CAPITOLO II-2

1479 Words
Il presidente aveva rapidamente valutato le conseguenze di queste tre ipotesi, che in un modo o nell’altro avrebbero fatalmente fatto fallire il suo tentativo. Gli altri, muti, avevano gli occhi fissi nello spazio. L’oggetto, a mano a mano che si avvicinava, diventava enorme, e per effetto di un’illusione ottica si sarebbe detto che il proiettile gli si stesse precipitando contro. «Perbacco», gridò Michel, «ci scontreremo!» Istintivamente i viaggiatori si erano buttati all’indietro, in preda a un terrore senza nome, che tuttavia durò solo pochi secondi. Per fortuna il meteorite passò a varie centinaia di metri dal proiettile, e scomparve, non tanto per la rapidità della sua corsa, quanto perché la sua faccia, opposta alla Luna, si confuse immediatamente con l’oscurità assoluta dello spazio. «Buon viaggio!», gli gridò dietro Michel Ardan tirando un grosso respiro di sollievo, «Perbacco! L’infinito non è dunque abbastanza grande, affinché un proiettilino come il nostro non possa passeggiarvi senza pericoli? Ma che cos’è dunque questo globo pieno di pretese che per un pelo non ci ha mandati a gambe all’aria?» «Io lo so», rispose Barbicane. «Perdiana, ma tu sai proprio tutto!» «È un semplice meteorite, ma un meteorite di proporzioni enormi che l’attrazione terrestre ha mantenuto allo stato di satellite». «Davvero? La Terra ha dunque due lune come Nettuno?» «Sì, amico mio, due lune, benché si ritenga generalmente che ne possieda una sola. Però questa seconda luna è talmente piccola, e la sua velocità talmente grande, che gli abitanti della Terra non possono scorgerla. Solo tenendo conto di determinate perturbazioni un astronomo francese, Petit, ha potuto stabilire l’esistenza di questo secondo satellite, e calcolarne i dati. Secondo le sue osservazioni, il meteorite che hai visto compirebbe la propria rivoluzione intorno alla Terra in appena tre ore e venti minuti, il che implica una velocità prodigiosa. «E gli altri astronomi ci credono, nell’esistenza di questo satellite?» domandò Nicholl. «No, ma se lo avessero incontrato, com’è accaduto a noi, non potrebbero nutrire più dubbi in proposito. Anzi, ora che ci penso, questo bolide che ci avrebbe procurato dei bei guai ci consente di precisare la nostra posizione nello spazio» «In che modo?», chiese Ardan. «Perché la sua distanza è nota, Quindi nel punto in cui lo abbiamo incontrato noi ci trovavamo esattamente a 8.140 chilometri dalla superficie del globo terrestre». «Più di duemila leghe!», gridò Michel, «Questo sì che si chiama battere i treni-lampo di quel miserabile sferoide che è la Terra!» «Lo credo bene», osservò Nicholl consultando il suo cronometro, «In questo momento sono le undici, perciò noi abbiamo abbandonato il continente americano da soli tredici minuti». «Tredici minuti appena?», domandò Barbicane. «Sì, e se la nostra velocità iniziale di undici chilometri rimanesse costante, noi dovremmo fare pressappoco diecimila leghe l’ora!» «Tutto questo è bellissimo, amici miei, dichiarò il presidente, «però rimane sempre irrisolto il problema: perché non abbiamo udito la detonazione della Columbiad?» In mancanza di una risposta, la conversazione languì, e Barbicane, pur continuando a riflettere, si preoccupò di calare il contro-sportello del secondo oblò laterale. Una volta liberato il vetro, la Luna riempì l’interno del proiettile con una luce sfolgorante e Nicholl, da persona parca qual era, si affrettò a spegnere il gas divenuto inutile e il cui chiarore, del resto, avrebbe rovinato l’osservazione degli spazi interplanetari. Il disco lunare splendeva in quel momento di una purezza incomparabile. I suoi raggi, non più smorzati dalla vaporosità dell’atmosfera terrestre, filtravano limpidi attraverso il vetro, colmando l’interno del proiettile di riflessi argentei. La nera coltre del firmamento ne risaltava ancor più lo sfavillio, che nel vuoto dell’etere, inadatto alla diffusione, non eclissava tuttavia quello delle vicine stelle. Il cielo, visto in tali condizioni, offriva un aspetto nuovissimo, che l’occhio umano non saprebbe mai immaginare. È facile immaginare con quale interesse i nostri eroi rimasero a contemplare l’astro delle notti, meta suprema del loro viaggio. Il satellite terrestre, nel suo movimento di traslazione, si avvicinava in modo non percepibile allo zenit, punto matematico che esso doveva raggiungere circa novantasei ore più tardi. Le sue montagne, le sue pianure, tutto il suo rilievo non si distinguevano con maggiore nitidezza di quanto appaiono se osservati da un punto qualsiasi della Terra, ma nel vuoto la sua luce si sviluppava con incomparabile intensità. Il disco lunare risplendeva infatti come uno specchio di platino. Della Terra in fuga sotto di loro, i viaggiatori avevano già dimenticato persino il ricordo. Fu il capitano Nicholl per primo a richiamare l’attenzione degli altri sul globo scomparso. «È vero», assentì Michel Ardan, «non dobbiamo essere ingrati nei suoi confronti, e dato che stiamo abbandonando il nostro pianeta è giusto che a lui vadano i nostri ultimi sguardi. Voglio dare un’ultima occhiata alla Terra, prima che essa sparisca del tutto alla mia vista». Barbicane, allo scopo di