Il villaggio di Friar’s OakIn questo primo giorno di gennaio dell’anno 1851, il diciannovesimo secolo è giunto al mezzo del suo cammino, e molti di noi che ne hanno condiviso la giovinezza già hanno ricevuto i segni preannunciatori del tempo che fugge e non ritorna. Noi, i più vecchi, avviciniamo le nostre teste ormai grigie e discorriamo degli antichi giorni gloriosi, ma ci accorgiamo, allorché parliamo con i nostri figli, che ci è difficile farci comprendere da loro. Noi, e i nostri padri prima di noi, abbiamo vissuto più o meno un’esistenza identica, ma i nostri figli con le loro ferrovie e le loro navi a vapore appartengono a un’età diversa. È bensì vero che possiamo mettere tra le loro mani i libri di storia, dove possono leggere della nostra estenuante lotta, durata oltre quattro lustri, contro quel genio incompreso e malvagio che fu Napoleone. Possono sì apprendere da queste letture come la Libertà fosse fuggita dal continente, come fu sparso il sangue di Nelson, come il nobile cuore di Pitt si spezzasse nel disperato tentativo che la Libertà non ci abbandonasse per sempre, cercando rifugio tra i nostri fratelli d’oltre Atlantico. Tutte queste cose i nostri figli possono leggere, nonché imparare le date di questo o quel trattato, di questa o quella battaglia, ma non so dove potrebbero leggere di noi, della gente che eravamo, dell’esistenza che abbiamo condotta, e come si mostrasse il mondo ai nostri occhi quando eravamo giovani come essi lo sono adesso.
Se prendo in mano la penna per parlarvi di tutto ciò non dovete pensare che io abbia in mente un racconto ben preciso, perché quando questi fatti accaddero ero ancora giovanissimo, e benché già intuissi le vicende delle vite altrui non potevo certo pretendere di averne una mia propria. È l’amore di una donna che forma l’esistenza di un uomo, e molti anni dovevano ancora passare prima che io posassi per la prima volta lo sguardo sulla madre dei miei figli. A noi sembra cosa di ieri appena, eppure quei ragazzi già possono cogliere le susine sull’albero mentre ancora noi stiamo cercando la scala a pioli, e là dove poc’anzi ancora passeggiavamo con la loro manina nella nostra, siamo adesso lieti di poterci appoggiare al loro braccio. Ma io dirò di un tempo in cui il solo amore che conoscessi era quello di mia madre, e se voleste cercare dell’altro, sappiate allora che non sarà per voi che io scrivo. Ma se vorrete penetrare con me in quel mondo dimenticato, se vorrete conoscere il Giovane Jim e Harrison il Campione, se vi farà piacere incontrare mio padre, uno dei fedelissimi di Nelson, se vi interessa di cogliere una visione sia pure fugace della persona di questo magnifico Marinaio, e di Giorgio, destinato a divenire in seguito l’indegno re inglese, se soprattutto siete curiosi di fare la conoscenza del mio celebre zio, Sir Charles Tregellis, il re degli elegantoni, e dei pugili famosi i cui nomi suonano tuttora familiari alle vostre orecchie, datemi la mano, ché incominceremo subito.
Devo però avvertirvi che se credete di trovare nella vostra guida elementi di particolare interesse resterete delusi. Nel far scorrere lo sguardo lungo i miei scaffali mi accorgo che soltanto gli spiriti saggi e arguti o gli uomini valorosi si sono arrischiati a mettere per scritto le loro esperienze. Per quel che mi riguarda, se potessi soltanto avere la sicurezza di essere capace e ardimentoso quanto la media dei miei simili mi riterrei soddisfatto. Molti uomini d’azione hanno giudicato favorevolmente il mio ingegno, e molti uomini d’ingegno hanno giudicato favorevolmente l’opera delle mie mani, e questo è il meglio che io possa dire di me. A parte una innata predisposizione per la musica, tanto mi è facile e naturale dominare qualsiasi strumento, non saprei vantare un’altra speciale prerogativa che mi distingua dal resto dell’umanità. Sono stato sempre e in tutto un uomo mediocre; sono persino di media statura, i miei occhi non sono né grigi né azzurri, e i miei capelli, prima che il Tempo li spruzzasse della candida cipria degli anni, erano tra il biondo e il bruno. Di una cosa forse posso vantarmi, e cioè che in tutto il corso della mia esistenza non ho mai provato una sia pur lieve punta d’invidia, anzi ho sempre ammirato i migliori di me, e ho sempre visto tutte le cose come sono in realtà, me stesso compreso, il che dovrebbe pur segnare qualche punto a mio favore, adesso che vecchio ormai mi accingo a scrivere le mie memorie. Col vostro permesso dunque cercheremo di tener quanto più lontana possibile dal quadro la mia persona. Se riuscirete a immaginarmi come un cordoncino sottile e incolore sul quale infilare quelle che vorrebbero essere le mie perle, mi accetterete nei termini che io ritengo ideali per il corso di questa mia narrazione.
