2. Capitolo Due

1664 Words
2 CAPITOLO DUE Giorno presente Bryan Vega seguiva la sua preda. Erano nei boschi dietro la fattoria e lui aveva fiutato l’odore solo un minuto prima. Non era nella sua forma animale, non quel giorno. Cosa che rendeva l’inseguimento molto più difficile. E molto più divertente. Procedeva con cautela, per non far scricchiolare le foglie sotto gli scarponi. La sua preda non sapeva che fosse a pochi passi di distanza e lui voleva fare in modo che rimanesse ignara. Finché il vento non cambiava direzione, aveva tutto sotto controllo. La brezza faceva mormorare le foglie sugli alberi e lui rovesciò la testa all’indietro per goderne la carezza. L’autunno era il periodo dell’anno che preferiva, e stava solo iniziando a rinfrescare. Presto si sarebbero riuniti intorno a un fuoco ad abbrustolire i marshmallow. Ma non quella sera. Quella sera lui era un cacciatore. E avrebbe vinto. Si lanciò in avanti, placcando la bionda a terra e mostrandole i denti. Stasia sbarrò gli occhi e alzò le mani per respingerlo. Bryan si immobilizzò mentre un’altra scena si affacciava alla sua mente. Dolore. Luce intensa. Un’imperiosa voce femminile. Il taglio di un bisturi. Calore. La muta. Sangue. Si ritrasse e si allontanò da Stasia, con le mani e le ginocchia a terra, mentre quel ricordo minacciava di farlo vomitare. Il vento gli stuzzicò il naso con un altro odore mentre Owen Myers, il compagno di Stasia, li raggiungeva. “Chi dei due ha vinto?” chiese, con voce briosa. Quell’uomo era sempre troppo allegro. In qualche modo l’esercito non lo aveva mai abbattuto, nonostante ci fosse rimasto per quasi un decennio in più di Bryan. “Quella in piedi sono io,” rispose Stasia con voce fredda e tagliente. Accanto a Owen appariva seria e spigolosa e la loro relazione non aveva ancora senso per Bryan, ma lui non aveva il diritto di metterla in discussione. Dopotutto, lui stesso l’aveva quasi uccisa. “Ti ho preso.” Si costrinse ad alzarsi e a respirare con la bocca come se non fosse nel pieno di un’insensata crisi di nervi. Era passato quasi un anno. Stasia era salva, felice e stava benissimo. Nessun danno permanente. Se lei aveva superato la cosa, perché non riusciva a farlo anche lui? Stasia e Owen lo fissavano come se temessero che stesse per crollare come una fanciulla dell’800 sull’orlo dello svenimento. Bryan assunse un’espressione torva e mostrò loro il dito medio. Owen fece una risatina e Stasia alzò gli occhi al cielo. “Da ciò che ho visto direi che la mia adorabile compagna sia stata la chiara vincitrice,” dichiarò Owen, passando un braccio intorno a Stasia e conducendola con sé verso il limitare del bosco. “Lo diresti a prescindere,” mormorò Bryan. “Ecco perché non è compito tuo decidere chi vince.” “Non ci sono vincitori.” Stasia si voltò a lanciargli un’occhiata comprensiva. Non gli offrì pietà, né dovette perdonarlo di nuovo per ciò che le aveva fatto. Sapeva che lui non voleva più parlarne. “Era un esercizio di addestramento. Ed è vero che devo migliorare nell’evitare che la gente mi sorprenda di soppiatto.” Owen sorrise. “Ma ti piace se sono io a farlo.” La dottoressa del branco era forse arrossita? C’erano dei sottintesi in quell’affermazione, e se al posto di Stasia ci fosse stata qualcun’altra Bryan non avrebbe tenuto a freno la lingua. La risposta provocatoria che aveva pensato gli rimase invece bloccata in gola e rischiò di soffocarlo. Entrarono in casa attraverso il seminterrato. Era una grande casa colonica circondata da ettari di terreno aperto e di foresta, perfetta per il più strano branco di licantropi, anzi, di lupi mutaforma, esistente al mondo. A quanto pareva, ai licantropi non piaceva essere definiti tali. Strano. “Dov’e la Jackson?” chiese Owen mentre si sfilava la giacca di pelle e la appendeva a un gancio vicino alla porta. “Giuro che era qui.” Inspirò profondamente. Bryan saggiò gli odori nell’aria e gli sembrò di aver individuato un sentore della loro compagna di branco, ma non ne era sicuro. Tutti loro passavano talmente tanto tempo nella fattoria che ormai i muri erano impregnati del loro odore. “Io non l’ho vista,” disse. “È passata, prima, per parlare con Jericho,” rispose Stasia. “Jericho?” Sul volto di Owen apparve un’espressione di orrore. “Lo chiami così?” “È il suo nome, caro.” Dalle sue parole trapelava il sarcasmo, ma Bryan non sapeva se Owen fosse in grado di coglierlo. “Vega, vieni su,” disse l’uomo in questione, il maggiore Jericho Gibson, chiamando Bryan dalla cima delle scale. Bryan e Owen si immobilizzarono entrambi, come catturati da un potere di attrazione, mentre Stasia continuava a guardarli come se fossero degli idioti. Dopo un attimo Bryan si riscosse e salutò con la mano i suoi compagni, dimenticando il momentaneo screzio nel bosco. Gibson lo aspettava nella piccola stanza che