1
La cura
Emily
Poteva sentire il cuore battere talmente forte da farle temere un arresto cardiaco. Era normale avere paura, o almeno era quello che continuava a ripetersi: era l’unica piccola umana in mezzo a un’infinità di esseri alieni grandi e grossi.
Respirò profondamente e cercò di mantenere il volto neutro; l’ultima cosa che voleva era mostrare il terrore che le stava attanagliando le viscere.
Quando aveva accettato la missione e chiesto l’aiuto di Sofia, non aveva minimamente pensato che sarebbe arrivata a quel punto. Adesso era in ballo e doveva fare affidamento su se stessa. Non poteva permettersi di far perdere la vita ai suoi compagni.
La conversazione che aveva avuto con Connor sulla nave l’aveva accompagnata per un po’: era l’unico con il quale si era esposta, anche se non del tutto. Non aveva temuto che la giudicasse.
Cercò di concentrarsi, i corridoi lunghi, bianchi e perfettamente illuminati sembravano infiniti. Le lunghe vetrate di enormi camere con dentro diversi letti occupati la fecero fermare.
Stavano morendo.
Quel posto era stato trasformato in un luogo dove attendere la morte.
Era scioccante vedere quanti di loro erano emaciati, il colore blu della pelle così spento e tendente al grigio. Si avvicinò sconvolta a un vetro, osservando e assimilando quanti più dettagli possibili.
«Oh mio Dio,» sussurrò piano, le mani davanti alla bocca a bloccare i singhiozzi che stavano cercando di uscire.
Non si era resa conto di quanto potente sarebbe stato vedere quelle distese di letti infiniti mentre tutti attendevano la loro fine, senza combattere.
«Emily, vieni. Dobbiamo andare avanti.» La voce di Keres catturò solo in parte la sua attenzione. Vedere lui, così in forma e pieno di vita in confronto agli altri, fu come un pugno nello stomaco.
Proseguirono in silenzio, osservando le centinaia, migliaia di corpi morenti coperti solo da un telo bianco dalla vita in giù; le braccia erano assottigliate, le forze inesistenti. «Concentrati, possiamo salvarli.»
Giusto. Vero. Erano lì per quello. Loro potevano fare la differenza e strapparli da quel letto di morte.
«Tu però non eri arrivato a quel punto. Non so se potremo salvarli tutti,» ammise piano, lasciando che le parole la corrodessero ancora di più di ciò che i suoi occhi le stavano mostrando.
«Dobbiamo provare.»
Dentro di sé pregò affinché potesse farcela, perché non voleva altre vite sulla coscienza. Era stanca.
Arrivarono finalmente ai laboratori. Le porte di vetro si aprirono e li fecero entrare, le guardie attesero fuori mentre l’equipe medica faceva spogliare Keres e prelevava i primi campioni per i test. Lasciò che i suoi occhi vagassero ancora attorno: i macchinari erano decisamente avanzati, sicuramente anche loro erano arrivati al punto di creare la nanotecnologia, o almeno così credeva.
Si sentì sopraffare ancora dall’angoscia. Corrugò le sopracciglia quando si accorse di quattro letti in quella stanza, ognuno con un occupante; a differenza di quelli visti fino a ora, non erano cloni come Keres. Questi erano diversi. Si avvicinò cauta, sapeva che la stavano tenendo d’occhio, ma non se ne preoccupò. L’essere incosciente sul letto aveva lunghi capelli neri, e la sua massa muscolare, un tempo tonica, era deperita.
Deglutì e con titubanza allungò una mano afferrandone il braccio: la massa sotto le sue dita era decisamente poca e il respiro affannoso. Le labbra sottili leggermente aperte lasciavano intravedere denti bianchissimi. Le guance scavate non riuscivano comunque a deturparne il viso affilato, gli zigomi alti. Anche lui aveva gli occhi azzurri?
No, decisamente no, erano verdi e la stavano fissando stanchi e corrucciati.
«Emily.» La mano di Keres si posò sulla sua spalla tirandola indietro contro il suo corpo massiccio. «I test sono tutti positivi. Dobbiamo tornare dagli altri.»
