Capitolo uno
Sedona
Apro gli occhi a fatica. Ho le palpebre gonfie e dolenti. Me le strofinerei se non fossi sotto forma di lupa.
Dove mi trovo?
Mi alzo e vado a sbattere contro sbarre di ferro. Oh santo cielo. Sono in una gabbia, una gabbia del cazzo.
Ehi, Sedona, dice la voce di mia madre, le labbra corrucciate. Devi proprio dire parolacce?
Sì, mamma. Se c’è un momento adatto alle parolacce è questo, cazzo.
Sono in unagabbia come un dannatocane. Come un maledetto animale in cattività.
Strofino la testa contro le sbarre, ma non mi aiuta ad alleviare il dolore. Ho la bocca secca e fatico a deglutire da quant’è asciutta. Peggio di qualsiasi balla abbia mai fatto in tre anni di college. Non che sia una grande festaiola, comunque.
Beh, a volte mi piace fare festa, ma a chi non piace?
Mi giro nello spazio limitato, ma è impossibile trovare una posizione comoda. Un ringhio sommesso mi si forma nella gola e la mia lupa si acquatta, come a voler saltare. Vado a sbattere contro alle sbarre e gemo dal male. Faccio un altro paio di tentativi e poi mi arrendo. Mi accuccio con il muso tra le zampe anteriori e chiudo gli occhi per cercare di isolare il dolore. La testa duole ancor di più. Quelli che mi hanno catturato mi hanno somministrato una sostanza per mettermi k.o. Da quanto tempo vacillo tra il sonno e la veglia? Dodici ore? Ventiquattro?
Sono all’interno di un grande magazzino. Altre gabbie sono disposte lungo gli scaffali di metallo, sistemate come i prodotti da Costco o al Club di Sam. Per lo più sono vuote. Un magrissimo lupo nero dagli occhi gialli mi guarda, sdraiato nell’angolo di una di esse.
Nell’aria aleggia fumo di sigaro e da dietro una porta proviene il rumore di voci umane che parlano spagnolo. La porta si apre di colpo, permettendo a un fascio di luce di entrare dal corridoio. Le voci mascoline si avvicinano e un gruppo di uomini si riunisce attorno alla mia gabbia. Gli stessi stronzi che mi hanno presa sulla spiaggia.
Se fossi furba, mi trasformerei per carpirgli qualche informazione. Chi sono, cosa vogliono da me. Ma la mia lupa non ha voglia di parlare.
Mi alzo in piedi; la schiena e la testa premono contro alle sbarre che fanno da tetto alla mia minuscola prigione. Le mie labbra si scostano e mostro le zanne. Un ringhio letale mi sale minaccioso dalla gola.
“Que belleza, no?” chiede uno degli uomini.
Segue una conversazione in spagnolo, ma non capisco niente, a parte americana e Monte Lobo.
Sono lupi, a giudicare dall’odore. Tutti quanti. I loro sguardi lascivi mi fanno scorrere dentro un brivido di paura.
Faccio schioccare le fauci attraverso le sbarre, ringhiando.
Ignorandomi, gli uomini raccolgono la mia gabbia e la portano fuori, vicino a un furgoncino bianco lucente. Aprono i portelloni posteriori e mi sollevano all’interno.
Io mi getto contro alle sbarre della gabbia, abbaiando e ringhiando.
Uno ride. “Tranquila, ángel, tranquila.” Chiude le porte con un colpo secco e mi lascia un’altra volta da sola.
~.~
Rimbalzo da un lato all’altro della gabbia, al buio. Sembra che il furgone stia andando in salita, muovendosi su terreno sempre più dissestato: dev’essere una strada sterrata. Mi trasformo assumendo sembianze umane per pensare, accucciata, nuda, tra le sbarre.
La mia testa si sta riprendendo dalla sedazione, anche se ho lo stomaco ancora contorto come dopo un doppio giro della morte sulle montagne russe.
Mi serve un piano. Una strategia per filarmela. Afferro il lucchetto all’esterno della gabbia. È solido. Avrei bisogno di un trancia-ferro o di un grimaldello per liberarmi, ma non ho niente. Mio fratello maggiore Garrett mi ha insegnato a scassinare una serratura. L’ho osservato un sacco quando eravamo ragazzini: apriva ogni serratura nostro padre usasse nel tentativo di tenerlo chiuso dentro. O fuori, a seconda della situazione.
