Miranda
Accosto al minimarket a lato della strada a Pecos per comprare le scorte per la settimana.
Non avevo programmato di tornarci fino alla tarda primavera, ma la mia ricerca sugli anelli degli alberi non poteva aspettare. Ho una dissertazione da pubblicare entro giugno, e per rispettare la scadenza ho bisogno di numeri. Ora.
La voce del dottor Alogore mi risuona ancora nella testa. “Un altro ritardo e perderai i fondi. Procurati i numeri. Adesso.”
Quando ho ribattuto dicendo che era marzo, ancora inverno nelle nostre montagne di Sangre de Cristo, la punta più meridionale delle Montagne Rocciose, e…
“Non vedo i tuoi colleghi ricercatori richiedere lo stesso tipo di trattamento speciale per le loro ricerche.”
Sento avvampare le guance mentre mi rivolge un sorrisino. Attorno al tavolo i miei colleghi ricercatori, tutti maschi, sorridono con lui. Non occorre che mi guardi intorno per capire che stanno tutti tacitamente ridendo di me. Replicano qualsiasi cosa il dottor Alogore dica o faccia. Si vestono addirittura come lui, compresa l’inguardabile cravatta a quadri e gli scarponcini Dockers.
“Va bene,” mormoro, abbassando gli occhi sulla mia cartellina gialla. Un punto di colore luminoso in una stanza altrimenti scialba, scelta perché mi dia una scintilla di gioia in questa giornata fiacca. Ma oggi è solo gialla, il colore dei codardi.
“Detto fatto, dolcezza,” dice il dottor Alogore alla mia camicetta. Vorrei posarmi una mano sopra al twin set che indosso, ma mi fermo in tempo. Sento lo sguardo di tutti i miei colleghi maschi sul mio modesto maglioncino. Mia nonna si veste in modo meno conservatore di me, ma richiamo comunque occhiate lascive come se indossassi solo la lingerie. Il modo in cui questi tizi mi guardano mi fa sentire come se mi stessero immaginando nuda. Forse lo stanno davvero facendo. Sì, ho il seno grosso. Anche il resto del corpo è piuttosto morbido. Questo non significa che abbiano il diritto di trattarmi in modo diverso.
“Se è tutto, andiamo a pranzo. Offro io,” dice il professore. Tutti mormorano frasi di riconoscenza, tranne me. Il dottor Alogore predilige luoghi di ritrovo dove le donne ballano sui tavoli.
Prendo la mia cartellina e sgattaiolo fuori in corridoio.
“Ehi, Miranda.” Uno dei miei alti colleghi si separa dal branco con le Dockers ai piedi e viene ad alitarmi sul collo. Mi volto e inspiro un’alitata che sa di cipolla. Sorride come uno squalo, gli occhi fissi sul mio petto. “Vengo su ad aiutarti a raccogliere quei dati.”
Bleah.
“No, grazie,” mormoro, e mi stringo il cardigan davanti, chiudendolo. Non ho neanche una maglia scollata. Questi tizi sono davvero dei viscidi.
“Andiamo. Posso darti una mano. C’è da avere paura in montagna in questo periodo dell’anno,” dice con falsa preoccupazione. “Ci andiamo insieme e posso aiutarti a raccogliere tutto in tempo record. Poi puoi pagarmi la cena, per ringraziarmi.” Il suo sorriso si fa più grande. “Posso aiutarti con i ritrovamenti, e possiamo dividerci il merito a metà.”
Ed eccolo qua. Uno sfacciato tentativo di fregarmi la ricerca.
“Uh, no grazie,” Chiudo le spalle e stringo la cartellina davanti a me. “Cos’è, pensi di poterti infilare all’ultimo minuto e che metterò il tuo nome sulla relazione?”
Scrolla le spalle. “Avrebbe senso, letteralmente…”
“No. Faccio io.” Abbasso la testa e cammino più veloce che posso. Nessuno mi ingannerà levandomi la mia ricerca. Non questa volta.
Questa relazione potrebbe fare la differenza tra un altro anno di merda come post-dottoranda nel laboratorio del dottor Alogore e un’effettiva posizione professionale da qualche parte. Da qualsiasi parte. Ovviamente una cattedra non mi garantirebbe ancora il rispetto nel mio campo. Ho visto un sacco di donne, nell’ambito della scienza, sminuite quotidianamente, e so benissimo che dovrò combattere per l’uguaglianza dei diritti a ogni passo di questo percorso. Probabilmente fino al momento in cui andrò in pensione.
Mai arrendersi, mai cedere. Questo è il mio motto.
Smonto dall’auto a Pecos e prendo le borse della spesa in tela. All’interno sbatto le palpebre mentre i miei occhi si abituano all’illuminazione fioca, in qualche modo deprimente, del minimarket. Sono già stata in questo posto, quindi so cosa aspettarmi, ma mi fa comunque accapponare la pelle. Lurido pavimento in cemento, cibo in scatola antico, con targhette del prezzo altrettanto antiquate. Come qualsiasi minimarket all’ingresso di una forestale statunitense, ha prezzi esosi. Pane in cassetta a quasi cinque dollari, burro di noccioline a otto.
Ho infilato in valigia gli alimenti a lunga conservazione ad Albuquerque, quindi vado al frigorifero per prendere un cartone del latte, uova, bacon e burro. Dovrebbe bastarmi per i cinque giorni che intendo passare quassù.
Porto tutto al bancone, dove un uomo decrepito sta parlando con uno del posto. Mi ignora per due minuti buoni, prima di trascinare svogliatamente le uova verso la cassa, sempre chiacchierando con l’altra persona.
