Fra Pasquale

3338 Words
Fra Pasquale Santini e Mali percorsero il cunicolo che dal Rifugio portava alle cantine del Monastero, salirono le scale e seguirono il corridoio che conduceva alle celle dei monaci: quella di Fra Pasquale era l’ultima in fondo, la più umile. Sei frati erano assiepati appena fuori dalla porta, timorosi di entrare per non subire l’ira del loro amatissimo fratello. Quando videro Santini, i sei gli si inginocchiarono di fronte e baciarono l’anello papale in segno di deferenza e devozione. Conoscevano il compito di quell’uomo, ignoravano molte delle sue caratteristiche, ma sapevano della sua enorme influenza all’interno della Santa Sede. «Reverendissima Eccellenza», disse uno di loro, «il fratello Pasquale vuole vederla da solo.» Nella Chiesa Cattolica il titolo di Eccellenza era riservato ai vescovi e agli arcivescovi. Sia per il titolo di Eccellenza che per quello di Eminenza, il cerimoniale imponeva di far seguire sempre l’aggettivo Reverendissima. Lo stesso titolo poteva essere riconosciuto a persone degne che si erano distinte per le loro azioni e per la dedizione alla Chiesa Cattolica. Il ruolo di Santini, quale Risolutore e Gran Maestro del Supremo Ordine di San Silvestro e della Milizia Aurata, gli garantiva il diritto di essere componente attivo della Pontificia commissione per lo Stato della Città del Vaticano. Lui era, quindi, una delle poche personalità che rivestivano, per la Santa Sede, particolari funzioni di stretta utilità per il Papa. Per questa ragione poteva fregiarsi del titolo di Eccellenza. «Ditemi cos’è successo», chiese Santini, «illustratemi ogni dettaglio prima e dopo il malore, anche quello che vi è apparso più strano o meno importante, e fatelo con dovizia di particolari.» I sei frati raccolsero le idee, si consultarono velocemente ed esposero la versione dei fatti così come cronologicamente accaduti. I dettagli furono a volte fumosi e poco chiari, alcuni passaggi vennero via via corretti, ma i frati riuscirono a essere abbastanza precisi nella loro esposizione definitiva. Quella mattina si erano accorti che Fra Pasquale non era ancora uscito dalla sua cella. Un fatto straordinario se si considerava che l’anziano frate, da oltre cinquant’anni, era sempre il primo ad alzarsi e l’ultimo a ritirarsi nella sua stanza. Quando i fratelli erano andati a controllare, si erano resi conto della gravità della condizione di salute del loro anziano fratello. «Fra Pasquale era in preda al delirio», precisò il frate che era entrato per primo nella cella. «Era pallido e febbricitante, il suo corpo era scosso da incredibili tremori e aveva la bava alla bocca. Pareva indemoniato e ho preso davvero paura. Ho chiamato gli altri e, una volta accorsi, il nostro amato fratello ha iniziato a dire cose strane, parlava in modo sconclusionato, pronunciando frasi incomprensibili.» Intervenne un altro frate. «Non sembravano parole compiute, con una pronuncia intellegibile, bensì somigliavano a soffi, quasi fossero sussurri. L’impressione che abbiamo avuto è che Fra Pasquale si esprimesse senza l’uso dei vocaboli.» A quest’ultima affermazione Santini trasalì. «Ne siete sicuri? Avete capito cosa dicesse?» Tutti annuirono. «Non tutte le parole, Reverendissima Eccellenza, ma una serie di lettere ci è rimasta impressa, anche perché le ha bisbigliate per ore con una forma particolare di lunghezza vocalica: “I-a-u-o-o-e”. Altre volte urlava come un forsennato la parola ‘El Shaddai’, allargando le braccia come se volesse chiamare qualcuno che si stava allontanando. Pareva un nome, piuttosto che una qualsiasi altra cosa.» «E di quel nome, o della figura che voleva assimilargli», affermò sicuro un altro frate, «il nostro amatissimo fratello ne aveva di certo estremo timore.» Santini si fece ancor più serio e pensieroso. Mali si avvicinò a lui. «Tu hai capito cosa significano questi vocalizzi associabili alle lettere ‘I-a-u-o-o-e’ e chi potrebbe essere questo ‘El Shaddai’?» «Sì Mali», rispose abbassando lo sguardo, quasi si vergognasse a dire quel che stava per pronunciare. «Significa che il mio caro amico è stato in Paradiso.» Detto questo, il Risolutore entrò nella cella, chiudendosi la porta