Lasciò con gentilezza il braccio dello sconosciuto che adesso li stava fissando con palese fastidio.
Quegli occhi verdi si focalizzarono sulla sua figura osservandola quasi con stupore. Aveva forse realizzato che era un essere umano? Non lo sapeva e forse non lo avrebbe mai saputo.
Annuì. «Sì, va bene.» Si voltò concentrandosi su Keres. «Voglio cominciare subito. Fai scaricare tutto qui dentro, io comincerò a parlare con lo staff medico e vedrò come possiamo procedere. Abbiamo bisogno di recuperare più tempo possibile.» La sua mente stava cominciando a lavorare a pieno regime. Non voleva perdere nessuno e per farlo doveva iniziare immediatamente.
«Ho promesso che non ti avrei lasciato.»
Sorrise gentile e sfiorò con nonchalance le polsiere che avevano progettato e che le avrebbero permesso una minima difesa. «Starò bene. Vai, non perdiamo tempo.» Sicurezza, doveva emanare sicurezza, era una cosa che era abituata a fare.
Nonostante Keres fosse contrario, riuscì a convincerlo. Lo vide parlare con uno dei medici e poi venne affiancata da due di loro. Bene, ora toccava a lei. La sua maschera di professionalità e serietà si mise al suo posto.
«Devo sapere come avete catalogato i codici genetici di tutti, in che ordine e chi sono i pazienti più avanzati nel deterioramento. Avete un database, suppongo.»
La voce gentile e bassa del medico accanto a lei cominciò a rispondere alle sue domande. Si sentiva un po’ in soggezione, erano alti il doppio di lei, ma non importava: aveva un lavoro da fare e lo avrebbe svolto con il massimo della precisione.
«Abbiamo catalogato ogni nascita e ogni clonazione avvenuta. Il database è continuamente aggiornato. I corpi militari, essendo cloni, presentano lo stesso tipo di deterioramento, il codice base è stato usato e manipolato talmente tanto… da averlo praticamente distrutto.»
Strinse le labbra preoccupata. «Keres ha già avuto il siero ed è guarito, potremmo usare il codice realizzato per lui da somministrare agli altri cloni, in questo modo potremmo agire immediatamente.»
Il medico annuì. «Sì, può essere un buon modo. Per quanto riguarda gli altri, invece, il codice risulta danneggiato in maniera inaspettatamente diversa.»
«Se le nostre basi fossero uguali, il codice umano dovrebbe ripristinare la sequenza. Ma non ci sono garanzie, per Keres abbiamo fatto più adattamenti.» Ricordava di aver letto il rapporto di Sofia e dei diversi tentativi di realizzare un siero funzionante in poco tempo. Sperava di non dover vivere quell’incubo.
Un improvviso rumore li fece distrarre, e vide diverse guardie portare le casse dei sieri creati sulla nave, appoggiandoli con cura dove veniva richiesto. Pochi minuti dopo cominciarono a scaricare le prime capsule criogeniche.
Emily si trovò a deglutire preoccupata. «Dove possiamo cominciare il processo di ripresa? Serve un posto per far risvegliare in sicurezza tutti.»
Gli occhi azzurri del medico si abbassarono verso la sua figura fissandola seriamente. «Possiamo usare il piano superiore, sarà facilmente accessibile anche da qui.»
Annuì riflettendo sulle diverse possibilità che si stavano prospettando. «Va bene.»
Con ordini secchi e decisi le guardie cominciarono il trasferimento al piano superiore. Per Emily fu quasi un sollievo vedere comparire Sofia.
«Un volto familiare,» disse sorridendo debolmente.
«Gli altri stanno scaricando i criotubi. Aggiornami, come devo muovermi?»
«Mi serve il tuo DNA. Voglio cominciare la sequenza per lui.» Indicò il paziente dagli occhi verdi che le stava fissando, cercando di rimanere sveglio.
Un sopracciglio di Sofia si arcuò, ma non disse niente e con sicurezza si avvicinò alle casse posate poco prima dalle guardie cercandone una in particolare. «Eccola.» La portò a Emily e sotto il suo sguardo l’aprì. I campioni suoi e dell’altra donna erano lì conservati, pronti per essere usati.