Mi schiarisco la gola.
Il suo interlocutore, ugualmente anziano, saluta ed esce. Il proprietario si volta e mi guarda con interesse. Sì, i suoi occhi vanno alla mia scollatura. “Cosa ti porta quassù, ragazza? Non è il periodo giusto dell’anno per andare a pesca o a fare escursioni.”
“Sto andando per qualche giorno al laboratorio di ricerca,” dico educatamente. È esattamente la stessa conversazione che abbiamo avuto l’ultima volta che sono venuta qui. Garantito. Sono passati sei mesi. Eppure. Dubito che ci siano un sacco di donne che vengono qui a camminare o a piantare la tenda da campeggio.
“Oh, giusto, giusto. Università del Nuovo Messico, vero?”
“Sì.”
Smette di digitare i numeri sulla cassa e mi guarda socchiudendo gli occhi. “Stai attenta lassù da sola. Hai sentito delle donne scomparse?”
Spingo via la paura che mi scorre dentro. L’unica cosa di cui avere paura è la paura stessa. Giusto?
“Ho sentito, sì. Ma ho il mio cane con me. Ed è molto protettivo.”
Può essere vero o anche no. Ho un pelosissimo incrocio di pastore tedesco e pastore australiano che adora giocare al riporto. Ma quando abbaia sembra feroce.
“Beh, può darsi che dovrai essere tu a proteggere il tuo cane. Sai che abbiamo un problema con gli orsi in questa foresta, vero?”
Giusto, il problema degli orsi. Me l’ha detto l’ultima volta che sono stata quassù. In quanto ecologista, mi scoccia parecchio quando la gente insinua che il problema siano gli animali. Non sarebbe più corretto dire che la vera criticità sono la sovrappopolazione e la riduzione di spazi per gli animali selvatici?
Quando sono stata qui la scorsa estate, lui si è chinato sul bancone socchiudendo gli occhi e dicendomi: “Stai attenta lassù. C’è un orso rabbioso che gira per la zona. Ha fatto a pezzi una donna e suo figlio qualche anno fa.”
“Se qualche anno fa aveva la rabbia, è morto ormai da tempo, non pensa?” Avevo odiato dover usare la scienza e la logica come arma, ma… per favore.
“Beh, magari non ha la rabbia, ma è decisamente feroce,” aveva affermato il vecchio.
Non ero riuscita a celare il disappunto che di sicuro era apparso sul mio volto, “Gli orsi non possono essere feroci. Non sono animali domestici.”
L’uomo aveva lasciato cadere il mio resto sul bancone e mi aveva guardato storto. “Pazzo, allora! C’è un orso pazzo là fuori. Sbalorditivo. Un animale enorme, con gli occhi gialli e un vero desiderio di distruggere le cose. Nello stesso periodo in cui quella donna è stata uccisa insieme al suo bambino, l’orso ha lacerato con gli artigli ogni albero nel giro di tre miglia.”
“Sì, sì, ho sentito del vostro orso,” gli dico ora. “Ma non avete avuto nessun problema con gli orsi di recente, giusto?”
“No, sono passati un po’ di anni. Ma c’era qualcosa che non andava in quell’animale, te lo dico io. Stai attenta al tuo cane, o quell’orso potrebbe farlo fuori solo per divertimento. Segnati le mie parole.”
Giusto. E Bigfoot potrebbe invitarmi a bere il tè. Vorrei ribattere dicendo che gli attacchi da parte di orsi sono molto rari, e che solo perché un animale è un grosso predatore non significa che sia lì appostato per assalire degli umani. La maggior parte degli animali vogliono solo essere lasciati in pace nel loro habitat naturale. E non fatemi iniziare a parlare di come i cartoni animati per bambini dipingano squali, orsi e lupi come i cattivi.
Il tizio indica il numero sul display della cassa. “Ventotto e ventidue.”
Già, come ho detto: esoso.
Gli porgo il denaro e cerco di placare la tensione che ho nello stomaco. “Ok, me lo terrò vicino. Grazie per l’avvertimento.”
Nonostante il fatto che abbia appoggiato sul bancone le mie borse riutilizzabili per il cibo, l’uomo ha infilato tutta la spesa in dei sacchetti di plastica.
Li prendo e li svuoto dentro alle sacche di tela, restituendoglieli. “Questi non mi servono, grazie.”
Mentre vado verso la porta, lo sento esclamare: “Stai attenta, mi hai sentito?”
“Sì. Certo. Grazie!”
Dentro alla mia Subaru, Orso abbaia allegramente per salutarmi.
Apro la portiera e metto i sacchetti con la spesa sul sedile del passeggero, mentre Orso si tuffa in avanti, cercando di baciarmi il viso dal sedile posteriore. “Sei pronto ad andare alla baita, bello?”
Mugola e cerca di leccarmi ancora un po’.
Sposto il viso e gli do una rapida carezza sulla testa. “Mettiti a cuccia,” gli dico.
Prontamente salta lo schienale posteriore e si sistema nel bagagliaio, dove ho messo la sua cesta, accoccolandovisi dentro.
Sorrido guardandolo nello specchietto retrovisore. “Bravo.”
Fiocchi di neve cadono sul parabrezza, e rivolgo una preghiera agli dei del meteo. La app che avevo controllato diceva che ci sarebbe stato un leggero miscuglio di pioggia e nevischio, ma che il cielo domani si rischiarerà. Farà fresco, ma dovrei riuscire a completare la ricerca e tornare a casa entro la fine della settimana.