1. Willow-1

2029 Words
Willow Il convento si trovava sul fianco di una strada curvilinea. Seguii il sentiero, affrettando il passo per assicurarmi di arrivare alle grandi porte in legno di quercia prima che suonasse la campana che segnava l’inizio delle preghiere serali. Ogni volta che venivo mandata al villaggio per sbrigare qualche commissione, il frate non si faceva mai mancare la solita raccomandazione di non fare mai tardi, di non restare fuori dopo il tramonto. Quella sera, però, non fu soltanto il tramonto imminente a portare i miei piedi a camminare più veloci, ma anche la Luna, ormai quasi piena e alta nel Cielo. Prima che arrivasse completamente in alto, era di vitale importanza che io fossi ben nascosta, per evitare di mostrare a tutti l’effetto che essa gettava sempre su di me ogni volta che arrivava. Persa nei miei pensieri, trasalii quando un’ombra ostacolò d’improvviso il mio cammino. «Buonasera», mormorò una voce profonda proprio dietro di me. Mi lasciai sfuggire un piccolo urlo, e il cesto che tenevo tra le mani cadde per terra. Due grandi uomini erano fermi ai bordi del sentiero. Guerrieri, riuscii a capire, nonostante su di essi non portassero nessuna arma. Entrambi erano grandi, con spalle larghe e braccia muscoloso, ma in qualche modo non avevo fatto caso a loro fino a quando non avevano parlato. Anche in quel momento, sembravano in grado di confondersi con le ombre della foresta mentre si avvicinavano a me. «Stai tranquilla, piccolina. Non stavo cercando di spaventarti.» Uno dei due, un uomo dai capelli rossi lunghi fino alle spalle, si avvicinò a me e afferrò il cesto che avevo lasciato cadere per terra. «Tu non hai bisogno di provare a spaventare le donne, Leif», grugnì l’altro guerriero accanto a lui. «La tua faccia fa tutto il lavoro.» Il rosso, Leif, ignorò il suo compagno. «Ti chiedo scusa.» Il suo era uno strano accento, con una cadenza che riuscii a ricondurre agli Highland, la catena montuosa a molte leghe di distanza dal convento dove risiedevo io. Con mani tremanti mi ripresi il cesto che aveva tra le mani, e lo portai sul mio petto. Gli occhi del guerriero scesero su tutto il mio corpo, fermandosi sui miei seni. Mantennero la distanza, e di questo ne fui grata: se avessero fatto anche solo un altro passo avanti, avrei buttato via il cesto un’altra volta e sarei scappata a gambe levate. Anche se qualcosa, dentro di me, mi diceva che se anche avessi corso, la mia fuga avrebbe avuto vita breve. «Non ti ho spaventata troppo, vero?», mi chiese Leif, la testa inclinata di lato. Aveva un’espressione aperta, onesta, un viso gentile, marchiato da una cicatrice che rigava il suo mento e una bocca piena e lussuriosa. Quando scossi la testa, lui mi scoccò un sorrisetto arrogante. «Vedi, Brokk? È una creaturina coraggiosa. Scommetto che è la tua brutta faccia a cucirle la lingua.» Mi fece l’occhiolino. Le mie guance andarono a fuoco. «Non la mettere in imbarazzo», mormorò Brokk, la linea dura delle sue labbra in netto contrasto con il sorrisetto arrogante dell’amico. «E privarmi di quel rossore sulle sue guance? È come un bocciolo di rosa.» Quando Leif sorrise di nuovo, mi parve quasi di notare un accenno di zanne al posto dei canini, quasi curvati sui denti inferiori. «Sei adorabile, piccola.» Le mie labbra si schiusero. Il mio cuore prese a battere all’impazzata, come un uccello in gabbia. Il secondo guerriero si schiarì la gola. Non era bello come il suo compagno, ma il suo viso tirato e quell’espressione seriosa avevano il loro modo di attirare la mia attenzione, il loro modo particolare di poter essere considerati attraenti. «Perdonalo, ragazza», mi disse. «Leif è convinto di saperci fare, con le donne. Non gli permetterò di trattenerti ancora a lungo», mi assicurò, e anche se con le sue parole stava cercando di mettermi a mio agio, non riuscii ad evitare il passo indietro che i miei piedi fecero di loro volontà quando sentii la parola trattenere. Con un suono basso e calmo, i due guerrieri si avvicinarono a me. La