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CAPITOLO UNO
Caleb
La neve scricchiola sotto ai miei stivali. Scuoto la testa per levarmi dal naso l’odore ferroso del sangue.
Diventerò matto.
No. C’è qualcosa di malvagio in agguato in questi boschi. Mi ha attirato fuori dalla mia baita oggi pomeriggio, portandomi a camminare nella boscaglia.
È come un brivido dietro al collo.
L’odore immaginario del male nelle mie narici. So che non è reale, perché pur cercando a fondo, non trovo nulla.
Nessun corpo maciullato e lasciato a pezzi sulla riva del fiume. Nessun grido da parte della mia compagna e del cucciolo.
Potrebbe essere solo un frutto della mia immaginazione mescolata al ricordo… l’incubo. Causato dal trauma della loro morte ancora inspiegata, avvenuta tre anni fa. Causato dal troppo tempo passato con le sembianze di orso da allora. Sono più bestia che uomo di questi tempi, e so che si vede.
Ho sentito i lupi di Tucson che bisbigliavano parlando di me quando sono stato lì a combattere il mese scorso.
L’orso avrebbe dovuto essere abbattuto dopo che ha perso la sua compagna. Finirà con il fare del male a qualcuno un giorno o l’altro.
È vero.
Lasciare il mio letargo invernale per andare in Arizona a combattere contro quel grizzly è stato stupido. Non avrei mai dovuto permettere a quell’idiota di Trey di convincermi. Dovrei restarmene rintanato nella mia baita per tutto l’inverno. Ma lui sapeva esattamente come stuzzicare l’orso. Ha insinuato qualcosa di oscuro riguardo al grizzly contro cui avrei lottato, e cazzo, mi ha davvero costretto ad andare ad annusare quello stronzo con il mio naso.
Metti mai che fosse l’orso che aveva ucciso la mia famiglia.
Non era lui. Era un comunissimo grizzly mutante. Grezzo, come la maggior parte degli orsi, ma non sbagliato. Non malvagio.
Ma almeno me ne sono tornato a casa con i soldi del combattimento. Ero davvero al verde prima. Avevo dato buona parte dei miei guadagni del lavoro edile estivo a un collega che ne aveva bisogno per un intervento chirurgico al suo ragazzino, e il resto è evaporato in poco tempo. Ecco il lato negativo di avere gli inverni liberi.
Quindi mi sono alzato. Ho guidato fino al deserto. Ho fatto abbastanza soldi per poter godere di more e salmone per otto mesi.
Ma ora non riesco a rimettermi tranquillo. Ora sono qua fuori con il cazzo che dondola al vento, mentre cammino senza sosta nella foresta.
È scomparsa un’altra donna.
È parte del motivo per cui non riesco a riposare.
C’è un serial killer o rapitore a briglia sciolta qui.
Arrivo alla strada principale prima del previsto. Ho percorso tre miglia nel mio territorio senza neanche accorgermene. Una Subaru blu segue la curva. Non la conosco, il che è strano. Conosco quasi tutte le auto che vanno e vengono lungo questa strada, almeno durante l’inverno. Fisso il SUV quando mi passa accanto, e quando vedo chi c’è alla guida impreco sottovoce.
Una donna sola. Una rossa dalle curve morbide, con un’espressione non-fatemi-incazzare in faccia. Sola, con delle valigie in auto.
Merda.
I brividi dietro al collo si fanno più intensi.
So dove sta andando. È diretta alla stazione di ricerca dell’Università del Nuovo Messico. È una piccola baita a dieci miglia da qui, sulla strada forestale statunitense.
Non me ne fregherebbe un cazzo, se negli ultimi otto mesi da questa foresta non fossero scomparse tre donne sole.
Tre.
E considero questa fottuta foresta mia. Sono il primo predatore. Nessun’altra creatura – bestia o umano – dovrebbe venire qui a uccidere degli umani.
Soprattutto femmine.
Non sono un affascinante cavaliere, e di certo nessuno mi ha mai considerato un gentiluomo, ma proteggere le femmine è una cosa fortemente radicata dentro di me.
Percorro il crinale, osservando l’auto. Accosta e parcheggia all’unico piccolo supermercato della nostra minuscola cittadina.
Dannazione.
A quanto pare passerò la prossima settimana a giocare alla guardia del corpo della determinata ricercatrice. Quella troppo stupida da sapere che non è il caso di venire qui in marzo. Da sola.
Soprattutto quando c’è un serial killer allo sbaraglio.