“Vorrei avere una colomba come Noè!”, pensò.
La tonda luna nel cielo brillava
splendeva, e il suo splendore luccicava.
Dopo quella rima, che gli venne improvvisamente, sentì una musica, dolcissima, incantevole. La mamma suonava! Si ricordò di un dolcino di mandorle che aveva nascosto in un cassetto, andò a prenderlo e ritornò alla finestra. Si sporse in fuori, ora masticando, ora tendendo le mascelle per meglio ascoltare. Da diceva che gli angeli in Paradiso suonano l’arpa; ma certo la musica del Paradiso non poteva essere bella come questa che suonava la mamma, mentre lui mangiava il pasticcino. Un maggiolino gli passò accanto ronzando, una falena gli volò sul volto, la musica tacque e il piccolo Jon si ritirò dalla finestra. Ora sarebbe venuta! Non voleva essere trovato sveglio. Rientrò nel letto e si tirò le coperte fin sul capo; ma aveva lasciato le tende aperte, e ne filtrò un raggio di luna, che cadde sul pavimento, accanto ai piedi del letto; egli poté osservarlo muovere lentamente verso di lui, come se fosse vivo. La musica ricominciò, ma la udiva appena ormai: musica dormigliona, bella – dormire – musica – dormire – dor…
E il tempo continuò a scorrere, e la musica salì più alta, si spense, tacque; il raggio di luna si avvicinò al suo volto. Il piccolo Jon si rivoltò nel sonno, finché riposò sulla schiena, tenendo ancora le coperte strette nel pugnetto bruno. Gli angoli dei suoi occhi fremevano: aveva cominciato a sognare. Sognava che beveva del latte da una padella che era la luna, vicino a un gattone nero che lo guardava con un sorriso arguto, come quello di suo padre. Lo udì sussurrare: «Non bere troppo!». Certo quel latte era del gattone, ed egli allungò la mano amichevolmente per accarezzare la bestia; ma il gatto non c’era più; la padella era divenuta un letto, in cui egli giaceva, e quando cercò di uscirne, non ne trovò la fine; non poteva trovarla – non poteva uscire! Era terribile!
Si lamentò nel sonno. Anche il letto aveva cominciato a girare; era fuori di lui e dentro di lui; girava e girava, come infuriato, ed era la Mother Lee del Cast up by the sea che lo faceva muovere! Oh! Com’era orribile il suo volto! Sempre più in fretta! Finché lui e il letto e Mother Lee e la luna e il gatto non furono più che un’unica ruota che continuava a girare, su, sempre più su, in modo orribile – orribile – orribile!
Diede un urlo.
Una voce che diceva: «Caro, caro!» fece fermare la ruota, ed egli si trovò in piedi sul letto, con gli occhi spalancati.
C’era sua madre, coi capelli sciolti, simili a quelli di Ginevra e, abbracciandola, vi seppellì il volto:
«Oh! Oh!».
«Va tutto bene, tesoro. Ora sei sveglio. Su! Su! Non è nulla!»
Ma il piccolo Jon continuava a dire:
«Oh! Oh!».
E la voce della mamma continuava, vellutata, al suo orecchio:
«È stato il chiaro di luna, caro, che ti cadeva sul volto».
Il piccolo Jon borbottò, nascondendo la testa nella sua camicia da notte:
«E tu dicevi che era bello. Oh!».
«Non per dormirci dentro, Jon. Chi l’ha lasciato entrare? Hai aperto le tende?»
«Volevo vedere che tempo era; ho… ho guardato fuori, e ho… ho sentito che suonavi, mammina; e ho… ho mangiato il mio pasticcino di mandorle».
Ma pian piano si calmò; e subito rinacque in lui il desiderio di giustificare la propria paura.
«C’era Mother Lee che mi correva dietro, tutta inferocita», borbottò.
«È più che naturale, Jon, quando si mangiano dei pasticcini di mandorle dopo che si è già andati a letto».
«Ma ne ho mangiato uno soltanto, mammina; così la musica era ancora più bella. Ti aspettavo, e quasi credevo che fosse già domani».
«Angioletto mio, sono appena le undici».
Il piccolo Jon tacque per un momento, strofinandole il naso contro il collo.
«Mamma, c’è il babbo nella tua camera?»
«Questa sera no».
«Posso venire?»
«Se proprio lo vuoi, tesoro».
Ormai quasi completamente rientrato in sé, il piccolo Jon si tirò indietro per meglio guardarla.
«Sei diversa così, mammina; mi sembri ancora più giovane».
«Perché ho i capelli sciolti, caro».
Il piccolo Jon li prese – densa massa d’oro bruno, con qualche filo d’argento.
«Mi piacciono», disse. «E questa pettinatura ti sta proprio bene».
Le prese la mano e la trascinò verso la porta. E, quando furono passati, la chiuse con un sospiro di sollievo.
«Quale parte preferisci, mammina?»
«La sinistra».
«Benissimo».
Senza perdere tempo, temendo ch’ella potesse cambiare idea, il piccolo Jon entrò nel letto, che gli parve molto più morbido del suo. Trasse un altro lungo sospiro, affondò la testa nel cuscino e si pose a osservare la battaglia folta di carri, di spade e di lance, che si svolgeva sulle coperte, per effetto del riflesso dei capelli contro la luce.
«Ma non c’era nulla davvero?», disse.
Davanti allo specchio, la madre gli rispose:
«C’era soltanto la luna e la tua immaginazione riscaldata. Non bisogna che ti ecciti tanto, Jon».
Ma il piccolo Jon, benché non ancora del tutto padrone dei propri nervi, rispose, vantandosi:
«Ma io non avevo affatto paura!». E di nuovo tacque contemplando la battaglia fitta di carri e di lance. Gli parve che fosse passato molto tempo.
«Oh! Mammina, fa’ in fretta!»
«Caro, devo intrecciarmi i capelli».
«Oh! Non intrecciarli questa sera. Tanto domani li dovrai sciogliere di nuovo. Ora ho sonno; se tu non vieni, tra un po’ mi passerà la voglia di dormire».
La madre si alzò bianca e fiorente, di fronte allo specchio girevole; così poteva vederne tre, col collo girato e i capelli luminosi sotto la luce della lampada e gli scuri occhi ridenti. Ma era inutile, e disse:
«Vieni dunque, mammina; ti aspetto».
«Sì, amore, vengo».
Il piccolo Jon chiuse gli occhi. Tutto andava per il meglio, ma bisognava che la mamma facesse presto! Sentì muovere il letto, comprese che vi era salita. E, sempre con gli occhi chiusi, disse con voce quasi addormentata:
«È bello così, no?».
Udì la sua voce che diceva qualcosa, sentì il tocco delle sue labbra sul naso, e, accoccolandosi accanto a lei, che giaceva ben sveglia, amandolo con tutta l’anima sua, affondò in un sonno senza sogni, che si chiuse sul suo passato.