mia testa dovette inclinarsi indietro per poter continuare a guardarli. Strinsi più forte il cesto che avevo tra le mani. I guerrieri bloccavano la mia possibile fuga, ma per qualche motivo, dentro di me non era paura, quella che sentivo. Il mio corpo si fece più caldo, quasi in risposta al calore che sembravano emanare i loro. «Posso aiutarvi, signori?», gracchiai io. La mia gola era così secca che dovetti faticare per tirare fuori le parole. Forse, se mi fossi comportata in maniera educata, alla fine mi avrebbero lasciata andare. «Vivi qui?» mi chiese Brokk, facendo cenno con il mento al convento dietro di me, la voce roca ma gentile. «Sì, signore.» «Come ti chiami?», mi chiese Leif. «Willow», sussurrai io. «Willow…» Leif sembrò tastare il nome sulla mia lingua, ed io mi sentii pizzicare in mezzo alle gambe. Mi s’inturgidirono subito i capezzoli. «Willow», gli fece eco Brokk, e la sua espressione sembrò ammorbidirsi, con quel mio nome sulle labbra. Il dolore ai seni si fece più insistente, e tra le mie labbra inferiori riuscii a sentire immediatamente dell’umido. Leif alzò il viso, annusando l’aria con un gran respiro. Entrambi i guerrieri spostarono lo sguardo dritti sui miei occhi, e i loro si fecero quelli di due predatori, ormai fissi sulla loro preda. Io mi ritrovai a tremare tra di loro, persa in quegli sguardi dorati. Il mio desiderio prese immediatamente vita, seguito subito dopo dalla paura di ciò che ne sarebbe conseguito. «Non dovrei essere qui», sputai di punto in bianco. «Non dovrei parlare con voi.» Il frate ci aveva avvertito che avremmo dovuto tenerci lontane dagli uomini sconosciuti. Ogni singola volta che gli capitava di trovarci a parlare con uno di loro, al villaggio, dovevamo sorbirci punizioni fin troppo pesanti da poter essere dette a parole. Si sarebbe fatta notte molto presto, e con essa sarebbe arrivata la Luna piena. Dovevo andare via. «Devo andare», sussurrai infatti. «Per favore.» Per un attimo ebbi il tremendo sospetto che non mi avrebbero lasciata andare. Poi, però, Leif si fece da parte, e il sentiero per il convento fu di nuovo libero. «Prenditi cura di te, Willow», mi disse Brokk, la voce un grugnito gentile. «Noi ti guarderemo le spalle», aggiunse Leif. «Ci assicureremo che arriverai sana e salva alla porta. Del resto, in giro a quest’ora ci sono uomini pericolosi…» Il mio cuore sprofondò di nuovo nel petto, e lui mi fece un altro occhiolino. Per un secondo, mi sembrò di vedere oro pulsare dentro quelle sue iridi. Poi però andò via, lasciando gli occhi di un uomo normale. Normale… se non fosse stato per quella faccia meravigliosa, per quel collo forte, per quei muscoli definiti a riempire i vestiti che portava addosso. Con un piccolo cenno d’assenso, mi costrinsi a percorrere il sentiero che mi avrebbe riportata a casa. Una volta dentro, fu soltanto la parete dietro di me a tenermi in piedi mentre tenevo premuta una mano sul mio petto, come se questa sarebbe stata in grado di far rallentare i battiti accelerati del mio cuore. Non mi era mai capitato di sentirmi in quel modo di fronte un uomo, prima di quel momento—neanche con Joseph, l’apprendista del fabbro giù al villaggio che si era sempre premurato di scoccarmi sorrisi gentili ogni volta che passavo di lì. Mi portai le mani davanti agli occhi, osservandole tremare. C’era qualcosa, in quei guerrieri… il modo in cui sembravano non essere in grado di togliermi gli occhi di dosso… il mio corpo prese a tremare un’altra volta, e quasi pensai di riuscire a sentire il sangue arrivarmi al cervello. Era quasi come se avessi aspettato una vita intera soltanto per quell’unico incontro. Ma cosa mi stava succedendo? Avrei dovuto chiedere a quei guerrieri da dove fossero sbucati fuori, che cosa volessero da me. Avrei dovuto fare qualcosa, qualsiasi cosa invece di restare lì, ferma come un palo, la faccia rossa e il cuore impazzito. Raggi di luce filtrarono dalla finestra colorata sopra la mia testa, colorando le mie mani di rosso. Che stupida. Quell’incontro non significava assolutamente nulla. Alcuni guerrieri di passaggio avevano trovato una ragazza innocente, piccola e spaventata, e si erano divertiti un po’. Avrebbero riso insieme sopra a quell’incontro, e poi mi avrebbero dimenticata. Io, invece… io avrei pensato a loro a lungo, e la mia pelle impura e malvagia sarebbe andata a fuoco ancora e ancora a quel pensiero. Nell’oscurità fredda, camminai nel corridoio di pietra, oltrepassando il santuario, il viso basso e gli occhi intenti a non fissare i dipinti dei santi sopra la mia testa. Avevo visitato il santuario abbastanza volte da conoscere quelle facce a memoria, in ogni caso. Perfette, e ben più in alto di me. Una brava ragazza si sarebbe messa in ginocchio e avrebbe chiesto perdono per aver anche solo avuto l’audacia di fermarsi a parlare con uomini belli come quelli che mi avevano fermata. Ma per i pensieri che avevano riempito la mia mente quando mi ero ritrovata intrappolata tra i due… nessun numero di preghiere avrebbe potuto assolvermi da quei peccati. Ma perché c’ero abituata, poggiai per terra il cesto che avevo tra le mani e m’inginocchiai di fronte la statua della Vergine Maria, posta sul fronte dell’altare, la sua espressione pura e serena. Quando ero grande, fingevo che fosse lei la mia vera madre. Pregavo ogni singolo giorno per delle risposte, per ricevere sollievo da quella malattia che non aveva fatto altro che prendermi da quando ero diventata donna. La Chiesa insegnava che la sofferenza ripuliva l’anima; ed anche quelle mie preghiere, quel mio bisogno di scacciare via il dolore, mi rendeva una donna debole e peccatrice ai loro occhi. Perché sono così? Quanto ancora dovrò soffrire? Non c’era nessuna risposta che riuscii a trovare, in quella faccia bellissima e intarsiata. «Willow», mi chiamò una voce bassa. Una giovane donna si avvicinò a me dalle ombre. Sage, una delle mie amiche più strette in orfanotrofio. Io e lei eravamo state portate in abbazia quasi allo stesso momento, ed avevamo la stessa altezza e lo stesso corpo minuto. Nonostante i miei capelli fossero scuri e i suoi fossero chiari, a volte mi trovavo a pensare che potessimo davvero essere sorelle. «Hai finito le tue mansioni?» «Sì», le risposi, la voce bassa per evitare che rimbombasse in quello spazio cavernoso. Una volta avevo chiesto alle suore per quale motivo delle statue e dei dipinti avessero la possibilità di risiedere in un posto tanto bello e curato, quando a noi ragazze veniva offerto soltanto un dormitorio comune… Mi erano bastati pochi round di punizioni corporali per capire che la Chiesa permetteva il lusso solo ai ricchi e ai morti. «Verrai, stasera, ai Vespri?», mi chiese Sage. «Non posso. La Luna ormai è quasi piena.» Sage annuì. Anche lei soffriva della mia stessa malattia, anche se in maniera meno frequente rispetto a me. La mia, invece, si faceva sempre più forte ad ogni nuova Luna. «Tieni.» Mi porse un tovagliolo su cui era stato avvolto del cibo. Le suore non ci permettevano di mangiare fino a quando non avessimo finito le preghiere, ma dovendomi nascondere per la sera, io non avrei potuto mangiare in ogni caso. «Devo comunque andare a fare visita al frate», le dissi, facendo un gesto verso il cesto che avevo con me. Sage lo prese da terra. «Ci andrò io.» «È di pessimo umore da quando Hazel è scomparsa.» «Starò bene» mi assicurò lei, il mento alzato. Senza dire nulla, presi il suo braccio e alzai la manica, ispezionando i lividi che erano ancora lì. I segni non potevano essere stati fatti da nient’altro che la presa troppo forte di un uomo su una pelle troppo chiara e fragile. Ero certa che ne avrei trovati di altri ancora peggiori sulle sue gambe, ma conoscevo Sage abbastanza da sapere che avrebbe odiato la mia pietà più del tocco indesiderato del frate. Lasciai andare il suo braccio. «I venditori ci hanno dato un bel po’ per le erbe. Ad uno di loro farebbe piacere ricevere un altro po’ di quella lozione che hai creato per i dolori di schiena.»
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