IncontroIl pomeriggio del 12 di maggio del 1920, Soames Forsyte uscì dal Knightsbridge Hôtel dove alloggiava, con l’intenzione di visitare una collezione di quadri in una bottega d’arte presso Cork Street e vedere se vi trovava qualche opera d’avvenire. Si avviò a piedi. Dopo la guerra, non prendeva più vetture, se poteva farne a meno. I guidatori apparivano, ai suoi occhi, gente maleducata e incivile, benché ora, che la guerra era finita e l’offerta ricominciava a superare la domanda, si stessero rifacendo più cortesi, secondo la legge della natura umana. E tuttavia non li aveva perdonati, identificandoli, nel profondo del suo essere, con delle tetre memorie, e ora, oscuramente, come tutti i membri della sua classe, con la rivoluzione. Tutta l’ansia che aveva dovuto sopportare durante la guerra, o, più ancora, durante il periodo di pace che ne era seguito, aveva avuto necessariamente notevoli conseguenze psicologiche su una natura così tenace. S’era così spesso immaginato la rovina, che era giunto ormai a non credere più alla sua possibilità materiale. Quando si pagano quattromila sterline all’anno per tassa sul reddito e sopratassa, è molto difficile che possa andar peggio. Del resto, un patrimonio di un quarto di milione, col solo passivo di una moglie e di un’unica figlia, investito in forme molto diverse, offriva una solida garanzia anche contro quella “idea da pazzi” che era l’imposta sul capitale. Quanto alla confisca dei profitti di guerra, Soames era perfettamente favorevole al provvedimento, poiché lui non ne aveva, e «se lo meritavano quei mascalzoni». Inoltre, il prezzo dei quadri era cresciuto più che mai e dalla guerra in poi i suoi contratti erano stati assai più vantaggiosi. Anche le incursioni aeree avevano agito beneficamente sul suo temperamento originariamente cauto, rafforzando un carattere già testardo. Il pericolo della rovina totale faceva sentire come meno grave la rovina parziale prodotta da tutte quelle imposte e tasse; e poi l’abitudine di condannare l’impudenza dei tedeschi si era naturalmente trasformata nell’abitudine di condannare l’impudenza dei laburisti, se non apertamente, almeno nel santuario dell’anima sua.
Si avviò dunque a piedi. Del resto aveva del tempo libero, perché doveva incontrare Fleur alla bottega d’arte alle quattro, e non erano che le due e mezza. E poi gli faceva bene camminare – aveva un po’ di mal di fegato e i nervi straordinariamente tesi. Sua moglie era sempre fuori casa quando si trovava in città e sua figlia aveva l’abitudine di folleggiare in giro, senza regola e senza scopo, come facevano quasi tutte le giovinette dopo la guerra. E ancora doveva ringraziare che lei fosse stata troppo giovane per poter avere in quella guerra una qualsiasi parte attiva. Non ch’egli non l’avesse approvata e sostenuta, la guerra, sin dall’inizio, con tutta l’anima, ma mettere in pericolo per essa la moglie e la figlia era una cosa totalmente diversa a cui si ribellava tutto il suo spirito di inglese all’antica, nemico delle emozioni eccessive. Perciò, aveva decisamente proibito ad Annette, che era così bella, e nel 1914 aveva soltanto trentaquattro anni, di andare nella nativa Francia, la sua chère patrie come aveva cominciato a chiamarla sotto l’influsso della guerra, a curare i suoi braves poilus. Che diamine! Andar là a rovinarsi la salute e l’aspetto! Come se fosse un’infermiera qualunque! E la sua proibizione era stata inesorabile. Lavorasse per loro, ma a casa sua, di ago o di ferri e d’uncinetto! Lei naturalmente non era andata, ma non era stata mai più la stessa donna dopo d’allora. Si era sviluppata in lei una spiacevole tendenza a prenderlo in giro, non apertamente, ma con piccole frecciate continue. Quanto a Fleur, la guerra aveva risolto la discussa questione se dovesse o no andare a scuola. Era meglio se se ne stava lontana da sua madre, da quel suo umore guerriero, lontana dal pericolo delle incursioni aeree, dall’incitamento a fare cose stravaganti: l’aveva messa in un collegio molto lontano, e ne aveva sentito poi terribilmente la mancanza. Fleur! Non s’era mai pentito di averle dato quel nome un poco straniero, con cui aveva deciso improvvisamente di chiamarla alla sua nascita – benché fosse stata una notevole concessione al gusto francese. Fleur! Un bel nome – e una bella creatura! – ma inquieta! – troppo inquieta; e testarda! E conosceva bene il suo potere sul padre! Soames qualche volta pensava di far male a venerare la figlia a quel modo. Ma invecchiava e un pochino rimbambiva forse! Sessantacinque anni! Tirava avanti ormai; ma la sua età non la sentiva molto, perché, fortunatamente per lui, nonostante la giovinezza e il fascino di Annette, questo secondo matrimonio era stato un affare piuttosto freddo. Aveva avuto nella sua vita una sola grande passione, per la prima moglie: Irene. Sì, e Jolyon, suo cugino, quello che se l’era portata via, era molto invecchiato e malandato dicevano. E non era da meravigliarsi, a settantadue anni, dopo venti anni di quel terzo matrimonio!
