Friar’s Oak si trova in una conca dei Downs, e proprio nei pressi del villaggio sorge la quarantatreesima pietra miliare tra Londra e Brighton. Non è che un villaggetto di poche case di mattoni rossi, circondate ognuna dal proprio pezzo di giardino minuscolo e raggruppate intorno a una chiesa coperta d’edera e a una bella canonica. A una estremità del paese c’era la fucina di Harrison, all’estremità opposta la scuola del signor Allen. Il villino giallo, lievemente discosto dalla strada, dal piano superiore sporgente e ornato di un intreccio a listarelle di legno nero inserite nello stucco, era quello nel quale noi abitavamo. Ignoro se esista ancora, ma credo di sì, poiché non sembrava un luogo destinato a subire molti mutamenti.
Proprio di fronte a noi, sul lato opposto della larga strada bianca, sorgeva la Taverna di Friar’s Oak, tenuta ai miei tempi da John Cummings, il quale godeva di una reputazione eccellente in casa propria ma andava soggetto a strani eccessi allorché viaggiava, come si vedrà in seguito. Benché lungo la strada si avvicendasse un fiume incessante di traffico, le vetture provenienti da Brighton erano ancora troppo fresche per fermarsi al nostro villaggio e quelle provenienti da Londra troppo impazienti di raggiungere la loro destinazione, cosicché, se non fosse stato per qualche tirella spezzata di quando in quando o per qualche mota allentata, l’oste avrebbe dovuto contare, per tirare avanti, unicamente sulle gole assetate del paesetto. Erano quelli i giorni in cui il principe di Galles aveva da poco costruito a Brighton il suo curioso palazzo in riva al mare; perciò da maggio a settembre, cioè durante la stagione, passavano giornalmente davanti alla nostra porta, in mezzo a un fragore di ruote e uno scalpitare di cavalli, almeno duecento tra carrozzini, calessini di posta e vetture padronali. Quante sere d’estate abbiamo trascorso sull’erba, Jim e io, a osservare il passaggio di quei gran signori del bel mondo, acclamando a gran voce i cocchi londinesi che sfrecciavano via velocissimi tra nugoli di polvere e squilli di trombe, con i cocchieri impettiti a cassetta nei loro cappellucci a tricorno, e i volti scarlatti al pari delle loro livree! Di solito i passeggeri ridevano, quando Jim li salutava con voce tonante, ma se avessero indovinato tutta la forza nascosta nelle sue membra robuste, benché ancora in formazione, e nelle sue ampie spalle, forse lo avrebbero guardato meglio e gli avrebbero restituito il saluto.
Il Giovane Jim non aveva mai conosciuto né il padre né la madre ed era sempre vissuto con lo zio, Harrison il Campione. Harrison era il fabbro di Friar’s Oak e si era guadagnato quel soprannome durante un combattimento contro Tom Johnson quando questi deteneva la cintura di campione britannico, e certamente lo avrebbe battuto se i magistrati del Bedfordshire non avessero fatto di tutto per interrompere l’incontro. Per vari anni non vi furono incassatori e picchiatori che potessero superare Harrison benché egli sia sempre stato, così mi sembra, piuttosto lento di gambe. Finalmente, in un incontro con Baruk il Nero, l’ebreo, terminò il combattimento con un colpo così fulmineo che non soltanto mandò a finire l’avversario fuori delle corde, ma per oltre tre settimane lo lasciò tra la vita e la morte. In tutto quel tempo Harrison fu come pazzo, attendendosi da un’ora all’altra di sentirsi intorno al collo la stretta di un messaggero di Bow Street e di essere condannato alla pena capitale. Questa esperienza, unita alle preghiere della moglie, gli fece abbandonare per sempre il ring, inducendolo a usare la forza dei suoi muscoli nell’unico commercio in cui sembrava potergli offrire un vantaggio. Si potevano concludere parecchi buoni affari a Friar’s Oak, tra il passaggio del traffico e gli agricoltori del Sussex, tanto che Harrison divenne in breve l’uomo più ricco del villaggio, e soleva recarsi in chiesa tutte le domeniche, accompagnato dalla moglie e dal nipote, con l’aspetto del più rispettabile padre di famiglia che si possa immaginare.
Non era alto di statura, e molti dicevano che se avesse avuto un pollice di più di altezza neppure Jackson o Belcher nella loro forma migliore sarebbero riusciti a fargli le scarpe. Aveva un torace che pareva una botte, e avambracci come non ne ho mai visti, con profondi solchi tra un muscolo e l’altro, che parevano altrettanti pezzi di roccia corrosi dal logorio dell’acqua. Ma nonostante la sua forza immensa era un uomo mite, ossequioso, buono, tanto che nessuno in tutta la contrada era più amato di lui. Il suo volto placido, un po’ pesante, sempre accuratamente sbarbato, poteva assumere però un’espressione assai minacciosa, come ebbi occasione di constatare più volte; ma per me e per ogni altro ragazzo del villaggio c’era sempre un sorriso sulle sue labbra e un saluto amichevole nei suoi occhi, e tutti i mendicanti della regione sapevano per esperienza che Harrison aveva il cuore tenero quanto erano duri i suoi muscoli.