Ma non ho con me nessuna molletta per capelli, nessuna borsetta. Né uno straccio di vestito.
Dove mi stanno portando? Lo stomaco mi si annoda. Se fosse un rapimento qualsiasi, potrei dire che la mia famiglia pagherebbe il riscatto. Ma sono una figlia alfa. Qualcuno deve avere qualcosa da ridire su mio padre, quindi… subirò uno stupro di gruppo da parte di un branco straniero. Diventerò la loro schiava del sesso. Dio santo, spero che non siano amanti delle torture.
La mia lupa piagnucola mentre l’odore della mia stessa paura mi invade le narici.
Pensa, Sedona, pensa!
Sono lupi. Mi hanno prelevata da una spiaggia turistica di San Carlos. Sono giovane, femmina. Probabilmente non mi uccideranno. Le femmine mutanti sono più rare dei maschi. Sono una merce di scambio. Mi venderanno all’asta?
Cazzo. Brutta storia. Davvero brutta.
A Garrett non piaceva l’idea che andassi a San Carlos con degli umani. Come una scema, ho gettato al vento le sue preoccupazioni. Ho pensato che facesse l’iperprotettivo. Sono una mutante. Qual è la cosa peggiore che poteva capitarmi?
Un sacco di cose, a quanto pare. Posso quasi sentire la voce di mio padre che dice: Te l’avevo detto. Se uscirò viva da qui, sarò contenta di dargli ragione.
Il furgone si ferma. La mia lupa lotta per prendere il sopravvento, per proteggermi, ma io la costringo a restare al suo posto. La mia unica possibilità è fingere di collaborare, poi strappargli gli occhi con le mie stesse mani e scappare. Per fare la docile, è meglio che appaia nuda e spaventata, come in uno stupido reality show.
Rotolo sul fianco, mi stringo le ginocchia al petto e copro i seni con l’avambraccio. Ecco. Indifesa come un coniglietto.
Il portellone del furgone si apre.
“Per favore,” dico con voce roca. “Ho tanta sete.”
Uno degli uomini mormora qualcosa in spagnolo. Ah sì. Sarà più difficile perché non parlo la loro lingua.
Cavolo, perché non ho scelto spagnolo al liceo? Ah sì, perché volevo fare tutte le lezioni possibili di arte. E non avevo idea che un giorno avrei dovuto parlare con dei rapitori messicani.
“Fatemi uscire dalla gabbia,” imploro, pregando che qualcuno mi capisca.
Mi ignorano. Due uomini prendono la gabbia dalle maniglie ai lati e la estraggono dal furgone. Ma non la posano. Percorrono un sentiero delimitato da alberi con la gabbia che sobbalza e oscilla tra loro. Oltre ai prati ben curati e a un edificio dalle pareti altissime, si vedono solo boschi. I miei aguzzini mi hanno portato in una fortezza in cima a una montagna.
Il mio battito accelera al massimo. “Per favore,” imploro. “Ho bisogno di acqua. E cibo. Fatemi uscire.”
“Cállate,” sibila uno di loro. La conosco pure io quella parola. Vengo dall’Arizona, dopotutto. Taci.
Ok, quindi sono poco solidali.
Due uomini con qualche anno in più – anche loro mutanti, a giudicare dall’odore – vestiti con abiti italiani e scarpe lucidate come specchi, emergono da dietro un enorme portone di acciaio e legno intagliato.
Trafficanti di droga.
Questo è il mio primo pensiero, sulla base dell’abbigliamento, anche se penso che avrei sentito parlare di un cartello della droga composto da mutanti, se esistesse. O no? Ma chi indossa abiti da migliaia di dollari in cima a una montagna piena di boschi?
Gli uomini dall’aspetto ricco parlano con i miei rapitori sottovoce e li fanno entrare.
Ritento con la scena della giovane nuda e spaventata. “Vi prego, aiutatemi señor. Ho tanta sete.”
Uno si gira a guardarmi e intuisco che ha capito. Dice qualcosa ai rapitori con voce secca e dura. Loro rispondono con un sommesso mormorio.
Sì, non ho ottenuto un gran risultato. Ma prima o poi la gabbia la dovranno aprire. E allora gli spaccherò il naso, mi tramuterò e me la darò a gambe levate. Basta lupacchiotta carina.
Mi si annoda lo stomaco mentre la gabbia oscilla. Devo tenermi alle sbarre di metallo per evitare di scivolare a ogni movimento.
