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1994 Words
All’ora di pranzo si fermarono nei pressi di un torrente. Starrag andò in esplorazione. Era pieno di energia e la cosa sembrava influire positivamente sul suo umore. Tornò una ventina di minuti più tardi, con i capelli gocciolanti e due pesci in mano. «Mi sono saltati in braccio» spiegò. Mosse una mano in un gesto distratto. Una quantità di ramoscelli e rametti si raccolsero ai suoi piedi e si incendiarono poco dopo. April guardò il fuoco e poi le due grasse trote che si infilzavano da sole su due stecchi e si piazzavano a rosolarsi. «Stai meglio» disse, cauta. «Sono incredibilmente in forze. Queste terre non hanno volontà». «Che cosa vorrebbe...» «Di solito mi sento così subito prima della primavera. Prima di spingere i semi a germogliare e dormire svuotato di ogni energia». Si sedette accanto al fuoco e si strizzò con cura i capelli. Visto alla luce del sole, l’effetto che faceva era diverso. Il suo pallore sembrava aristocratico, gli occhi grigio scuro avevano bagliori d’acciaio, i capelli folti e lucidi erano neri come inchiostro. Se nelle ombre perpetue della sua terra gli abiti neri lo nascondevano quasi, qua non poteva celare di essere un uomo ancora giovane dalla struttura perfetta, dalle spalle larghe, dalle ossa lunghe e dalla figura snella, ma atletica. April supponeva che una volta a corte sarebbe stato molto ammirato. Ma nonostante la luce solare lo rendesse meno inquietante, mostrava anche qualcosa nei suoi occhi... qualcosa che intimoriva April. «Quindi anche da voi ci sono i pesci» disse, mettendo da parte quelle considerazioni morbose. «I pesci sono tra i pochi animali selvatici che vivono nelle mie terre. Scendono lungo i fiumi che provengono dalle Terre del Sole, giù fino al Mar della Notte». «Anche sul mare è sempre notte?» chiese lei. Lui si strinse appena nelle spalle. «Fino a un certo punto, oltre il quale la nebbia è troppo fitta per consentire la navigazione. Là non vivono pesci, perché il fondale è spoglio quanto la superficie. Gli unici, come ti dicevo, sono quelli trascinati a valle dalla corrente». «Però avete animali domestici». «Li hai visti. Brucano l’erba che io e i Maghi Neri facciamo crescere per loro». Nel frattempo le trote si doravano sul fuoco. «Una volta ogni trent’anni vengono fatti crescere i boschi per il legname. C’è una grande cerimonia, durante la quale i maghi esauriscono ogni goccia di energia. Per il momento, però, non vi ho mai preso parte». April sbatté le palpebre, impressionata. «Vuoi dire che sei in grado di far crescere un intero bosco?» Starrag annuì. «Non è difficile. Solo faticoso. Ma, sì, quando verrà il momento farò crescere milioni di alberi. Sarà… bello…» l’ultima parola era stata pronunciata in uno strano tono titubante e April socchiuse gli occhi, sospettosa. «E a te cosa succederà?» «Se non muoio, immagino niente di speciale. Ma mio padre non è morto nessuna delle due volte, quindi non vedo perché dovrei farlo io». April era sconvolta, ma cercò di nascondere la cosa in una risata. «Scommetto che non ci sono molti pretendenti al trono, dalle vostre parti!» Starrag la fissò per qualche secondo, prima di rispondere: «In effetti no». Arrivarono alla corte di Lenn quella sera. April fece entrare il principe da una porta secondaria e spedì un valletto a chiamare il re. Il Castello di Lenn era vicino all’omonimo paese, sulle sponde del fiume Cantrakis. Era un’ampia costruzione di arenaria chiara, dal perimetro quadrato dominato da quattro torrioni circolari e sembrava arrampicarsi sul fianco di una collina boscosa, che era terreno di caccia del re. Le pareti erano stuccate e intonacate, abbellite da arazzi dai colori tenui e da tendaggi cremisi. April e il Principe Starrag attesero in una piccola anticamera minore. April era stata terrorizzata dal pensiero di arrivare troppo tardi, ma ora era sollevata. Se Sephir fosse morto l’avrebbe già saputo dai paramenti a lutto. Quindi doveva essere ancora vivo. Mentre