Non vi era nulla che gli piacesse quanto il discorrere dei suoi antichi incontri; però si fermava immediatamente non appena vedeva arrivare la moglie, poiché la sola grande ombra che minacciasse l’esistenza di lei era la costante paura che un giorno o l’altro il marito buttasse mazza e raspa per correre di nuovo sul quadrato. E dovete pensare e rammentare una volta per tutte che a quei tempi la professione del pugile non si trovava nello stato di degradazione nella quale piombò in seguito. A poco a poco, infatti, l’opinione pubblica finì con l’avversarla per il fatto che essa venne a cadere quasi completamente nelle mani di persone disoneste, favorendo vigliaccherie e imbrogli. Così come accade intorno al nobile purosangue, l’impostura e l’inganno erano fatalmente attirati dall’onestà e dalla prestanza del pugile valoroso per sfruttarlo ai propri loschi fini. Ecco perché il ring sta oggi morendo in Inghilterra, e dobbiamo augurarci che quando Caunt e Bendigo saranno scomparsi non vi sia nessuno a prendere il loro posto. Ma nei tempi di cui parlo le cose erano assai diverse. L’opinione pubblica favoriva ed esaltava l’arte del pugilato, e ne aveva buon motivo. Era quella un’epoca guerriera, in cui l’Inghilterra, con un Esercito e una Marina composti soltanto di volontari desiderosi di combattere unicamente perché sentivano ribollire dentro di sé l’ardore della lotta, doveva affrontare, come potrebbe essere chiamata ad affrontare oggi ancora, una potenza che grazie a una legislazione dispotica era sempre pronta a tramutare ogni cittadino in soldato. Se il popolo non fosse stato animato da questa sete di combattere è certo che l’Inghilterra avrebbe finito con l’essere sopraffatta. Ed è altrettanto certo che duelli siffatti, tra due uomini indomabili, trentamila persone che stavano a osservarli e tre milioni a discuterne, aiutarono parecchio a creare un esempio di resistenza e di tenacia. Era uno spettacolo brutale, senza dubbio, che aveva come ultimo e unico fine la brutalità, ma uno spettacolo sempre meno brutale della guerra. Ora, se sia logico insegnare agli uomini a essere pacifici in un’età in cui la loro stessa sopravvivenza può dipendere dalle loro capacità guerriere, è un problema di cui lascio la soluzione a cervelli più profondi del mio. Ma questo è quel che noi ne pensavamo ai tempi dei vostri nonni ed ecco perché si potevano vedere agli angoli del quadrato statisti e filantropi della forza di un Windham, di un Cox, di un Althorp.
Il solo fatto che gente di quello stampo proteggesse l’arte del pugno era motivo sufficiente per prevenire gli imbrogli che vi si insinuarono in seguito. Per oltre vent’anni, ai tempi di Jackson, di Brain, di Cribb, dei Belcher, di Pearce, di Gully e di tutti gli altri, i dominatori del quadrato erano uomini la cui onestà era al di sopra di qualsiasi sospetto; e quello fu appunto il ventennio in cui il quadrato servì forse, come ho detto, la causa nazionale. Già sapete come Pearce salvò da una casa in fiamme una ragazza di Bristol, come Jackson si guadagnò il rispetto e l’amicizia degli uomini migliori del suo tempo, come Gully si elevò fino a ottenere un seggio nel primo Parlamento Riformato. Questi erano gli uomini che davano l’esempio, e dalla loro professione scaturiva un monito inequivocabile, che cioè né un ubriacone né uno scioperato poteva a lungo durarci. Senza dubbio vi erano tra loro alcune eccezioni... i prepotenti come Hickman e i bruti come Berks, ma nel complesso ripeto ancora una volta che erano tutti gente onesta, coraggiosa e tenace sino all’inverosimile, e che onorarono il paese che li aveva generati. Come vedrete in seguito, mi fu concesso di assistere a qualcuna delle loro imprese, e se vi parlo di loro è perché le mie esperienze in proposito sono di prima mano.
Posso assicurarvi che nel villaggio eravamo tutti molto orgogliosi di avere in mezzo a noi un uomo dello stampo di Harrison il Campione, e se qualche forestiero si fermava alla taverna non mancava mai di spingersi fino alla fucina per conoscerlo di persona. Del resto ne valeva veramente la pena, soprattutto nelle notti d’inverno, quando il rosso chiarore della fornace si rifletteva sui suoi muscoli possenti e sul volto altero del Giovane Jim, mentre insieme picchiavano e martellavano un vomere incandescente tra uno sfarfallio di scintille a ogni colpo. Harrison soleva battere una sola volta con la sua mazza da trenta libbre e Jim due volte col maglio, e ogniqualvolta risuonava il loro “clunk-clink, clink! Clunk- clink, clink!”, io mi mettevo a correre per la strada del villaggio nella speranza, dal momento che erano entrambi occupati all’incudine, di trovare un posticino per me ai mantici.