Soames si fermò per un momento e s’appoggiò alle ringhiere del Row. Era quello un luogo che risvegliava in lui molti ricordi, situato così, a metà strada fra la casa di Park Lane in cui era nato e i suoi genitori erano morti, e la piccola casa in Montpellier Square dove, trentacinque anni prima, aveva goduto il suo primo matrimonio. Ora, dopo vent’anni di questa seconda unione, la vecchia tragedia gli appariva come un’esistenza antica e diversa – finita quando era nata Fleur invece del figlio maschio che aveva sperato. Erano molti anni che aveva smesso di rimpiangere, anche solo vagamente, questo figlio che non era mai nato: Fleur bastava a riempirgli il cuore. Dopotutto, lei portava bene il suo nome, ed era inutile per ora pensare al giorno in cui avrebbe dovuto cambiarlo. E anzi, se mai pensava a una simile calamità, si consolava col sentimento vago di farla ricca abbastanza per comprare forse ed estinguere il nome dell’individuo che l’avrebbe sposata – e perché no, poi, visto che le donne ormai erano considerate uguali agli uomini? E Soames, segretamente convinto che non lo fossero affatto, si passò sul volto la mano nodosa e la fermò sul mento quadrato. Grazie alle sue abitudini di moderazione, non era diventato grasso e flaccido; il suo naso era pallido e sottile, i baffi rasati, la vista ancora forte. I capelli grigi gli s’erano un po’ assottigliati sulla fronte facendo apparire il volto più lungo e più largo, ma l’abitudine da lui presa di tenere la testa un po’ curva attenuava questo difetto della sua fisionomia. Il tempo aveva operato pochi mutamenti nel “più caloroso” dei giovani Forsyte, come l’avrebbe definito l’ultimo dei vecchi Forsyte: Timothy, che aveva ora centouno anni.
L’ombra dei platani cadeva sul suo cappello floscio. Egli aveva rinunciato al cilindro – era inutile attirare l’attenzione sulla propria ricchezza in tempi come questi! I platani! Ritornò col pensiero a Madrid – alla Pasqua prima della guerra, quando, essendosi innamorato di quel quadro di Goya, aveva fatto un viaggio di scoperta per studiare il pittore nella sua terra. Ne era rimasto impressionato – grande arte, vero genio. E aveva comprato. E – per la prima volta in vita sua – aveva fatto fare, su ordinazione, una copia di un affresco chiamato La Vendimia, in cui c’era una figura di fanciulla con la mano sul fianco che gli era parso somigliasse a sua figlia. Ora la teneva nella sua Galleria di Mapledurham, benché non fosse una gran cosa – un quadro di Goya non lo si può copiare. Spesso la contemplava, quando sua figlia non c’era, per una somiglianza irresistibile che gli appariva nel leggero equilibrio della persona eretta, nell’ampiezza tra le maliziose sopracciglia scostate, nell’ansiosa espressione sognante degli occhi scuri. Era curioso che Fleur avesse gli occhi scuri, mentre i suoi erano grigi – nessun Forsyte aveva gli occhi completamente neri – e quelli di sua madre azzurri! Già, ma gli occhi della nonna Lamotte erano neri come la pece!