rifletteva sulla cosa, le porte dell’anticamera si aprirono e Re Avetis in persona si precipitò dentro. Era un vecchio imponente, dotato di una lussureggiante barba grigia e vestito dalla testa ai piedi di stoffe preziose rosse, azzurre e oro. «Figlia mia!» esclamò, correndole incontro con le possenti braccia spalancate. «Sei tornata! Porti speranza?» chiese, stringendola per le spalle. April fu quasi commossa dal gesto e avrebbe voluto abbracciarlo fino a stritolarlo. Tuttavia si sciolse dal suo abbraccio e disse: «Più che speranza, padre. Il re vi concede in prestito la Gemma della Sera e ha mandato suo figlio, il principe Starrag Ó hAlluráin, perché operi la guarigione…» Così dicendo fece un ampio gesto verso il suo compagno di viaggio, che se ne stava da una parte, guardando la scena. Il suo viso era più indecifrabile che mai. «Voi?» disse il re, stupito. «Voi siete il Principe della Notte? Venuto fin qua per mio nipote?» «Certamente. Come sta il principino?» rispose lui, in un tono educato che fece inarcare ad April le sopracciglia. Avetis si incupì. «Non bene. Ha preso a tossire sangue e ormai pesa meno di un uccellino. Voi potete aiutarlo, principe?» «Suppongo. Portami da lui, penso sia meglio. Tu, April, vieni con noi, visto che hai la Gemma». Sia il re che April lo fissarono confusi. «Non ho la Gemma» disse lei, in tono piatto. Il pensiero che le si stava formando nel cervello era così orribile da non poter essere contemplato. «Certo che ce l’hai. Mio padre te l’ha data» replicò Starrag, e ora April riconobbe il suo solito tono seccato. «Dovremo andare, ora». «Ma…» iniziò a dire lei. «Fidati. Dobbiamo andare. C’è qualcuno che sta morendo in questo castello, lo sento. Portatemi dal principe, per favore». «Sta morendo?» esclamò il re, quasi gridando. «Venite, venite con me!» Detto questo prese letteralmente i due per i polsi e se li trascinò dietro, oltre la porta e attraverso corridoi e stanze. Senza lasciarli, corse su per una scalinata, fino a una grande porta chiusa, di legno scuro. C’erano delle donne e degli uomini, lì di fronte, come in attesa e con gli sguardi mesti. «Il re!» esclamò una donna. «La figlia del re…» borbottò un uomo, con espressione sollevata. Avetis non concesse loro uno sguardo. Si limitò a spalancare le porte e a fare strada all’interno. La stanza era in penombra, riccamente ammobiliata, ma pregna di un soffocante sentore di chiuso. Nel letto a baldacchino stava un corpo che sembrava troppo piccolo per occuparlo. Il principino era orribilmente pallido e magro, e il suo lenzuolo era macchiato di sangue fresco. Sembrava che stesse dormendo, ma il suo aspetto cadaverico e il sudore sulla fronte indicavano che non stava semplicemente riposando. «Salvatelo!» si limitò a dire il re, che sembrava aver perso ogni capacità di eloquio. Il Principe Starrag si avvicinò al letto e osservò in silenzio il bimbo privo di sensi. «Protendi la mano destra, April» mormorò, senza distogliere lo sguardo. Lei, intontita, obbedì. «Chiudi il pugno e pensa alla Gemma della Sera». April ci provò. Non aveva idea di come fosse fatta, né del suo colore, ma ci provò ugualmente. Quando sentì qualcosa di duro e delle dimensioni di un uovo premerle nel palmo quasi gridò. Il Principe Starrag si voltò verso di lei. «Molto bene». Poi le aprì gentilmente le dita, scoprendo la grande gemma rosa chiaro che teneva nel pugno. «Posso?» «C-certo» balbettò lei. Lui prese la Gemma tra indice e pollice e la appoggiò delicatamente sulla fronte del principino. April la vide illuminarsi di una brillante luce interna, i cui raggi rischiararono a giorno la stanza. Starrag chiuse gli occhi e dalla sua gola uscirono ancora una volta le parole arcane e ringhianti che April aveva già sentito in due occasioni. Le diedero i brividi come sempre, ma questa volta il loro suono cupo fu bilanciato dalla luce della Gemma, una luce dolce e violenta insieme. Lo sconvolgente fenomeno non durò a lungo, solo qualche secondo, e poi la gemma sparì. «Ecco…» disse