alla spalle e lasciando Mali e i frati nello sbigottimento più totale. Il pensiero che stava prendendo sempre più piede nella mente di Santini era che Fra Pasquale fosse in punto di morte. Non era un’idea tanto campata per aria o un suo personale presentimento, ma un dato di fatto sul quale stava maturando una riflessione certa. Non se lo sapeva spiegare, ma era convinto che fosse inevitabile. Nessuno conosceva la reale età di Fra Pasquale, in alcuni documenti nell’archivio del Consiglio si leggeva che fosse nato nel 1900, per cui avrebbe avuto centoquattordici anni, in altri la data di nascita riportata era il 1912, comunque sia ne avrebbe avuti centodue. Che a Santini piacesse o meno, neppure Fra Pasquale era eterno e inoltre era convinto che l’età giusta del suo maestro fosse la prima, piuttosto che la seconda. Non l’aveva mai visto ammalato o dolorante, il frate era sempre stato una roccia: fortissimo, in forma e, soprattutto, arzillo come non mai. Conosceva il suo maestro da sempre, era il suo prozio, il fratello di suo nonno, e aveva vissuto una vita intera al suo fianco. La madre morta di parto e la prematura scomparsa del padre quando Santini non aveva nemmeno tre anni avevano costretto Fra Pasquale, unico parente rimasto, a prendersi cura del piccolo Tommaso, a educarlo e farlo crescere sano e forte ottenendone la custodia legale. Fra Pasquale, a quell’epoca, ricopriva la carica che ora rivestiva Santini, era il Risolutore del tempo. Il frate lo aveva allevato amorevolmente, ma nel contempo lo aveva addestrato al meglio delle sue possibilità. Lo aveva fatto studiare presso i frati dell’Abbazia di Praglia, dotata di una meravigliosa e antichissima biblioteca ricca di antichi testi in latino, greco, copto, aramaico, arabo, ma anche in spagnolo, inglese, tedesco, russo e francese. Tutte lingue ben conosciute da Santini che eccelleva, però, anche in altre materie, in primis la teologia. Fin da bambino Santini era stato istruito al combattimento, all’uso dell’arma bianca, senza disdegnare quelle da fuoco una volta raggiunta la maggiore età. Fra Pasquale lo aveva visto crescere in fretta, anche se il giovane Tommaso lo portava, a volte, al colmo della disperazione. Infatti il ragazzo svolgeva i compiti e gli esercizi in modo lodevole, si impegnava e non si lamentava mai delle lunghe sedute di addestramento a cui veniva sottoposto. Santini era tutt’altro che un semplice allievo, era perfetto per qualsiasi esercizio, era al massimo della forza fisica e spirituale, il miglior apprendista che ogni maestro avrebbe mai potuto desiderare, ma era impaziente, e questo era il suo unico lato negativo che, però, vanificava spesso l’ottimo lavoro che faceva. Aveva fretta, troppa veemenza di raggiungere il risultato, senza un briciolo di pazienza. Su tale aspetto il frate era stato inflessibile: finché Santini non fosse entrato nella logica della tolleranza, non sarebbe stato dichiarato pronto. E questo fatto a Santini non andava a genio, a sentire lui era preparato fin da quando era nato. Poi, con l’età, si era finalmente calmato, raggiungendo il giusto equilibrio. Fra Pasquale lo aveva reso uomo e grande, influente e potente, riverito e rispettato. Doveva tutto a quel vecchio saggio che amava come si ama un padre presente a cui fare riferimento. E quell’amore era incondizionatamente ricambiato dall’arzillo frate che vedeva in lui il figlio che ogni padre ambisce di avere. Era stato un formidabile maestro di vita e un personaggio così particolare rimaneva tale fino alla morte. Quella stessa idea di morte che ora lo terrorizzava oltre misura. Era altrettanto certo, però, che qualsiasi roccia, a lungo andare, si sgretolava e, forse, era davvero giunta l’ora anche per l’anziano prozio. Quanto asserito dai confratelli convinse Santini ad attendersi il peggio. Non aveva mai nemmeno immaginato che potesse giungere l’ora funesta per il suo venerato maestro e mentore, mai aveva pensato di sedersi al suo capezzale per una malattia o per la fine dei suoi giorni terreni. Eppure era lì. Santini si avvicinò al giaciglio di Fra Pasquale, lo accarezzò amorevolmente in fronte e si inginocchiò, gli prese la mano e gliela baciò. «Ciao