Ricominciò a camminare verso Hyde Park Corner. In nessun altro posto, come nel Row, si poteva sentire il mutamento avvenuto in quegli anni in Inghilterra! Soames vi era quasi nato, per così dire, e lo ricordava benissimo dal 1860 in poi. Bambino, vi era stato portato a contemplare tra le sottogonne, gli elegantoni coi calzoni attillati e le fedine, che cavalcavano in atteggiamento altero e cavalleresco; ricordava benissimo il gesto con cui i cavalieri levavano il cappello a cilindro dall’orlo rivoltato e come ci fosse su tutto un’aria di ozio e di calma; e ricordava anche l’omino dalle gambe storte e dal lungo panciotto rosso, che soleva andare in mezzo al mondo elegante, con diversi cani legati a delle funicelle e cercava di venderne uno a sua madre: cani spagnoli, veltri italiani. Ora tutto questo era scomparso. Ora non si vedeva più gente dell’alta società, ma lavoratori e impiegati, seduti stupidamente in fila, a guardare poche giovinette pompose che andavano a cavallo cavalcioni, con cappelli che parevano pignatte, e alcuni ufficiali delle Colonie che passeggiavano avanti e indietro su orribili cavalli da nolo; e, qua e là, ragazzine su cavalli nani, o vecchi signori intenti nella loro passeggiata igienica, o un attendente che provava un gran cavallone galoppante di cavalleria: non più cavalli purosangue, non più valletti, non più inchini, non più raffinatezza, non più pettegolezzi – più nulla; soltanto gli alberi erano gli stessi – gli alberi, indifferenti alle generazioni e ai decadimenti dell’umanità. Un’Inghilterra democratica, scapigliata, piena di fretta e di rumore, e apparentemente senza una linea. E Soames provò un senso di fastidio e di pena. Finito per sempre il regno delle caste, della finezza, della signorilità. C’era la ricchezza – oh sì! La ricchezza: lui era molto più ricco di quel che non fosse mai stato suo padre; ma i modi, il tono, la cortesia, tutto era scomparso, in un vasto orrido caos di gente che si urtava con le spalle, per andare avanti, e puzzava di petrolio. Qualche piccola oasi di nobiltà e di casta appariva qua e là, dispersa e chétive come diceva Annette; ma non c’era più nulla di saldo e coerente a cui si potesse guardare. E in questo mondo maleducato, pieno di disordine e di morale rilassata, era capitata sua figlia – il fiore della sua vita! E quando fossero stati al potere i laburisti – se mai ci sarebbero andati – si sarebbe visto anche di peggio!
Passò sotto l’arco, non più – grazie al cielo! – sfigurato dal grigio scuro del riflettore. “Farebbero meglio a guardar col riflettore dove andranno a finire”, pensò, “e veder bene quali saranno gli effetti della loro cara democrazia!”. E camminò lungo le facciate dei club in Piccadilly. George Forsyte, come il solito, doveva esser seduto nel vano della finestra all’Iseeum Club. Era talmente ingrassato, ormai, che quasi non si muoveva più di là, come un immobile, malevolo, sardonico testimonio, che contemplava dall’alto la decadenza di uomini e cose. E Soames affrettò il passo provando un senso di disagio, quasi fisico, al pensiero di capitare sotto lo sguardo di suo cugino.
Aveva sentito dire che George, nel bel mezzo della guerra, aveva scritto ai giornali una lettera firmata “Il Patriota”, in cui accusava il governo d’isterismo perché lesinava sulla quantità di avena da concedersi ai cavalli da corsa. Sì, era là, alto, massiccio, lindo, ben rasato, coi capelli lisci e ancora folti, odoranti – certo – della più fine lozione per capelli, con un foglietto rosa in mano. Lui, almeno, non era cambiato! E, forse per la prima volta in vita sua, Soames sentì una specie di simpatia pulsare alla sinistra del panciotto per quel suo sardonico parente. Col suo peso, i suoi capelli divisi da una scriminatura perfetta, il suo sguardo da bue, appariva come una garanzia che il vecchio ordine era ancora vivo e suscettibile di movimento. Vide che George sventolava il foglietto rosa, come per invitarlo a salire – forse voleva chiedergli qualcosa in merito alle sue proprietà che erano ancora sotto il controllo di Soames. Perché, sebbene egli si fosse ritirato dagli affari, vent’anni prima – in quel penoso periodo della sua vita –, s’era trovato poi, quasi insensibilmente, a conservare l’amministrazione dei beni di tutti i Forsyte.