La mia famiglia appartiene da generazioni alla Marina, ed è sempre stata usanza tra noi che il figlio maggiore prendesse il nome del comandante favorito del proprio padre. Possiamo pertanto far risalire la nostra schiatta al vecchio Vernon Stone, che comandò nella lotta contro gli olandesi una nave di linea dall’alta poppa e dalla prora appuntita. Da Hawke Stone e Benbow Stone si scende a mio padre, Anson Stone, il quale a sua volta mi battezzò Rodney, nella Chiesa parrocchiale di St. Thomas di Portsmouth nell’anno di grazia 1786.
Dalla mia finestra, mentre scrivo, vedo nel giardino il mio figliuolo maggiore e se dovessi chiamar forte “Nelson!” capireste che anche io sono stato fedele alle tradizioni della mia famiglia.
La mia adorata mamma, la migliore madre che sia esistita al mondo, era la secondogenita del reverendo John Tregellis, vicario di Milton, una minuscola curia che sorge ai margini delle paludi di Langstone. La sua famiglia, benché povera in origine, si era presto acquistata una certa fama poiché il fratello maggiore di mia padre era il notissimo Sir Charles Tregellis il quale, avendo ereditato la sostanza di un ricco mercante delle Indie Orientali, era divenuto l’uomo del giorno e l’amico intimo del principe di Galles. Di lui parlerò più a lungo in seguito: per il momento mi limiterò a dire che era mio zio per parte materna.
Mia madre era poco più che una bambina quando si sposò, e giovanissima ancora la ricordo nelle mie prime memorie infantili, sempre in faccende con le sue agili dita, e perfettamente rammento la sua dolce voce e ancora la vedo bellissima con quegli occhi teneri di colomba, piuttosto piccola di statura, è vero, ma eretta e fiera di portamento. In quei miei lontani ricordi da adolescente ella è sempre vestita di un abito marezzato color di viola, una sciarpa bianca le cinge il lungo collo candido, e ne rivedo le mani abilissime che sferruzzano senza posa. E la rivedo ancora più avanti negli anni, sempre tenera e amorosa, destreggiarsi e compiere miracoli con i pochi scellini al giorno concessi dalla paga di tenente di vascello di mio padre, e con i quali doveva mandare avanti la villetta in cui abitavamo a Friar’s Oak e mantenere di fronte al mondo un’apparenza dignitosa. E anche adesso basta che io entri nel salotto per rivedermela ancora davanti, con oltre ottant’anni di una vita integerrima alle spalle, con quei suoi capelli d’argento, il volto placido, l’elegante cuffietta guarnita di nastri, gli occhiali cerchiati d’oro, le spalle coperte dall’inseparabile scialle di lana orlato di blu. L’ho amata quando era giovane e l’amo adesso che è vecchia, e quando se ne andrà si porterà con sé qualcosa che nulla al mondo potrà sostituire ai miei occhi. Voi che leggete queste pagine, per quanti amici potrete avere, e anche ammesso che vi sposiate, sappiate che di madre ce n’è una sola per ognuno di noi. Vezzeggiatela dunque finché vi è possibile, poiché verrà giorno in cui il ricordo di un gesto scortese o di una parola aspra tornerà a pungervi il cuore con implacabile rimorso. Questa dunque era mia madre; in quanto a mio padre mi soffermerò a descriverlo meglio quando arriverò al punto del suo ritorno in mezzo a noi dal Mediterraneo. Durante tutta la mia infanzia egli fu per me soltanto un nome e un volto che mi guardava da una piccola miniatura appesa al collo di mia madre. Da principio mi dissero che combatteva contro i francesi, poi, dopo qualche anno, intesi parlare sempre meno dei francesi e sempre più del generale Bonaparte. Ricordo il terrore col quale un giorno vidi esposto nella vetrina di un libraio di Portsmouth il ritratto del Grande Corso. Era dunque quello l’arcinemico contro il quale mio padre trascorreva la propria esistenza in una tremenda, incessante contesa? Poiché nella mia immaginazione infantile si trattava di una questione personale, e nella mia mente bambina vedevo mio padre a tu per tu in un duello mortale e senza quartiere con quell’uomo dal volto glabro e dalle labbra sottili. Solo quando incominciai a frequentare la scuola compresi che c’erano tanti altri bambini i cui padri subivano la stessa sorte del mio.