maestro» gli disse. «Hai fatto prendere un bello spavento a tutti…» L’anziano frate non lo lasciò finire. «L’ho visto, Tommaso», esordì, «ho visto il supremo nostro Signore. L’ho cercato una vita intera senza mai avere il privilegio di incontrarlo, ma ora l’ho visto.» Fece per alzarsi, ma non ne ebbe la forza, per cui si rimise disteso. «Questo significa una sola cosa, Tommaso: che sto morendo, figlio mio.» Era la prima volta che lo chiamava ‘figlio mio’ e Santini sentì un groppo alla gola. Trattenne una o, forse, anche più lacrime. Si era prefisso di essere di conforto e non di apparire sofferente, quindi si sforzò di sorridergli. «Di sicuro avrai fatto un sogno e, se hai incontrato il nostro Dio, allora deve essere stato un sogno stupendo.» «Non scherzare con me, Tommaso», gli rispose, «anche se mi manca poco per raggiungere i due secoli di età, non sono ancora del tutto rincoglionito.» Sorrisero entrambi a quella battuta. Si vedeva che l’anziano monaco non era per nulla turbato e, in più, appariva in ottima salute, forse un po’ affaticato, ma nel complesso sembrava stesse bene. Gli occhi arzilli e svegli, che sempre lo avevano contraddistinto, brillavano di una luce quasi aurea, beata. Il colorito roseo della pelle del volto significava che non aveva febbre e le parole espresse poco prima erano state pronunciate con la sua classica flemma, seppur condita dalla simpatia a cui Santini era abituato. Ma sentiva che c’era qualcosa di indefinito, una sensazione forte nella stessa misura in cui risultava inafferrabile. Volle capire. «Maestro, sai chi è El Shaddai?» Il frate non si scompose più di tanto. «Certo: è il nostro Signore Iddio. Te l’ho detto che l’ho visto, o non mi ascolti?» «Certo che ti ascolto», lo rassicurò, «ma ti chiedo: tu come fai a sapere che El Shaddai è Dio?» «Oh beh, che importa? Lo so e basta! Forse me lo avrà detto Lui, che t’importa di come lo so?» gli rispose infastidito. “È lucido oppure sta farneticando?”, si stava domandando Santini. Lo inquietava il fatto che El Shaddai fosse effettivamente il nome di Dio. Così veniva chiamato in epoca pre-mosaica. In quel tempo Abramo aveva condotto una sanguinosa guerra di conquista nella terra di Canaan, sconfiggendo con il suo esercito alcuni sovrani ribelli. Il Dio, cui gli antichissimi testi facevano riferimento, veniva chiamato ‘El Shaddai’, o anche ‘Il Signore della Montagna’. Era lo stesso titolo assegnato all’Entità che avrebbe poi parlato a Mosè sul monte Horeb{14}, nel Sinai. Solo in seguito, dopo lunghi ed estenuanti lavori di traduzione e trascrizione dei racconti biblici, era stato introdotto il nome di ‘Yahweh’, nella classica forma Ebraica priva di vocali che corrispondeva a ‘Yhwh’. ‘Io sono quegli che sono’, questa era la traduzione letterale della parola ‘Yhwh’, e questa era anche la risposta che Dio aveva dato a Mosè sul Monte Sinai, quando il Patriarca aveva preteso che il misterioso interlocutore, apparso sotto forma di fuoco freddo all’interno del Roveto Ardente{15}, ribadisse la sua identità. Tutto ciò era ben chiaro nella mente di Santini che aveva studiato a lungo le Sacre Scritture. Il Signore aveva detto a Mosè che Egli era il Dio di Abramo e, secondo gli antichi testi, il Dio di Abramo{16} era El Shaddai. Nelle moderne versioni bibliche Egli veniva erroneamente tradotto come ‘Altissimo Iddio’. Usato nei testi della tradizione Ebraica, poi reso in latino nella Vulgata{17}, El Shaddai era un nome semitico, corrispondente al mesopotamico Enlil, o Ilu Kur-gal, che tradotto significava appunto: ‘Il Signore della Grande Montagna’. Fu soltanto molto più tardi che Yahweh venne convertito nella moderna, ibrida accezione di Jehovah{18}. Santini non era sicuro che Fra Pasquale conoscesse questi aspetti della teologia, in quanto resi noti dopo gli anni settanta. Solo pochi iniziati, tra cui il Risolutore, potevano consultare quei testi, custoditi in segreto presso l’archivio vaticano e Fra Pasquale, all’epoca, non rivestiva più quella carica. Ma la cosa che lo stupiva di più, anzi, addirittura lo sconvolgeva, erano le vocali ‘I-a-u-o-o-e’ che Fra Pasquale pareva aver bisbigliato. Non le aveva pronunciate, bensì aveva emesso un