Una sola volta, in quegli anni al villaggio, rammento di aver visto Harrison darmi per un attimo la prova dell’uomo che era stato. Accadde un mattino d’estate. Mentre Jim e io eravamo in piedi sulla porta della fucina, ecco giungere da Brighton un equipaggio privato trainato da quattro cavalli freschi, tutto scintillante d’ottoni, il quale passava rapidissimo tra un così allegro tintinnio di campanelli che il Campione uscì di corsa per vederlo, con un ferro di cavallo a metà finito tra le tenaglie. Il cocchio era guidato da un gentiluomo in cappa bianca – li chiamavano “corinzi” a quei tempi – e una mezza dozzina di pari suoi gli sedevano dietro ridendo a squarciagola. Forse il guidatore fu colpito dall’imponenza dell’aspetto del fabbro, forse agì per pura sventatezza, o forse si trattò di un semplice caso, ma il fatto è che, nel passare, l’estremità della lunga frusta sibilò vicinissima a noi e s’intese sul grembiule di cuoio di Harrison lo sguiscio di una secca sferzata.
«Ehi, padrone!», gridò il fabbro. «Non ci si può fidare di voi, a cassetta, se non sapete tener meglio la frusta in mano».
«Che c’è?», gridò di rimando il guidatore fermando di colpo l’equipaggio.
«Vi ho detto di fare attenzione, altrimenti tra poco sulla strada dove passerete voi ci sarà qualcuno cieco di un occhio».
«Oh, davvero», ironizzò il guidatore posando la frusta nella scanalatura e togliendosi i guanti di guida. «Voglio scambiare due chiacchiere con voi, bello mio».
I gentiluomini sportivi a quei tempi erano quasi tutti ottimi pugili, poiché era di moda allora prendere lezioni di pugilato da Mendoza, esattamente come qualche anno dopo non vi era nessun zerbinotto di città che non incrociasse i guantoni con Jackson. Consapevoli delle proprie capacità, non rifiutavano mai gli incerti di un’avventura imprevista, e accadeva di rado che un barcaiolo o un Marinaio avessero molto di che vantarsi dopo uno scontro con un giovane aristocratico.
Quello di cui parliamo scese di cassetta con la sveltezza di chi non nutre dubbi sull’esito del litigio, e dopo aver appeso il mantello al bilancino della carrozza si rimboccò con eleganza i polsini di pizzo della camicia bianca di cambrì.
«Ti pagherò il disturbo, amico», disse.
Sono sicuro che i compagni a bordo dell’equipaggio sapevano perfettamente chi fosse il corpacciuto fabbro e dovevano considerare uno scherzo impagabile la vista dell’amico che s’avviava verso un trabocchetto di quella fatta. Si misero perciò a urlare di gioia rintronandogli le orecchie con suggerimenti e consigli.
«Fagli giù un po’ di fuliggine, Lord Frederick!», berciavano. «Servigli la colazione, a quella recluta. Sbattilo nella sua brace! Picchia sodo e fa’ presto, se non vuoi che scappi».
Incoraggiato da quelle grida il giovane aristocratico avanzò verso il suo uomo. Il fabbro era rimasto immobile, ma la bocca gli si era fatta dura e cattiva, mentre di sotto alle irsute sopracciglia gli occhi gli luccicavano di una vivida luce verde. Aveva lasciato cadere le tenaglie e le sue mani penzolavano libere.
«Attento, padroncino», disse. «Le buscherete sode se non state in guardia».
Qualcosa nel tono sicuro di quella voce, qualcosa in quel tranquillo atteggiamento avvertì il giovane lord del pericolo che lo minacciava. Lo vidi fissare attentamente l’avversario mentre al tempo stesso braccia e mascella gli ricadevano inerti.
«Perbacco!», esclamò, «ma tu sei Jack Harrison!»
«In persona, padrone!»
«E io che ti avevo giudicato un qualunque zoticone dell’Essex! Perbacco, non ti ho più visto dal giorno che per poco non mandasti all’altro mondo Baruk il Nero, e mi sei costato con quello scherzo cento sterline tonde tonde».
Che urla si levarono dall’equipaggio!
«Bel colpo! Bel colpo, perbacco!», ricominciarono a vociare. «Jack Harrison il Picchiatore! E Lord Frederick voleva fare a pugni con un ex-campione come quello! Prova a dargli una bozza sul grembiule, Fred, e vediamo che cosa succede».
Ma il giovane era già risalito a cassetta e rideva sonoramente unendosi al coro dei compagni.
«Per questa volta ti lasciamo in pace, Harrison», disse. «Sono i tuoi figli questi?»
«Questo è mio nipote, padrone».
«Ecco una ghinea per lui! Così non potrà mai dire che gli ho sottratto suo zio». E avendo in tal modo volto le risa a suo favore per la buona grazia con la quale aveva accettato la beffa, fece schioccare la frusta e si allontanò volando per raggiungere Londra in meno di cinque ore, mentre Jack Harrison, con in mano il suo ferro da cavallo mezzo finito, rientrò fischiettando nella fucina.
II.