In quei lunghi anni mio padre venne a casa, in licenza, una sola volta, il che vi farà capire che cosa significasse in quei giorni essere la moglie di un Marinaio. Ciò accadde poco dopo il nostro spostamento da Portsmouth a Friar’s Oak, dove egli soggiornò per una settimana prima d’imbarcarsi agli ordini dell’ammiraglio Jervis nell’impresa che doveva poi mutare il nome di quest’ultimo in Lord St. Vincent. Rammento come rimasi spaventato e affascinato a un tempo dai suoi racconti di battaglie, e ricordo come se fosse ieri l’orrore che mi assalì nel notare sul merletto della sua camicia una macchiolina di sangue provocata certamente da un suo movimento troppo brusco nel farsi la barba. Allora però non ebbi il minimo dubbio che fosse sprizzata dal corpo esanime di chissà quale francese o spagnolo, colpito a morte dalla sua mira infallibile, e mi ritrassi atterrito non appena egli mi posò sul capo la mano callosa. Mia madre pianse disperatamente quando egli ripartì, ma io non fui affatto dispiaciuto di veder sparire lungo il viale del giardino la sua giacca azzurra e i suoi corti pantaloni bianchi poiché avevo la sensazione, nel mio spensierato egoismo infantile, che quando eravamo soli lei e io fossimo più vicini l’uno all’altra.
Avevo undici anni quando partimmo da Portsmouth per stabilirci a Friar’s Oak, un villaggetto del Sussex a nord di Brighton che ci era stato raccomandato da mio zio Sir Charles Tregellis, forse perché dimorava in quei pressi Lord Avon, uno dei tanti suoi fastosi amici. Il motivo reale di questo nostro trasloco era però che la vita in campagna costava di meno, e a mia madre riusciva più facile mantenere un certo decoro lontano da una cerchia di persone altolocate che era tuttavia impossibile non ricevere in modo degno. Erano infatti tempi assai difficili per tutti fuorché per gli agricoltori, i quali avevano in quegli anni realizzato guadagni tali che potevano benissimo permettersi il lusso, così avevo inteso dire, di lasciare metà delle loro terre incolte, vivendo da gran signori con i proventi dell’altra metà. Il grano costava centodieci scellini il quarto e la pagnotta di quattro libbre uno scellino e nove penny. Avremmo stentato a sbarcare il lunario anche nel nostro modesto villaggetto se nella squadra destinata al blocco navale e di cui mio padre faceva parte non ci fosse stata di quando in quando l’occasione di cogliere qualche piccolo bottino. Le navi da battaglia che facevano la spola al largo di Brest non potevano sperare di guadagnar nulla, fuorché onore e gloria, ma le fregate in agguato s’impadronivano di numerose navi costiere e queste, secondo il regolamento del servizio, venivano calcolate come appartenenti alla flotta, e il loro carico spartito come diritto di preda bellica veniva convertito in una cifra individuale. Grazie a questo sistema mio padre era in grado di inviare alla famiglia quanto bastava a sostenere le spese della villa e della mia frequenza alla scuola diurna di Joshua Allen, dove per quattro anni appresi tutto ciò che quel brav’uomo aveva da insegnarmi. Alla scuola di Allen, appunto, feci per la prima volta la conoscenza di Jim Harrison, il Giovane Jim come tutti lo hanno sempre chiamato, il nipote di Harrison il Campione, fabbro del villaggio. Lo ricordo ancora com’era allora, con quelle gambe e quelle braccia lunghe, penzoloni, quasi informi, che lo facevano assomigliare a un cucciolo di Terranova, e una faccia che costringeva a voltarsi per guardarla tutte le donne che incontrava. Fu in quei giorni che si stabilì tra noi un’amicizia destinata a durare per tutto il corso della nostra esistenza e che ancor oggi, benché ormai vecchi e stanchi, ci unisce fraternamente. Io lo aiutavo nei compiti di casa perché sin da allora la sola vista di un libro gli dava la nausea, e lui a sua volta mi insegnò la lotta e il pugilato, come si pesca la trota nell’Adur, e come si accalappiano i conigli sulle colline di Ditchling, perché quanto il suo cervello era pigro altrettanto svelte per contro erano le sue mani. Era maggiore di me di due anni, tuttavia, cosicché molto prima che io avessi terminato la mia istruzione, già lui se n’era andato ad aiutare lo zio alla fucina.