«Perfetto. Per i cloni credo che sia fattibile utilizzare la stessa composizione usata per Keres, in questo modo risparmieremo tempo. Dobbiamo però continuare la produzione di nanorobot.»
«Non c’è problema, non abbiamo mai smesso. Sulla nave i macchinari stanno continuando a lavorare.»
Si avvicinarono al vetro specchio che fungeva sia da vetrata che da video e un altro problema si presentò davanti a loro. «A questo non avevo pensato. Ci rallenterà un po’,» mormorò Emily, chiamando con un gesto uno dei medici a lei assegnati. «Non posso leggere, dovrai tradurre per me.»
«I limiti delle conoscenze…» sussurrò Sofia. «Il prossimo passo sarà imparare la lingua scritta o creare un linguaggio universale.» Afferrò la fiala contente il suo DNA e cominciò il caricamento con i nanorobot. «Siamo quasi pronti. Qual è la sua sequenza alterata?»
Il medico mostrò loro la catena nella sua interezza parziale. «Abbiamo trovato diverse interruzioni, non riusciamo a capire quale sia la causa.»
Non aveva torto: rispetto a Keres, quel DNA era danneggiato in maniera decisamente diversa. Gli occhi di Emily scorrevano lungo tutta la sua sequenza. Era assurdo che succedesse una cosa simile: i cloni avevano la scusa di essere stati manipolati e che il ceppo principale si fosse danneggiato, ma gli altri? «Nella sua famiglia nessuno deriva da qualche clone?»
Il medico scosse la testa. «No, è impossibile, sappiamo i rischi a cui andremmo incontro, i cloni vengono creati senza la possibilità di riprodursi, sono sterili.»
Aggrottò le sopracciglia. Se non aveva nulla in comune con i cloni, allora ci doveva essere qualcosa che stava agendo contro di loro. Che fosse… Si voltò verso Sofia. «Quanti casi ci sono che un’intera razza presenti questi problemi nel codice genetico in maniera naturale?»
Sofia prese un respiro profondo e sollevò le spalle. «Quasi nulle, è più facile che ci sia qualcosa che lo causi, un’interferenza.»
«Esattamente. Il problema è capire cosa. Potrebbe essere nella terra, nell’aria, nell’acqua o il pianeta stesso… ci sono troppe variabili. Avete dei campioni di ogni paziente?»
«Certamente.»
«Bene, iniettiamo il siero e intanto lavoriamo sui campioni, dobbiamo capire cosa sta causando questo deterioramento.»
«Abbiamo una squadra che ci sta lavorando, potete accedere ai dati trovati.»
«Questo ci farà recuperare tempo.»
Sofia le consegnò la pistola per le iniezioni pronta. «Tutta tua.»
L’afferrò respirando profondamente, sentiva il cuore in gola. Le sue mani la tenevano stretta contro il petto: era il momento di cominciare. Con passo non proprio sicuro si avvicinò al paziente dagli occhi verdi che sembrava stesse dormendo. Sofia era pochi passi dietro di lei con le sacche da collegare per via endovenosa.
I due medici si posizionarono accanto al paziente. Fu Sofia a prendere la parola. «Mi serve una flebo con i nutrimenti base, non deve deperire più di quanto non lo sia già e una dove attaccare queste.» Mostrò loro le due sacche con un liquido trasparente dentro. I nanorobot sigillati e caricati con il codice genetico scelto avrebbero fatto il loro lavoro riportandolo alla vita, o almeno Emily si augurava che funzionasse come con Keres.
Le mani abili dei medici cominciarono a lavorare sul paziente, i suoi occhi verdi si aprirono e si fermarono confusi su tutti loro.
«Come si chiama?» sussurrò Emily piano, insicura.
«Naglfar,» rispose il medico accanto a lei.
La donna si avvicinò piano, quasi timorosa all’essere, e appoggiò una mano contro il suo collo facendo una lieve pressione mentre dall’altro lato vi puntava la pistola per le iniezioni. Sollevò gli occhi e osservò il lavoro finito degli altri. Sofia attendeva solo il suo cenno per cominciare la somministrazione dalle sacche. Respirò a pieni polmoni e poi si focalizzò su di lui.
«Farà male, resisti,» sussurrò gentilmente avvicinandosi. Furono parole solo mormorate, forse per darsi coraggio, e in quel momento premette il grilletto.
Naglfar si tese e spalancò la bocca per urlare.
«Ora!» Sofia lasciò scorrere il contenuto delle sacche nei sottili tubicini che entravano in quel corpo deperito. «Sedatelo e tenetelo monitorato.»
La sua pelle dall’aspetto malaticcio venne bucata nuovamente, e fu un sollievo per Emily vedere il volto di quella creatura rilassarsi e gli occhi chiudersi in un sonno profondo.
Le sembrò di tornare a respirare. Adesso dovevano solo occuparsi di tutti gli altri. «Questa è la procedura, cominciamo ad applicarla ai cloni. Per tutti gli altri invece ci servirà conoscere l’esatta rottura del codice. Al lavoro.»
Fu come partecipare a una gara di corsa: in pochi minuti i medici dei vari reparti vennero istruiti e lei e Sofia continuarono a preparare sacche di sieri per i cloni ricoverati in tutta la struttura.
«Chi si sta occupando dei nostri nei criotubi?» chiese, passando un’altra sacca completa a Emily.
«Khal e Helios. Deimos è sulla nave a continuare la produzione,» rispose l’altra donna, sigillando e consegnando agli infermieri le sacche finite.
Un altro team si stava occupando di mettere a disposizione i dati sui vari pazienti con diversi tipi di deterioramento.
Le casse che avevano portato cominciavano a svuotarsi. Ogni tanto vedeva passare Connor e Keres a ritirare le casse vuote per portarle poi nuovamente piene. Non aveva la minima idea da quante ore stessero facendo quel lavoro, ma cominciava a sentire i suoi muscoli reclamare per un attimo di riposo. Notò che anche Sofia cominciava a presentare segni di stanchezza; stavano lavorando a pieno regime, sperava solo che tutto andasse bene.
«Come sta procedendo?» La voce di Connor la prese di sorpresa.
«Bene, un po’ stanche, ma bene. Sembra procedere tutto liscio. La produzione sulla nave?» Approfittò della sua presenza per fermarsi un momento.
«Sta continuando, Deimos non permette a nessuno di avvicinarsi. Credo che stia facendo forza su se stesso per non correre da Helios.» Connor sorrise scuotendo il capo. «Keres sta tenendo d’occhio i cloni del piano superiore. Per adesso, nulla da segnalare.» Sospirò osservandosi attorno.
«Ho perso seriamente la nozione del tempo,» disse Emily cercando di sopprimere uno sbadiglio.
«In effetti sono qui per dirvi che è ora di riposare, siete al lavoro da quasi sedici ore. Non avete nemmeno toccato cibo.»
Sofia si affiancò a loro. «Io farei una pausa. Dobbiamo essere lucide per capire che succede a tutti loro e non possiamo lavorare bene se non riposiamo.»
Erano parole giuste, ma ogni momento che loro si fermavano sentiva la colpa strisciare dentro di sé. Potevano perdere delle vite e non voleva che ciò accadesse.
«Non puoi salvarli tutti, Emily. Stiamo facendo del nostro meglio, ma non potremo salvare tutto il pianeta.» La mano di Connor fu sulla sua spalla.
«Lo so, ma il solo pensiero…» Si allontanò e camminò piano verso Naglfar. I suoi valori erano stabili e la pelle cominciava ad avere un aspetto più sano. Passò una mano sul suo braccio, il tessuto muscolare sembrava più pieno. Stava funzionando. Quel pensiero la rinfrancò. «Forza, so che ti sveglierai presto.» Gli strinse forte la mano e lasciò che i suoi occhi vagassero su tutto il corpo. Sicuramente non era un guerriero, non aveva la possanza di Keres, ma era atletico. I lunghi capelli arrivavano fino alle spalle neri come la notte.
Scosse la testa e cercò di concentrarsi su altro. Sapeva che Connor aveva ragione, era arrivato il momento di fermarsi, anche solo per poche ore, e di riposare. Doveva essere in grado di capire cosa stesse accadendo su quel pianeta perché, in nessun modo, un intero popolo poteva arrivare a questo punto in maniera naturale.
Con i pensieri in continuo mutamento su diverse idee, lei e Sofia uscirono dalla stanza e, raggiunsero la nave scortate da Connor. Notò alcune persone nuove aggirarsi nella sala mensa. I rinvenuti delle capsule criogeniche si stavano adattando ai nuovi cambiamenti, alcuni membri base del loro equipaggio li stavano ragguagliando su tutto ciò che era successo. Non doveva essere facile per loro capire che qualcosa era andato storto durante il viaggio.
Si gustò il cibo che le venne messo sotto il naso con gioia. Non si era davvero resa conto di essere così affamata e, ora che lo stomaco si stava riempiendo, poteva sentire la stanchezza galoppare dentro di lei.
«Non ho più idea di quante persone sono sotto cura in questo momento.» Sofia sospirò afferrando un panino morbido.
«Sono duemilasettecentodieci.» La voce di Keres arrivò stanca, mentre si sedeva vicino a loro e afferrava un frutto mordendolo con gusto. «Sembra che tutti stiano rispondendo bene alla cura.»
«Bene, però, a parte uno, sono tutti cloni. Domani dobbiamo cominciare la somministrazione anche agli altri. Il personale medico può andare avanti con i cloni, mentre io ed Emily provvederemo a programmare i nanorobot con i codici per le diverse interruzioni nel codice.» Si passò una mano sulla fronte, sentiva la testa pesante. «Quanti dei nostri sono stati risvegliati dal criosonno?»
«Secondo i rapporti di Khal, dovrebbero essere ventidue. Domani provvederemo a risvegliarne altrettanti.» rispose Connor, in piedi con le mani appoggiate sulle spalle di Keres. Un gesto affettuoso che Emily trovò semplicemente bello.
«Bene. Prima di procedere, dobbiamo avvisare tutti che dovranno cominciare con il prelievo del DNA. Sarà un lavoro lungo,» concluse Sofia, alzandosi. «Io mi ritiro, ci vediamo fra otto ore. Buon riposo a tutti.»
«Seguo il suo esempio,» aggiunse Emily, imitandola.
Una volta nella sua stanza, si fece forza e andò verso il bagno, gettando la tuta nella cesta degli indumenti da lavare. Sotto il getto dell’acqua calda della doccia, sentì i muscoli rilassarsi. Avevano fatto un buon lavoro per ora, ma, se doveva essere sincera, aveva avuto quasi sempre il pensiero fisso su Naglfar: il suo codice era rotto in maniera diversa, non capiva come fosse possibile. Sperava di poterlo vedere sveglio e di fargli qualche domanda che magari l’avrebbe aiutata a capire cosa stesse succedendo.
Chiuse l’acqua e si avvolse in un telo di spugna, le vecchie usanze della Terra erano ancora ancorate in lei in qualche modo. Si lasciò cadere sul letto e osservò il soffitto: era stanca, non solo fisicamente ma mentalmente, e ancora più in profondità. Non riusciva più a capire cosa non andasse in lei, sapeva di aver fatto del male sulla Terra, vecchie ferite che non avrebbe mai più voluto riaprire, ma che in quel momento di debolezza le si riversarono nella mente invadendo i ricordi: gli esperimenti compiuti, le urla di dolore, la necessità di continuare le sperimentazioni top secret per conto della Suzokawa… A tante persone aveva tolto la libertà di scegliere e in molti casi anche la vita. Si sentiva sporca, in colpa, e sapeva che ormai la sensazione di sudiciume dentro di lei non se ne sarebbe mai andata.
Ci stava provando davvero a essere migliore, voleva che tutti i suoi compagni di viaggio fossero al sicuro: loro non meritavano altre brutture nella vita, lei sì invece. Lei non aveva più nulla per cui valesse la pena sopravvivere.