il Principe Starrag. Si chinò sul letto e spostò una ciocca di capelli sudati dalla fronte di Sephir. «Come stai, piccolino?» Di nuovo, April fu colpita dal suo tono, così diverso da quello che usava di solito. Quasi affettuoso. Il bimbo sbatté gli occhi un paio di volte, osservando lo strano sconosciuto che aveva al fianco. «Ho fame» disse, con voce debole. Lo stregone si rialzò. «Ottimo segno, Sephir. Io sono Starrag. Piacere di conoscerti». Il viso del bimbo fu attraversato da un sorriso. «Che nome è Starrag? Sei un cantastorie? Sono stanco di cantastorie e poi… credo… di non essere più ammalato». «Non sei più malato» confermò Starrag. «E, mi dispiace, non sono un cantastorie, anche se credo che mi piacerebbe. No. Sono il figlio di re Corr, delle terre oltre la nebbia. Sono felice che tu stia bene». Poi, con un ultimo sorriso, fece un passo indietro. Avetis e April, in lacrime, corsero accanto al principino. Dopo qualche minuto il re si sollevò e si rivolse al Principe Starrag. «Avete salvato la vita di mio nipote… qualunque cosa chiediate io ve la darò. Vi sono debitore in eterno». Gli occhi di Starrag mandarono un lampo, ma la sua espressione non cambiò. «Una vita vale già se stessa, non credi?» Si guardò attorno e, per un attimo, April ne ebbe di nuovo paura. Restò stupita di quel momento, non per il brivido che aveva provato, ma nel rendersi conto che da un po’ di tempo non ne aveva più. Starrag mosse una mano in aria, in un movimento fluido e veloce. Apparentemente non cambiò nulla, ma la stanza sprofondò in uno strano silenzio, come se tutti i suoni all’esterno fossero stati cancellati. «Voglio avvertirti, tuttavia. Tuo nipote non era malato. Qualcuno gli aveva scagliato contro una maledizione mortale. Credo che costui, o costei, non controlli bene la propria magia, perché l’incantesimo è stato lanciato in modo goffo. Doveva uccidere sul colpo. Ma guardati dai tuoi nemici, re Avetis, perché sono abbastanza spietati da uccidere un bambino». Re Avetis, mentre il principe parlava, aveva perso ogni colore. «Una maledizione… Ma chi può aver fatto una cosa simile?» «Non lo so». Il re annuì cupamente. Il Principe Starrag mosse di nuovo una mano e i rumori della corte tornarono a udirsi. Lo avevano accompagnato nelle stanze per gli ospiti più lussuose. I valletti sembravano confusi da un principe che viaggiava senza scorta e senza servitori, ma non avevano fatto commenti espliciti. E se qualcuno aveva paura che un abitante delle Terre Oscure bevesse il suo sangue durante la notte, si guardò bene dal dirlo. April si ritirò nei suoi quartieri e chiese alle sue cameriere di prepararle un bagno. Ma quando si spogliò si accorse di avere qualcosa sulla pancia. Un segno. Un simbolo simile a una lettera nell’antica lingua. Si affrettò a ricoprirsi, mentre le cameriere versavano l’acqua. Disse che si sarebbe lavata da sola, di prepararle i vestiti per la notte sul letto. Che cos’era quel segno? Il sigillo di cui aveva parlato Starrag? Non somigliava a un tatuaggio, quanto a una cicatrice ancora fresca. Quando le cameriere se ne furono andate, si spogliò di nuovo e si guardò allo specchio. Come temeva, aveva altri segni sulla schiena, uno alla base del collo, uno tra le scapole, uno all’altezza della vita e uno molto in basso, subito sopra il sedere. Ne aveva uno anche... uhm, ne aveva uno anche sul sesso? Si sedette su una sedia e provò a guardarsi tra le grandi labbra, una cosa che non aveva mai fatto in vita sua e che le sembrava piuttosto scandalosa. Ma non riuscì a vedere nulla. Spaventata e preoccupata, fece un bagno il più rapido possibile, si vestì per la notte e mandò un biglietto a Starrag Ó hAlluráin. Sul biglietto diceva: “Devo vederti domattina come prima cosa. È urgente!” Meno di cinque minuti più tardi, mentre stava spegnendo le luci per la notte, Starrag in persona comparve al centro della sua stanza. April lanciò un urlo. «Se è così urgente» disse lui.
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