soddisfare i desideri del compagno, corse a liberare la finestra di fondo del proiettile, quella cioè che consentiva l’osservazione diretta della Terra. Fu smontato con qualche difficoltà il disco che la forza di propulsione aveva abbassato sino alla culatta e i cui pezzi, disposti con cura intorno alle pareti, potevano al bisogno servire ancora. Apparve così uno spazio circolare largo circa cinquanta centimetri, ricavato nella parte inferiore del proiettile. Lo chiudeva un vetro spesso quindici centimetri e rinforzato da un’armatura in rame. In basso era stata applicata una piastra di alluminio tenuta ferma da bulloni. Una volta svitati i dadi e allargati i bulloni, la piastra si ribaltò, permettendo la comunicazione visiva tra l’interno e l’esterno. Michel Ardan si era inginocchiato sul vetro, che era scuro, pressoché opaco. «Beh, e la Terra?», esclamò. «Eccola là», indicò Barbicane. «Come? Quel filettino, quella piccola falce argentata?» «Ma certo, Michel. Tra quattro giorni, quando cioè la Luna sarà piena, e nel preciso istante in cui noi la raggiungeremo, la Terra sarà nuova. Già ci appare come una piccola falce che tra poco svanirà, dopodiché resterà sommersa per alcuni giorni in un’ombra impenetrabile». «Quella? La Terra?», continuava a ripetere Michel Ardan, fissando intensamente quell’ultima esigua fettina del suo pianeta d’origine. La spiegazione che gli aveva dato il presidente Barbicane era esatta. La Terra, relativamente al proiettile, stava entrando nella sua ultima fase: si trovava nel proprio ottante [1] , e rivelava una falce delicatamente disegnata sul fondo nero del cielo, la cui luce, resa bluastra dallo spessore dello strato atmosferico, era meno intensa di quella della falce lunare. La falce terrestre si presentava con proporzioni notevoli, come un enorme arco teso sul firmamento: alcuni punti vivamente illuminati, specie nella parte concava, rivelavano la presenza di montagne alte, ma sparivano a tratti sotto spesse macchie che non si notano mai sulla superficie del disco lunare. Erano anelli di nubi disposti in modo concentrico intorno allo sferoide terrestre. Eppure, per effetto di un fenomeno naturale identico a quello che si produce sulla Luna quando questa si trova nei suoi ottanti, era possibile cogliere l’intero profilo del globo terrestre. Tutto il suo disco si rivelava abbastanza visibile per un effetto di luce cinerea, meno apprezzabile della luce cinerea della Luna. Il motivo di questa minore intensità è facile da comprendere. Nel momento che tale riflesso si produce sulla Luna, esso è dovuto ai raggi solari che la Terra riflette verso il suo satellite; qui, invece, per un effetto inverso, era dovuto ai raggi solari riflessi dalla Luna verso la Terra. Ora, la luce terrestre è circa tredici volte più intensa di quella lunare, a causa della diversità di volume dei due corpi e ne consegue che nel fenomeno della luce cinerea la parte oscura del disco terrestre si profila meno netta di quella del disco lunare, poiché l’intensità del fenomeno è proporzionale alla forza illuminante dei due astri. Bisogna inoltre aggiungere che la falce terrestre, per un semplice effetto di irradiazione, sembrava descrivere una curva più allungata di quella del disco. Mentre i viaggiatori cercavano di penetrare le fitte tenebre spaziali, si aprì sotto i loro occhi un fascio sfolgorante di stelle cadenti. Centinaia di asteroidi, infiammati dal contatto con l’atmosfera, solcavano l’ombra di scie luminose, rigando con i loro fuochi la parte cinerea del disco. In quel momento la Terra si trovava nel suo perielio [2] , e il mese di dicembre è talmente propizio all’apparizione delle stelle cadenti, che parecchi astronomi ne hanno contate sino a ottantamila l’ora. Michel Ardan, però, disdegnando i ragionamenti scientifici, preferì credere che la Terra salutasse con meravigliosi fuochi d’artificio la partenza di quei suoi tre figli. In breve, ecco quanto poterono vedere di questo sferoide immerso nell’ombra, astro inferiore del mondo solare, che per i grandi pianeti si corica o sorge come una semplice stella del mattino o della sera. Un punto impercettibile nello spazio, il globo sul quale avevano lasciato tutti i loro affetti non era più che una falce fuggitiva! I tre amici restarono a lungo muti, ma uniti con l’animo, ad ammirare, mentre il proiettile si allontanava a velocità uniformemente decrescente. Fino a quando una sonnolenza irresistibile s’impadronì di loro. Era stanchezza del corpo e dell’animo insieme: dopo la grande eccitazione di quelle ultime ore passate sulla Terra, una simile reazione era inevitabile. «Beh», disse Michel, «Siccome è necessario dormire, dormiamo». Stesi tutti e tre, quindi, sulle cuccette, caddero ben presto in preda a un sonno profondo. Non passò, però, nemmeno un quarto d’ora, che Barbicane si destò di soprassalto, risvegliando i compagni con un grido potente: «Ho trovato!» «Che cosa?», domandò Michel balzando a sedere sulla cuccetta. «La ragione per cui non abbiamo udito la detonazione della Columbiad». «E sarebbe?», fece Nicholl. «Non l’abbiamo intesa, perché il nostro proiettile procedeva più veloce del suono!»
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