complicato suono fonetico particolarmente allungato. Per gli altri erano vocalizzi senza senso, ma non per lui. Questo gli fece venire in mente gli albori dell’attuale conoscenza del linguaggio, prima che venisse inventata la parola, cioè alla comparsa dell’Homo Sapiens in epoca primitiva. Il che collocava la vicenda molto, ma molto prima dell’invenzione dello scritto, in pratica, doveva considerare il tempo in cui aveva avuto origine la lingua stessa, unico tratto distintivo dell’uomo nei confronti di altre specie viventi. Santini sapeva che, in fonetica, una vocale era un fono prodotto mediante la laringe che dava come risultato un vocoide, un suono prodotto dalle pliche vocali durante l’espirazione, meno le pliche vibravano, più il suono era mormorato. Il nome di Dio, ‘Yhwh’, in Ebraico si pronunciava Yahweh, ma, se espresso nell’antica lingua e sussurrato, si sarebbe ottenuto qualcosa di simile a: “I-a-u-o-o-e – Iauooe” “Yhwh” scritto in Ebraico. Per articolare un suono così preciso e particolare servivano una conoscenza e una preparazione specifica che Santini non riconosceva nell’anziano frate. Inoltre, l’aver nominato Dio con il suo nome originario facendo risuonare le vocali per un tempo prolungato convinse Santini a credere che Fra Pasquale avesse davvero incontrato il Signore. Si diceva, infatti, che gli antichi sacerdoti, seguaci di Abramo, fossero gli unici capaci di pronunciare il nome di Dio, Yhwh, tramite il sussurro non vocalizzato, soltanto bisbigliandolo con il respiro. Questa particolare tecnica fonetica permetteva di ottenere due incredibili vantaggi. Il primo era la possibilità di obbedire a quello che, in seguito, era stato considerato uno dei Comandamenti più importanti per l’intera cristianità: ‘non nominare il nome di Dio invano’. Il secondo e non meno importante, almeno per i sacerdoti dell’epoca, era la convinzione che tutti coloro che avessero imparato a chiamare Dio attraverso il sussurro non vocalizzato, avrebbero potuto catturare la gloria di Yhwh, attirandola a sé al fine di ottenere effetti e poteri sorprendenti. Ipotesi che altro non era se non lo sforzo massimo della fantasia e dell’aspirazione degli adepti, ma ben lontana dal potersi concretizzare. Comunque sia, i sacerdoti si allenavano con continuità a usare la tecnica delle vocali sussurrate, e non tutti ci riuscivano. Questa riflessione convinse ancor di più Santini a pensare seriamente che il suo maestro non fosse andato fuori di senno, anzi, ora ponderava l’idea dell’esatto contrario. Fra Pasquale non possedeva quelle informazioni, men che meno la capacità maturata dagli antichi sacerdoti di Abramo di utilizzare il sussurro non vocalizzato. A dire il vero, nemmeno lui ne era capace, ne conosceva il suono e i tratti distintivi, ma non il suo utilizzo. «Credo sia opportuno che tu venga portato in ospedale», disse con il tono deciso di chi non avrebbe tollerato dinieghi, «servono degli approfonditi accertamenti medici per capire se è stato un malore passeggero, e per tranquillizzare tutti noi.» Il frate si fece scuro in volto. «Non ci penso proprio di uscire dall’eremo. E poi, che sto per morire già lo so, non serve che me lo dicano gli altri, tanto meno dei medici incompetenti che non capiscono nulla di medicina.» «Non fare il ragazzino, non ne hai più l’età da un secolo, ormai», gli rispose allusivo Santini, «e vedi di convincerti a farti curare da professionisti seri. Alla tua età è meglio non sottovalutare nessun sintomo, anche psicologico, visto che pensi di morire così presto.» Fra Pasquale incrociò lo sguardo di Santini e lo gelò all’istante. Lo prese per il collo e, con forza inaspettata, lo tirò a sé, a qualche centimetro dal suo naso. «Tu non mi muoverai di qui», intimò con fare grave, «hai capito? Ricordati che sono il tuo maestro, e mi devi obbedienza. Guai a te se provi a farmi uscire da questo colle, ti giuro che potresti pentirtene amaramente.» Santini indietreggiò incredulo. Fra Pasquale era sempre stato cortese con tutti e amorevole con lui. Eppure non sembrava scherzasse, era serio e determinato come mai lo aveva visto prima. «Sei cocciuto come un mulo» gli fece notare. «Ecco, credo che questo sia