Con un sorriso tirato su quel viso adorabile, Sage annuì soltanto prima di andare via. Io pregai ancora, quella volta per Sage, perché il frate fosse abbastanza soddisfatto dal ricavato delle nostre vendite da non pensare ad altro che quello. Il lavoro che facevamo, cucire e occuparci delle erbe, e i soldi che ricavavamo dalle vendite del nostro lavoro era ciò che ci permetteva di restare, eppure il frate in qualche modo trovava sempre un motivo per lamentarsi di quanto gli costassimo. Soltanto Sage era in grado di calmarlo, perché lui aveva sempre preferito quelle più piccole e fragili, e soprattutto quelle bionde. Temevo il giorno in cui si sarebbe stancato di Sage e avrebbe spostato lo sguardo su quelle più piccole.
Che Dio le aiuti, pensai, solo per sbuffare subito dopo. Era una battuta; avevo vissuto in quel convento abbastanza da sapere che se Dio aiutava qualcuno, quel qualcuno non erano gli orfani. Soprattutto se erano donne.
Un Sole rossastro andò calando su in Cielo mentre mi affrettavo verso il giardino, accompagnata dal canto soave delle suore. Qualche anno fa mi sarei fermata ad ascoltare, a chiudere gli occhi ed immaginare che fosse mia madre a cantare quelle note per me. Un bel sogno, che non era nient’altro che quello; perché la mia vera madre mi aveva abbandonata un secondo dopo avermi dato alla luce.
Scivolai dietro i cespugli, avvicinandomi alla botola chiusa dove venivo sempre a passare le mie notti peggiori. Dentro la botola, dietro alcuni barili che usavamo per dipingere i tessuti, io e Sage avevamo attaccato una catena compresa di manette attorno ad una grossa roccia. In pochi minuti mi sarei legata da sola a quelle manette, e avrei passato così il tempo necessario alla febbre per andare via.
Il posto si trovava in mezzo alla foresta, vicino al ruscello gorgogliante, e i rumori della foresta erano abbastanza forti da coprire i gemiti e gli urli che scappavano dalle mie labbra quando la febbre raggiungeva il suo picco. Nessuno sarebbe venuto in questa parte del giardino a notte fonda, comunque, ma—solo per evenienza—Sage si occupava sempre di tenere tutti alla larga.
Poggiai il cibo vicino a me, troppo nervosa per poter mangiare. Avrei dovuto mettermi in ginocchio e pregare; invece, presi a camminare. In poche ore avrei dovuto legarmi in modo tale da non permettere alle mie mani di scivolare tra le mie gambe, anche se il dolore, il bisogno sarebbe stato insopportabile, la mia mente tormentata da sogni, dal desiderio di mani forti sopra di me, intente ad accarezzare la mia pelle. la mattina dopo, Sage sarebbe venuta a liberarmi dai miei sogni malsani e febbricitanti.
Il mio corpo già tremava, eccitato dalla chiacchierata avuta con quei due guerrieri prima. Il solo pensiero fece scoppiare il calore dentro di me, un fuoco pulsante che lasciò una scia bagnata in mezzo alle mie gambe. La prima scintilla sarebbe presto diventata una brace, e avrebbe acceso dentro di me un fuoco che piano piano si sarebbe trasformato in Inferno.
Un giorno avrei trovato il coraggio di avvicinarmi ad un uomo e parlargli, flirtare come Leif aveva fatto con me. Saremmo andati dentro la foresta e ci saremmo spinti l’uno contro l’altra, le sue grandi mani pronte e possessive sulla mia pelle. E dopo ci saremmo distesi sull’erba fredda, stretti insieme come petali di rosa.
Con un sospiro presi le catene. Il ferro freddo mi punse le dita.
Il rumore improvviso di metallo contro metallo, però, mi fece fermare di colpo. Non proveniva da ciò che avevo in mano, ma da fuori. Qualcuno aveva trovato il mio nascondiglio.
Trattenni il respiro, aspettando, ma nessuno entrò dentro la botola. Il frate era diventato molto più attento e sospettoso da quando Hazel, una delle nostre sorelle, era scomparsa. Era appena entrata in calore, e aveva avuto il coraggio di sfidarlo. Noi avevamo dato per scontato che fosse andata via perché venduta ad un uomo, ma nessuno ne era certo. E il frate aveva preso Sage a colpi di bastone quando lei aveva raccolto il coraggio per chiederglielo.
Luce scura s’infiltrò tra le crepe della porta di legno. Il tramonto si stava avvicinando. Se fossi stata scoperta adesso, avrei potuto dire che ero venuta soltanto per dipingere i tessuti. Poggiai di nuovo per terra le manette, e avvicinandomi aprii la porta, uscendo nell’aria fredda e scura della sera… e lì, mi pietrificai.
File e file di guerrieri si avvicinavano al convento, camminando sull’asfalto senza emettere un singolo suono. Erano pieni di armi, asce e spade e coltelli attaccati alle cinture che portavano in vita. La poca luce ancora presente, però, mi mostrò le loro mani, ed erano libere.
Mi preparai ad urlare, ma la voce non lasciò mai le mie labbra. Un palmo ruvido si chiuse sopra la mia bocca, e l’unica cosa che uscì fuori dalla mia bocca fu un rumore ovattato.
«Ciao di nuovo, Willow», mi sussurrò una voce profonda all’orecchio.
Incredula, sentii il mio corpo irrigidirsi. La voce, e quelle braccia forti chiuse intorno al mio corpo appartenevano al guerriero dai capelli rossi. Il suo amico dai capelli neri, invece, era al suo fianco, e aveva la fronte aggrottata.
«Portala via di qui», gli disse quest’ultimo, facendo un cenno con la testa.
Il mio urlo di protesta morì sulla mano di Leif, ed io lottai e scalciai con tuta la mia forza, ma senza nessun risultato. Il guerriero mi prese tra le braccia, stringendomi forte, e mi portò più in fondo dentro la foresta.
«Calmati, piccolina.» Ciocche rosse mi solleticarono le guance quando Leif si piegò a sussurrarmi nell’orecchio. «Sei al sicuro, adesso. Il pericolo si sta avvicinando inesorabile al convento, ma ci penseremo noi a salvare le tue amiche.»
Pericolo?
Perché mai un battaglione di guerrieri armati fino al collo vorrebbe attaccare un convento pieno di ragazze innocenti? Forse il frate aveva fatto un torto a qualcuno di potente, istigando la loro furia?
Nonostante i miei sforzi, il guerriero continuò a trasportarmi dentro la foresta fino a quando gli alberi non cominciarono a nascondere la vista del convento ai miei occhi, la sua torre a scintillare sotto l’ultima luce del giorno. Mi lasciai andare tra le sue braccia, sperando di fargli abbassare la guardia. Forse non era ancora troppo tardi per scappare e avvertire Sage. L’avrei trovata al dormitorio, a quell’ora, intenta a leggere alle più piccole, oppure intenta a preparare un boccale di birra per il frate con la speranza di farlo ubriacare abbastanza da non riuscire ad approfittarsi di lei. Sapevo che, intorno a mezzanotte, sarebbe strisciata fuori dal convento per venirmi a controllare. E non mi avrebbe trovata.
Ma per allora, sicuramente anche lei sarebbe stata presa.
Con la gola secca, mi ritrovai a singhiozzare silenziosamente contro il palmo di Leif.
«Sh, piccolina, va tutto bene.» Mi mise giù, tenendomi comunque stretta contro il suo petto ampio. «Sei in pericolo, tu e le altre profetesse. Siamo venuti a salvarvi.»
Lasciai che i miei occhi si chiudessero, e che le gambe si facessero più molli. Prima di poter cadere, Leif mi prese tra le braccia, ma quando provò a mettermi in una posizione migliore io mi liberai dalla sua presa.
Non riuscii a fare che due passi prima che lui mi prendesse di nuovo. Persi la testa, e cominciai a lottare contro di lui per liberarmi. Non per me; avrebbero potuto portarmi dovunque volessero, ma se fossi riuscita ad avvicinarmi al convento abbastanza da poter anche solo urlare, far sapere alle mie sorelle che dovevano scappare…
«Oh, no, non lo farai» grugnì Leif, alzandomi di nuovo. La sua mano si chiuse sulla mia gola. Strinse, come per avvertirmi, e anche se la stretta non mi tolse l’aria del tutto, fu abbastanza per farmi zittire. Brokk si avvicinò in quel momento.
«Mettila giù, presto. Bendala. Non possiamo rischiare che avverta qualche guardia vicina.»
«Stai calma.» Leif mi scosse. «Non sei in pericolo, Willow. Devi solo obbedire.» Mi spinse per terra, lo stomaco sull’erba, e strinse i miei polsi insieme prima di legarli dietro la schiena. Quando provai ad urlare, Brokk mise qualcosa dentro la mia bocca.
«Non sta andando come avevo pensato…», mormorò Leif.
Io gemetti, piangendo per tutto il tempo. Poi Leif si sedette con me tra le sue braccia.
«Ecco qui. Sana e salva.»
Io lo fissai, cercando di scacciare via il sapore amaro della pelle che avevo in bocca. Lasciai andare un ringhio gutturale—una farsa. Perché il resto del mio corpo tremava di paura.
«Vuoi combattere contro di me, Willow?» mi prese in giro il guerriero, spostando una ciocca di capelli dal mio viso con sorprendente delicatezza. Io mi spostai dal suo tocco.
«Basta», ordinò Brokk, avvicinandosi. Il suo ordine mi fece irrigidire. «Non ti permetteremo di farti del male da sola.» La freddezza nel suo tono e nel suo sguardo mi fecero venire subito voglia di obbedire.
«Non siamo venuti qui per farti del male, Willow», mi disse nuovamente Leif.
Io li guardai, incredula. Ero seduta, legata e imbavagliata, e tremante. Una giovane donna catturata nella foresta da due guerrieri, con gli arti indolenziti e la pelle ricoperta di brividi. E il vestitino estivo che avevo addosso non faceva assolutamente nulla per coprire il mio corpo dall’aria fresca della notte.
«Vorrai sapere perché ci troviamo qui», disse Leif, interpretando il mio sguardo. «Non aver paura, Willow. Verrai delucidata a tempo debito.»
Un urlo si alzò in aria. Proveniva dal convento.
«Diamine. Diamine!» Leif si alzò, portando il mio corpo con sé.
«Vai al punto di ritrovo, Leif. Io vi raggiungerò dopo», gli disse Brokk, e poi corse verso il resto dei guerrieri.
Spinsi i tacchi sul terreno per fermarlo, ma Leif mi prese immediatamente di peso, spingendomi oltre la sua spalla. Con la sua mano grande posò uno schiaffo sulla mia natica, ed io provai a liberarmi di nuovo.
«Stai ferma, adesso», mi disse. Io mi feci di gelatina un’altra volta, quella volta sul serio. Lottando anche solo per trovare la forza di alzare la testa, non potei fare altro che osservare Brokk e i suoi compagni guerrieri avanzare per attaccare casa mia.
Leif non sembrava fare nessuna fatica, portandomi sulle spalle in silenzio dentro la foresta. Il suo passo si fece più veloce quando ci avvicinammo ad un campo aperto. Eravamo ben più lontani di quanto io fossi mai andata in vita mia. Sage ed io avevamo parlato spesso della possibilità di fuggire via, ma non eravamo mai andate oltre la botola che avevamo designato come nostro rifugio.
L’ultima luce della sera scintillò tra gli alberi quando il guerriero mi mise sui miei piedi un’altra volta. Io lo guardai dalle ciocche di capelli che mi ricoprivano il viso.
«Acqua?» mi chiese, offrendomi la borraccia legata alla sua cintura.
Io scossi la testa.
«Vorrà dire che ne avrò di più per me.» Svuotò completamente la borraccia, la sua bellissima gola intenta ad ingoiare con un movimento fin troppo seducente.
Quando si spostò per toccarmi, io schizzai indietro con così tanta forza che le foglie sotto i miei piedi mi volarono tutt’intorno.
«Sh, sh», provò a calmarmi. «Fammi togliere il bavaglio.» Alzò le mani davanti a sé, come stesse cercando di domare una bestia selvaggia. «Ho la tua parola che, se la tolgo, non proverai ad urlare?»
Lo fissai. Le sue parole si strinsero dentro di me, ed io provai a capirne il senso dentro il mio cervello fin troppo stanco. Ero prigioniera, legata a due uomini a molte leghe di distanza da casa mia, ed ero alla totale mercé di quell’uomo.
Leif si inginocchiò di fronte a me.
«Non urlerai», mi disse. «Perché se lo fai, ci saranno delle conseguenze. E a me potrebbero anche piacere, quelle conseguenze, ma posso assicurarti che a te piaceranno meno. E poi»—il suo tono estremamente gentile—«Anche se dovessi urlare, non c’è nessuno in giro che possa sentirti. E non c’è nessuno che proverà a portarti via da me.» Per un attimo, il suo sguardo sembrò farsi più scuro. Avrei tanto voluto chiudermi a riccio.
Invece, gli permisi di togliermi il bavaglio senza dire nulla, e quando fui finalmente libera gli sputai in faccia. Lui scattò indietro, sbattendo le palpebre, sorpreso.
«Codardo», sibilai. «Ti diverte, rapire ragazze innocenti?»
Si asciugò la guancia. «Oh, sì», mi disse, con quel suo sorrisetto arrogante. Non sembrava arrabbiato per quello che avevo fatto, piuttosto divertito dalla mia rabbia.
«Lasciami andare», gli ordinai, cercando di liberarmi dalla corda. Dovevo pur fare qualcosa. Quel guerriero incombeva su di me, tre volte più grande, e tutto muscoli. Mi aveva promesso di non farmi del male, ma sarei stata una stupida a fidarmi di lui.
Giusto?
«Ti libererò», mi disse, «quando sarò sicuro che non scapperai da me.»
Girai la testa dall’altro lato per un momento. Non avevo paura; non di lui, almeno. Le mie guance erano arrossate, il mio corpo più caldo a causa della sua vicinanza. Sotto il materiale leggero del mio vestito, i miei seni erano pesanti e pulsanti, e l’unica cosa che volevo in quel momento era poterli mettere a nudo contro l’aria fresca della notte.
Quando incrociai di nuovo lo sguardo del guerriero, la scarica elettrica che mi pervase il corpo fu così forte che per un attimo temetti di essere sbattuta indietro. Chiusi gli occhi, ma troppo tardi per riuscire a nascondere il desiderio che danzava dentro di essi.
Quella volta, quando le sue dita si avvicinarono per scostarmi i capelli via dal viso, io non mi allontanai dal suo tocco.
«Che cosa vuoi da me?», gli chiesi, e anche la mia voce era bassa e roca.
I suoi occhi dorati sembrarono prendermi tutta in un solo boccone.
Fece scivolare il pollice sul mio labbro inferiore. «Tutto», mi sussurrò. «Voglio tutto ciò che hai da darmi, e anche di più.»