aveva adibito a ufficio. Non era abbastanza grande per essere una camera da letto, sebbene sotto la scrivania del maggiore ci fosse una brandina pieghevole per le situazioni di emergenza. Fortunatamente la casa di solito aveva spazi più che sufficienti per ospitare tutti per la notte. Ma il loro branco stava crescendo. Prima si era unita Stasia, poi sua sorella Em. Per ultima Vi, che era una dannata strega, come se le streghe esistessero. Parole grosse, da parte di un licantropo. No, lupo mutaforma. Quei pensieri attraversarono la mente di Bryan abbastanza in fretta da evitare che Gibson lo sorprendesse a sognare a occhi aperti. Bene. Aveva già deluso il capo a sufficienza. Gibson indicò con un cenno della testa la sedia di fronte alla sua piccola scrivania. Si era infilato nello stretto spazio dietro di essa e sembrava un po’ una salsiccia chiusa in un involucro sul punto di scoppiare. La stanza era troppo piccola per lui. Non era un uomo enorme, ma aveva una certa presenza. Riempiva ogni centimetro cubo del locale e avrebbe avuto bisogno di una superficie molto maggiore. Bryan era quasi certo che il proprio ingombro non avrebbe riempito neanche un angolo di quello sgabuzzino elevato a ufficio. Sentì dei passi fuori dalla porta; erano Owen e Stasia che salivano e si dirigevano verso la cucina. “Ho ricevuto una richiesta da parte di un amico e voglio che tu accetti l’incarico.” Gibson fece scivolare verso di lui una piccola pila di fogli. Quello in cima era un articolo di giornale su una sparatoria avvenuta a Manhattan un anno prima. Subito sotto Bryan notò un fascicolo riguardante una donna; la fotografia era in bianco e nero e sembrava essere l’ultima di una serie di fotocopie. Non si distingueva molto di quel viso. “Le hanno sparato?” Bryan scorse l’articolo ma non perse tempo a leggerlo di fronte al suo capo. L’avrebbe fatto più tardi. Gibson scosse la testa. “È stata testimone di una sparatoria. Gestisce una galleria d’arte; un cliente è entrato, è uscito dal retro, ne è seguita la sparatoria. Lei ha visto tutto. O almeno è l’unica disposta a parlare. Ma l’accusa teme che qualcuno cerchi di impedirle di arrivare al banco dei testimoni.” “L’uomo armato?” Bryan sentì una fitta di dolore al ricordo della peggiore ferita da arma da fuoco che avesse mai subito. “Non lo so. Non è un nostro problema. A quanto pare la galleria ha legami con la criminalità organizzata, e la signorina Delgado, la cliente da proteggere, è la figlia di un uomo che è stato collegato a più di un omicidio di mafia negli ultimi dieci anni. Non è l’uomo della pistola, ovviamente. È troppo in alto per sporcarsi le mani.” Gibson si accigliò, e Bryan si chiese se fosse una sua generale reazione al crimine o qualcosa riguardante quell’uomo in particolare. “Ho lavorato per un po’ con l’investigatore a capo del caso. Ha chiesto se potevo mandare qualcuno a sorvegliare la testimone per un paio di settimane a venire.” “Ha subito degli attentati? O è solo per prudenza?” Bryan sfiorò con il pollice il bordo delle pagine, sapendo che la risposta poteva trovarsi lì. Ma la lettura doveva aspettare. “Un’altra giovane donna è stata aggredita a un isolato dall’appartamento della signorina Delgado. Potrebbe essere una coincidenza, ma le due sono circa della stessa altezza e hanno un simile colore di capelli. L’assalitore ha voluto il portafoglio e dopo aver letto i documenti della vittima ha gettato tutto a terra ed è scappato, come se avesse fermato la persona sbagliata. Tu dovrai essere l’ombra della testimone. Tutto chiaro?” Gibson lo guardò come se avesse tutta la fiducia del mondo sul fatto che lui potesse farcela. Bryan non ne era certo. Non aveva più lavorato da solo dopo il ferimento, e anche prima di allora solo raramente. Ma Gibson non gli avrebbe assegnato l’incarico se non avesse avuto fiducia nelle sue capacità. “Io sono libero,” disse Owen dalla soglia. Si appoggiò allo stipite con un sorriso disinvolto sul viso. “Sarei felice di tenere d’occhio la situazione.” Gibson fissò lo sguardo su Owen. “Quindi avete trovato il proprietario del numero di telefono su cui stavate indagando e avete stabilito se il fratello della dottoressa Nichols abbia o meno qualcosa a che fare con la nostra trasformazione o con le sparizioni di cui siamo venuti a conoscenza qualche mese fa?” Owen sussultò e il suo sorriso si spense. “Ci stiamo ancora lavorando. Il fratello di Stasia è un tipo difficile da incastrare.” “Senza dubbio.” Gibson intrecciò le dita. “Tu mantieniti pronto, ma voglio solo Vega a occuparsi del caso. Vai solo se ti chiama. Non ha bisogno di una babysitter. Intesi?” Owen annuì brevemente. “Sì, signore.” Bryan strinse i documenti tra le mani e sperò di essere degno della fiducia che Gibson stava riponendo in lui.
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