l’unico mio aspetto caratteriale che ho preso da te, Tommaso» fu la risposta dell’anziano prozio. «Va bene», gli disse Santini ancora poco convinto, «faremo come dici tu, ma starai nell’infermeria del Rifugio e dovrai farti visitare da Mali.» «No, no, niente visite» precisò il frate. «Se devo morire, lo voglio fare e basta, però se sono ancora vivo dopo aver incontrato l’Altissimo, significa che Lui ha voluto affidarmi un compito. Ancora non so qual è, devo pensare, concentrarmi e scoprire di quale incarico si tratta. È un onore a cui non voglio e non posso sottrarmi.» Santini era convinto che l’amato prozio non fosse esattamente all’interno dei parametri psicofisici cosiddetti normali. In parte era lucido, sempre arzillo, però stava perdendo coerenza e logicità, entrambe qualità che aveva sempre posseduto. Non sembrava agganciato alla realtà e ciò convinse il Risolutore a escogitare un modo per sottoporlo comunque a visite mediche per fugare ogni dubbio sul suo stato di salute, soprattutto mentale. Fra Pasquale, con uno sforzo considerevole, aprì un cassetto del comodino ed estrasse una grossa chiave appesa a una catena d’argento che, di sicuro, apriva qualcosa di molto importante. L’impugnatura riportava l’effige dello Stato Vaticano: il Triregno{19} papale nel mezzo di due chiavi. Un simbolo che solo i Papi potevano utilizzare. «Questa chiave apre una cassetta blindata nell’archivio dei Papi», precisò Fra Pasquale. «Ora è tua, il contenuto ti sarà d’aiuto e di conforto, ma potrai vederlo solo quando io non ci sarò più. Quando verrà il tuo tempo, la darai all’allievo che ti avrà sostituito nel compito che svolgi ora.» Santini prese la chiave e infilò la catena al collo. «Contaci, maestro. Ora, però, farai come dico io, tu non sei nelle condizioni di prendere delle decisioni per te, figuriamoci per gli altri.» Il frate sembrava si fosse convinto e risultò più malleabile, per cui acconsentì, ma, prima di seguire il consiglio dell’allievo, volle bere. Santini si alzò per prendergli l’acqua da una brocca posata su un mobile vicino. Mentre era girato di spalle, sentì una folata di vento che lo fece rabbrividire e udì un suono prolungato; dapprima gli apparve come un soffio che si trasformò poi in un lieve sussurro. Si voltò e notò che era Fra Pasquale la fonte di quel particolare suono, esalato in un tono che lambiva la soavità. ‘I-a-u-o-o-e’, queste le vocali modulate, le medesime udite dagli altri fratelli. Si concentrò, ebbe l’impressione di non poter sottrarsi all’ascolto. Restò immobile, quasi impietrito, e si persuase che l’anziano frate sussurrasse ogni vocale per un paio di secondi. Poi Fra Pasquale interruppe quella strana cantilena e apparve sereno. Santini fece finta di nulla e lo aiutò, alzandogli il capo per permettergli di bere. Ma l’anziano maestro non deglutì e l’acqua gli scivolò ai lati della bocca. Santini lo fissò negli occhi e notò che erano aperti ma spenti. D’istinto, e colmo di angoscia, gli auscultò il cuore. Ancora batteva. Avvicinò il volto alle labbra del suo maestro ed ebbe la conferma che respirava normalmente. «Mali!» urlò a squarciagola. La suora attendeva fuori dalla cella, alla chiamata del suo capo entrò immediatamente nella stanza. Gli altri frati stavano a debita distanza, alcuni attraversarono timidamente la soglia. Mali si rese subito conto che la situazione era grave, prese con foga gli strumenti dalla borsa medica e fece i controlli di routine. Dopo qualche minuto, effettuati più volte i vari accertamenti, si volse verso Santini incrociando il suo sguardo. Capì che lui conosceva già il responso. «È in coma», disse Mali in lacrime, rotta dall’emozione. «Fra Pasquale è entrato in coma.» I frati increduli si inginocchiarono attorno al letto e iniziarono a pregare, piangendo lacrime colme di disperazione. Santini era in piedi, immobile, appariva assente, smarrito. Dal volto impenetrabile non traspariva alcuna emozione. Era solo serio, molto serio. Si rivolse a nessuno in particolare. «Fate in modo di trasportare il mio maestro nella sala rianimazione del Rifugio.» Detto questo, uscì dalla stanza senza proferire altro. 7
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD