2.
C’era qualcosa in quella donna che non lo convinceva.
Aveva controllato la sua identità personalmente. Blanche Detour, trentatre anni, nubile, con intestata una piccola agenzia investigativa che in realtà forniva ogni tipo di servizi, compreso lavorare per le riviste di moda alla caccia dei segreti dei VIP. Se c’era una cosa che si poteva dire senza paura di smentita, era che a Blanche non faceva paura sporcarsi un po’ le mani.
A parte un certa spregiudicatezza sembrava abbastanza assennata. Abbastanza in gamba.
Abbastanza affidabile. Abbastanza. Aveva deciso di non correggerlo sulla sua vita personale, il che significava che stava sottovalutando la precisione delle sue fonti di informazione. D’altro canto non aveva nemmeno mentito completamente.
Bowie si grattò la nuca e continuò a fissare la fila di schermi che aveva di fronte. Una Blanche in bianco e nero si era sfilata le scarpe, sciolta i capelli e stava scrivendo a gran velocità sul computer portatile.
C’era qualcosa che gli sfuggiva. Quella donna sembrava mediocre, eppure gli aveva lanciato un’occhiata tutt’altro che mediocre. Gli aveva lanciato un’occhiata del tipo: ti tengo le palle in mano e sto per strizzare. E per un’istante era sembrata convincente.
Bowie sbadigliò e si andò a sedere sul bordo del letto, continuando a guardare la donna che sedeva scompostamente alla scrivania. Giocherellava coi propri capelli scuri, si mordicchiava le labbra, cambiava posizione sulla sedia. Forse stava cercando le parole per quel che le era stato fatto quel giorno, parole adatte ai lettori di una rivista di approfondimento come Landscapes.
Se Bowie avesse voluto avrebbe potuto leggere direttamente dal computer della sua stanza quello che l’altra scriveva. Ma inserire un collegamento gli era sembrato inutile.
Adesso, però, se l’avesse fatto fare, si sarebbe divertito a leggere le parole cancellate.
Bowie sbadigliò di nuovo e si lasciò cadere sul letto senza spogliarsi. Non si prese neanche la briga di spegnere i monitor.
Semplicemente si addormentò.
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Quando la mattina successiva aprì gli occhi non aveva affatto voglia di farsi intervistare dalla maledetta ficcanaso del piano di sotto. Certo, un articolo sul mondo dei killer a p*******o (in cui possibilmente si spiegasse chiaramente quanto bravi, insospettabili e tutto sommato economici i killer a p*******o fossero) gli avrebbe fruttato un bel po’ di soldi in termini di nuovi contratti…
Bastava che una rivista pubblicizzasse qualcosa e subito tutti diventavano ansiosi di provarla.
Il fatturato della sua attività era tristemente in calo. La manodopera a basso costo era ovunque, pronta a offrire i suoi stessi servizi a un decimo del prezzo. Certo, poi molto spesso quei dilettanti venivano arrestati e finivano per fare i nomi dei propri committenti, ma questo i committenti non lo scoprivano finché non era troppo tardi.
Accantonando questi pensieri, che ormai sembravano infestare ogni suo risveglio, Bowie si stiracchiò e si sollevò lentamente dal letto.
Posò involontariamente lo sguardo sui monitor incastrati nel muro e si trovò di fronte ad una vista panoramica di Blanche Detour sotto alla doccia.
Non era male, decise. Tette sode, chiappe piccole e tonde, gambe lunghe e vita sottile. La osservò mentre si lavava le parti intime e per un attimo immaginò che la mano che le stava insaponando i riccioli della fica fosse la propria.
Si strinse nelle spalle e accantonò il pensiero. Portarsela a letto era fuori discussione. Troppa fatica convincerla a parole, mentre altre soluzioni non erano nel suo stile. Se proprio voleva fare sesso in genere pagava una puttana. Pratico e funzionale.
Ma negli ultimi dieci-quindici anni aveva scoperto di non avere poi molto bisogno di avere rapporti sessuali. Fondamentalmente, una volta uscito dall’adolescenza, un uomo può benissimo far conto sulla propria mano. Rispetto a una prostituta forse l’esperienza era meno olistica, ma molto più veloce ed economica.
Si sfilò i vestiti del giorno prima ed entrò nella doccia. Davvero la mattinata era iniziata in modo pessimo. Pensieri angosciosi sulla carenza di lavoro, pensieri fastidiosi di natura sessuale… e di lì a poco avrebbe anche dovuto incontrarsi con il contabile che gestiva i suoi fondi. Sapeva già che cosa gli avrebbe detto: che le entrate erano buone, ma non ottime, e che avrebbe dovuto tagliare alcune spese. Bowie detestava questo concetto. Si era ammazzato di lavoro (bè, in realtà aveva più che altro ammazzato altri di lavoro, sogghignò) per non dovere mai più tagliare spese di nessun tipo. Non era il fatto di non poter avere qualcosa che lo irritava – Bowie aveva bisogni tutto sommato limitati – ma di non poterselo permettere se lo avesse voluto.
