in completi intimi così minuscoli che se lo facessimo nude sarebbe meno rivelatore. Ma come sicuramente sa...»
«Certo, certo. Era quello a cui mi riferivo. Quindi se gli scatti che le propongo fossero per un committente privato e questo committente si impegnasse per iscritto a non renderle pubbliche, lei non avrebbe nulla in contrario a posare».
Messa così, anzi, era un’ottima proposta.
«Niente in contrario» confermai.
«Se durante lo shooting le chiedessero di accarezzarsi, toccarsi, assumere pose esplicite?».
Mi strinsi nelle spalle. Avevo capito, eh? «Non penso». Ci ragionai un attimo. «Sarò da sola, o...»
«Da sola. Il Signor K vuole che sia l’unica protagonista di questa serie di foto. In futuro, se il risultato è di suo gradimento, potrebbe proporle degli altri lavori, ma in quel caso ne riparleremo».
Annuii. «Per me va bene».
«La mia segretaria le fornirà tutti i dettagli». Si alzò, mi tese la mano. «Conoscerla è stato un piacere, Addison».
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Non persero tempo, il che fu confortante. Lo shooting era ben pagato, ma non eccezionalmente ben pagato. Insomma nulla faceva pensare che fosse qualcosa di diverso da quel che sembrava: il capriccio di un uomo ricco.
Quando arrivai al teatro di posa per il servizio fotografico, inoltre, mi resi conto di non essere l’unica ad aver ricevuto quella proposta. Prima del mio c’era stato un altro shooting per lo stesso cliente, con una modella di origine giamaicana sui venticinque.
Non conoscevo il fotografo, ma si dimostrò subito un buon professionista. Gli assistenti erano gentili, la truccatrice simpatica e il tecnico delle luci professionale. Il set comprendeva un letto, una poltrona e un fondale bianco.
La parrucchiera acconciò i miei lunghi capelli castani in modo che sembrassero arruffati dal vento, la truccatrice sottolineò i miei occhi verdi con una linea blu scuro e si occupò anche di coprire ogni arrossamento sulla mia pelle chiara.
Forse guardando una foto non ci si pensa, ma le modelle sono tutte truccate, non solo in faccia. Per quello shooting mi avevano chiesto di depilarmi totalmente, là sotto, quindi mi trovai della cipria anche sulla passerina.
Per prima cosa scattammo delle foto sul letto. Mi fu dato solo un corsetto di velluto blu da indossare, ma per me non fu un problema. Sapevo che si trattava di immagini glamour, ossia soft-erotiche.
L’ambiente era molto professionale e io ero abituata a stare sotto gli occhi di diverse persone mentre ero mezza nuda. Il fotografo mi chiese di rotolarmi sulle lenzuola di seta, di tirarmi fuori dalle coppe i seni, di posare a quattro zampe e in ginocchio contro la testiera del letto, poi prostrata, poi di nuovo supina, con le cosce larghe. Mi chiese di accarezzarmi il corpo e massaggiarmi i seni...
In quanto all’espressione del viso, non doveva essere eccitata o vogliosa. Doveva essere tranquilla, seria, a volte languida.
Ci spostammo davanti al fondale bianco e mi fecero un’altra serie di scatti, stavolta del tutto nuda. Mi fecero appoggiare le mani alla parete e allargare i piedi, come durante una perquisizione, mi fecero posare seduta per terra e stesa su un fianco. Il fotografo mi chiese di massaggiarmi da sola le natiche, dopo essermi indurita i capezzoli.
Ci spostammo sulla poltrona. Sistemarono le luci, poi buona parte degli assistenti vennero fatti uscire.
«È la parte più delicata. Penso che tu preferisca avere un po’ di intimità. Dovresti metterti dritta in ginocchio sulla poltrona, tesoro. Voltata verso lo schienale. Appoggiati con un braccio e con l’altra mano inizia a toccarti da sola, amore. Chiudi gli occhi... brava, così. Accarezzati. Io ti giro attorno in silenzio e scatto quando mi piace un’inquadratura».
Chiusi gli occhi. Iniziai ad accarezzarmi sul grilletto.
«Così, bravissima. Pensa a qualcosa di sexy. Fai finta che io non ci sia... puoi cambiare posizione, se vuoi... se riuscissi a venire sarebbe l’ideale».
E, intendiamoci, era imbarazzante. Il fotografo era palesemente gay, ma era comunque uno sconosciuto. Mi stuzzicai più forte, inarcandomi e spingendo il sedere verso l’esterno, ma provare piacere sul serio non era così facile.
«Dovrei... uhm... dovrei usare due mani» spiegai.
«Ma certo, tesoro, fai come vuoi».
Mi rivoltai. Mi sedetti sulla poltrona un po’ di traverso, le cosce aperte e posate sui braccioli, la testa abbandonata all’indietro, oltre lo schienale.
Mi masturbai, gli occhi chiusi e le labbra un po’ aperte. Mi titillai il clitoride con una mano, mentre con due dita dell’altra mi penetravo. Il mio petto si alzava e abbassava, ero sudata, e l’idea del fotografo che mi girellava attorno in un momento così intimo ora mi eccitava. Posai un piede su un bracciolo e sollevai il bacino, stuzzicandomi anche dietro con il mignolo.
La mia fica era congestionata e lucida di umori, ormai. Pulsava. Stavo godendo. Stavo per... stavo per raggiungere il piacere e... immaginai il Signor K, il misterioso, senza-viso, Signor K, che si slacciava i pantaloni e si prendeva l’uccello in mano guardando le mie foto. Immaginavo il suo cazzo grande e duro, la sua mano con le vene in rilievo...
Quando arrivai a immaginare la sua eiaculazione, raggiunsi il piacere anch’io. La mia fica gocciolò umori e mi trovai la mano tutta bagnata.
Socchiusi gli occhi, ancora ansante. Era stato un orgasmo debole, ma comunque ce l’avevo fatta.
«Sei stata meravigliosa, tesoro. Ora resta un attimo lì... riprendi fiato... saresti contraria a leccarti le dita?».