Gli uomini seguono un sentiero all’interno delle alte mura di mattoni. Dall’altra parte si erge un’enorme villa o magione fatta di marmo bianco luccicante. Maestosa. Sembra quasi qualcosa di ultraterreno, come se ci trovassimo in un’altra era. O in un’altra dimensione.
Arriviamo a una moderna porta di sicurezza e uno degli uomini eleganti estrae una chiave magnetica. Apre la porta e guida i rapitori all’interno, dove poi scendono una rampa di scale. L’aria è umida e sa di muffa. Arriccio il naso.
Sbatto le palpebre mentre gli occhi si adattano piano piano alla scarsa illuminazione. Oh Signore. Sono in una prigione. Giuro che ci sono porte di ferro con finestrelle spioncino lungo tutto il corridoio. Uno dei ricchi abbaia qualcosa in spagnolo e tutti si fermano, posando la gabbia e aspettando che apra la porta di una cella.
Non appena vedo quello che c’è all’interno, mi tramuto e il mio ringhio riecheggia tra le pareti di pietra.
Nella stanza non c’è altro che un letto con manette di ferro affisse ai quattro lati, pronte per immobilizzare un prigioniero. E ora so perché mi hanno portata qui.
Mi lancio contro alle sbarre della gabbia. Qualcuno assaggerà le mie zanne.
Qualcosa di affilato mi punge il collo e le zampe cedono ancora sotto al corpo.
I miei ringhi mi riecheggiano nelle orecchie e la vista si appanna di nuovo, finché non diventa tutto nero un’altra volta.
~.~
Carlos
Sento il formicolio della pelle d’oca alla nuca mentre Don José mi guida giù per i gradini di marmo del palazzo.
“Dove stiamo andando?” Le mie scarpe eleganti ticchettano sulla pietra e il rumore riecheggia contro alle pareti del passaggio scarsamente illuminato, che brillano per lameticolosa pulizia quotidiana.
Il capo del Consejo, il Consiglio degli anziani, piega la testa di lato. “È necessario che tu veda una cosa.” Continua a camminare, aspettandosi che lo segua come se fossi ancora un cucciolo sprovveduto.
Un ringhio sommesso mi sale dalla gola. Don José si gira a guardarmi e caccio giù la risposta del mio lupo.
“Dai una calmata al tuo lupo, Alfa, se puoi. Questa cosa la vuoi proprio vedere.” La leggera deferenza emanata dalle sue parole non placa il tono arrogante. Stringo i denti fino a che non svolta per scendere verso le prigioni, l’area dove vengono rinchiusi lupi nemici e ribelli.
“Basta,” dico con tono secco. La diffidenza del mio lupo è troppo intensa da ignorare. “Cos’è che vuoi farmi vedere?”
Don José esita.
“Non sono più un cucciolo,” dico sommessamente. “Sono il tuo alfa.”
Per un momento lo sguardo del vecchio lupo incrocia il mio. Abbassa gli occhi un secondo prima che si trasformi in una vera sfida. “Lo sai che i tassi di natalità sono precipitati negli ultimi anni.”
“Direi nell’ultimo mezzo secolo,” lo correggo.
“Esatto. E molte nascite producono solo defectuosos,” dice José con sdegno. “Esseri deboli, incapaci di tramutarsi. Nei vecchi tempi…”
Alzo il mento, sfidandolo a completare la frase. Odio da matti quando gli anziani declamano i loro vecchi tempi.
“Nei vecchi tempi, un mutante senza animale non era un mutante,” dice rigidamente. “Venivano rimossi dal branco.”
Rimossi. Un modo carino di dire uccisi.
“Sai cos’ho deciso in proposito, Don José. Ogni lupo nato nel branco è parte del branco. Noi non voltiamo le spalle ai nostri simili.”
“Certamente,” dice, abbassando ancora la testa, la schiena rigida mentre fissa torvo un punto sulla mia cravatta. “Ma il branco deve restare forte. Altrimenti il sangue debole si diluirà al punto che non ci saranno più cuccioli con la capacità di tramutarsi.”
“Va bene.” Incrocio le braccia sul petto. “Arriva al punto.”
“Il Consiglio sta lavorando a una soluzione. Mentre eri all’estero per gli studi, abbiamo dovuto prendere molte decisioni difficili. Per il bene del branco.”
“Per il bene del branco,” mormoro. “Va bene allora. Fammi vedere.”