Per esempio non aveva mai nemmeno pensato di fare un viaggio in orbita (l’ultima moda per i super-ricchi), ma quando aveva scoperto di non poterselo permettere il suo umore era peggiorato sensibilmente. Detestava l’idea di non avere aperte infinite possibilità.
Si insaponò distrattamente. Gli sembrava che da quando aveva compiuto quarant’anni tutte le vecchie ferite gli facessero male molto più di frequente.
Il gomito che si era fratturato a nove anni, per esempio, non si limitava più a infastidirlo quando pioveva, ma anche tutte le volte che giocava a tennis. Certo, Bowie giocava a tennis forse due volte all’anno, proprio quando ci era costretto, ma non gli piaceva che il suo gomito gli desse dei problemi in quelle occasioni.
Avendo un incarico di facciata in una grossa holding assicurativa era praticamente costretto a partecipare di tanto in tanto a un’occasione sociale. E nelle occasioni sociali si finiva sempre per giocare a golf o a tennis.
Il golf non gli dispiaceva. Ovviamente aveva una certa facilità a buttare le palline in buca. Ma non poteva sopportare il tennis. La sola idea di infilarsi un paio di ridicoli pantaloncini bianchi lo faceva rabbrividire. Però non poteva rifiutarsi.
Un gomito acciaccato avrebbe potuto essere una buona scusa per non partecipare, se non fosse stato che un assassino che è troppo male in arnese per giocare a tennis non avrebbe fatto una buona impressione.
Anzi, davano tutti per scontato che saltellasse come un acrobata e non perderdesse una palla. Per quegli imbecilli del consiglio d’amministrazione il fatto che una stupida pallina gialla fosse una cosa completamente diversa da un bersaglio in movimento era un concetto troppo complicato.
Così Bowie, per dimostrare a degli incompetenti di essere un bravo assassino, aveva dovuto prendere lezioni private di tennis da un professionista. Quando era diventato abbastanza bravo, poi, aveva anche dovuto uccidere il professionista. Gratis.
Uscì dalla doccia e si avvolse in un accappatoio, circondato da una nube di cattivi pensieri. La mattinata era iniziata in modo pessimo, ed era tutta colpa della stupidità della gente.
Davvero, in mattinate come quella Bowie avrebbe ucciso l’intera umanità anche gratis.
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Anche gratis? Pensò accendendo il computer, di ritorno dall’incontro con il contabile. Dannazione, anche se avesse dovuto pagarsi le munizioni da solo!
Il suo patrimonio personale era sostanzialmente ridotto del 5% rispetto all’ultimo controllo.
Avrebbe dovuto saperlo. Quanti contratti aveva accettato dall’inizio del mese? Tre? Quattro?
Adesso non ricordava. C’era stato un affarista sudafricano… un marito troppo opprimente (statunitense, ovvio)… quella ragazza dell’associazione per l’aborto libero… e poi?
Ah, giusto. Un senatore filippino.
Sì, quattro. Be’, l’anno prima, nello stesso periodo, aveva trattato per un lavoro collettivo con una famiglia mafiosa. Dieci, quindici vittime. Ma ormai le famiglie mafiose erano tutte allo sbando. I vecchi erano quasi tutti in carcere, e i giovani pensavano che fosse più intelligente assoldare manodopera sudamericana a basso costo, piuttosto che rivolgersi a un serio professionista. Così finivano in carcere anche loro.
Bowie controllò la propria casella di posta elettronica e buttò nel cestino le solite valanghe di spam.
Dio, no, non voleva comprare del Viagra… e no, non gli interessava avere un Rolex falso… e, ovviamente, non avrebbe aperto nessun allegato. L’aveva fatto una volta, distrattamente, e il computer gli si era impestato di virus.
In mezzo a tutte le e-mail indesiderate ne notò una che sembrava interessante.
Sì, era un cliente che chiedeva informazioni, molto circospetto. Bowie gli rispose in modo altrettanto circospetto, rendendo la sua e-mail irrintracciabile e fornendogli un numero telefonico sicuro.
Dopo aver spedito l’e-mail si stiracchiò sulla sedia (la sua colonna vertebrale emise un sinistro crock) e decise che tutto sommato la mattinata poteva andare peggio. I possibili nuovi contratti lo mettevano sempre di buon umore.
Passò nell’altra camera e chiamò Anton con l’interfono.
Il suo luogotenente, alto, largo di spalle e biondiccio, arrivò con la consueta celerità.
«La nostra ospite ti ha fornito un elenco, giusto?» chiese, senza preamboli.
«Sissignore. Di quasi due pagine».
Bowie sorrise freddamente. «Posso leggerlo?».
«Naturalmente, signore». Anton si infilò una manona nel risvolto della giacca ed estrasse due fogli piegati assieme. Lo passò a Bowie.
«Vestiti… libri… Dio mio, ha intenzione di stabilirsi qua? Cereali… ceretta… tazza di Paperino?
Cioè se non è di Paperino non la vuole?».
«Così sembrerebbe, signore».
«Santo cielo… Be’, e le hai procurato tutto?».
Anton sembrò vagamente in imbarazzo. Considerato che era uno dei killer più promettenti della
“nidiata” che Bowie stava crescendo la cosa era abbastanza strana.
«Non proprio. Voglio dire… non ho idea di che cosa sia un rabbit».
Bowie lo guardò vagamente divertito (appena una contrazione al lato destro della bocca) e sollevò entrambe le sopracciglia.
«Un vibratore, Anton. Un vibratore con un pezzo apposta per il clitoride… oh, be’… ne farà a meno. Ben fatto, puoi andare».
Non appena Anton uscì dalla stanza Bowie si concesse una breve risatina ilare. «Un rabbit…»
mormorò, asciugandosi gli occhi.
Bene, tutto sommato poteva essere il momento di fare questa benedetta intervista.
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Aprendo la porta la trovò rannicchiata sul divano che scriveva su un blocco a gran velocità. Il micro-appartamento si era riempito di ogni genere di ciarpame, per di più in disordine, e Blanche sembrava molto più a suo agio del giorno prima.
Indossava una semplice t-shirt a maniche lunghe bianca e un paio di fuseaux da palestra rossi. Non aveva né calze né scarpe e i suoi capelli erano come appallottolati in cima alla testa, con ciocche che sfuggivano da tutte le parti.
Alzò lo sguardo verso di lui e poi scrisse ancora un paio di parole.
«Si faccia un po’ di spazio su quella poltrona» gli disse, mentre si allungava per cercare qualcosa dietro lo schienale. Bowie seguì attentamente ogni movimento delle sue mani, preparandosi a saltarle alla gola al minimo segno di pericolo. Si trattava di un registratore portatile.
«È riuscita a trasformare questo posto in una discarica in meno di tre ore» commentò, spostando un cumulo di biancheria da una poltrona. Si sedette trasferendosi il cumulo sulle ginocchia e iniziò a giocherellare distrattamente con vari pezzi di abbigliamento.
«Non ho avuto tempo di sistemare tutto» si giustificò in tono blando lei. Non sembrava per niente innervosita dal fatto che lui stesse guardando in controluce uno dei suoi reggiseni. Bowie lasciò perdere la biancheria e si concentrò su di lei.
Blanche accese il registratore e gli chiese di parlargli un po’ della sua infanzia.
Bowie si strofinò il mento.
«Sono nato a Los Angeles. I primi tempi li ho passati in un orfanotrofio, poi, verso i dodici anni, sono scappato. Ho vissuto per strada o in edifici abbandonati fin verso i quattordici anni».
Inclinò la testa da un lato, come per ricordare meglio. «Ho passato la frontiera e sono stato per due anni in Messico. Di lì sono andato in Europa. Avevo già iniziato a lavorare, ma in Europa mi sono specializzato. Ho abitato per cinque anni a Parigi, ma ho avuto modo di vedere quasi tutte le grandi città europee. Londra, Barcellona, Roma, Vienna… ho girato parecchio».
Fece un gesto con la mano, come a dire che non aveva molto da aggiungere. «Dopo mi sono trasferito nell’Africa del Sud. Altri quattro o cinque anni. Hutu e Tutzi… questo genere di cose.
Poi… be’, a quel punto avevo già venticinque anni e non credo che si possa ancora considerare infanzia».
«Molto schematico, signor Noyle» argomentò Blanche, dal divano. «Credo che non sarebbe male sapere qualcosa di più. Il suo nome, per esempio, “Bowie” Noyle. Si chiama davvero così?».
«Il mio nome non comparirà sull’articolo».
«No, certo. Lei si limiti a rispondere. A come scrivere ci penso io».
Bowie si strinse nelle spalle, senza darle altre soddisfazioni. Dio, se riusciva ad essere irritante quella donna.
«Mh. Sul mio certificato di nascita c’è scritto solo: Little Noyle. Bowie è un nomignolo che mi hanno dato nel barrio».
«Nel barrio?».
«Los Angeles Est, se preferisce. El Barrio».
«Sì ho presente. Ma mi chiedevo che cosa ci facesse lei lì. Non è un quartiere ispanico?».
Bowie contrasse la bocca in una specie di smorfia di rassegnazione.
«L’orfanotrofio da cui sono scappato era vicino a El Barrio. Forse i miei genitori venivano di là. O
forse no. Non sembro ispanico. Occhi blu… be’, blu scuro, una specie, insomma. Pelle bianca… ma al sole mi abbronzo velocemente, quindi… perché no? Potrei anche essere ispanico».