Si eleva a 24 metri sul livello del mare; semplici alture tengono luogo di catene di monti, numerosi corsi d’acqua tengono luogo di fiumi, ma i più durante la stagione calda lasciano il letto completamente asciutto. Ha però magnifiche foreste che potrebbero somministrare eccellenti legnami da costruzione, una graziosa vallata con pascoli al nord-est dove finisce in una tranquilla baia. Vedute pittoresche rendono piacevole il soggiorno su quel lembo di terra, che ogni giorno acquista più importanza grazie le scoperte di vene di carbon fossile che si trovano in gran numero, specialmente nelle vicinanze dei fiumi.
Gl’indigeni non sono numerosi e sono tanto stupidi, che illusi dalla presenza degli stranieri e da regali di due soldi, si sottomisero al velenoso giogo inglese che lentamente ma sicuramente andrà decimandoli per isbarazzarsi di esseri che potrebbero un giorno dar noia alla giovane colonia.
Fu nel 1846, 24 dicembre, che il capitano Rodney Mundy comparve pel primo a bordo dell’Iris e che ne prese bellamente possesso, dopo di avere spaventati i nativi facendo tuonare le sue artiglierie, come volesse mostrare a quegli esseri semplici la potenza del leopardo inglese. Ed essi, dopo le danze d’onore e una festa si sottomisero senza alzar una sola arma in difesa della terra natia.
Da quel tempo gli Inglesi vi avevano fondato la cittadella di Vittoria e si affrettavano a lanciare in mare vapori di ferro per reprimere la pirateria flagello di quei disgraziati mari. Sandokan non lo ignorava, no, ed era anzi per questo che voleva prendere terra nel fondo di qualche canale, di qualche seno al sicuro da improvvisi attacchi per poter poi agire a suo bell’agio.
I due prahos, dopo di aver fiancheggiato per breve tratto la costa coperta da fitti alberi, in mezzo ai quali torreggiava qualche tek, navigando lentamente e con estrema prudenza per non dar sospetto a qualche colono che battesse i dintorni, si cacciarono silenziosamente in un piccolo fiume, che alla foce avevasi scavato poco a poco un seno semi-nascosto da piante palustri.
Le âncore furono gettate con buona riuscita su di un fondo sabbioso, le vele ammainate senza far rumore come lo dovevano due visitatori che volevano mantenersi incogniti, e i prahos spinti verso la riva destra, nascondendoli del tutto sotto l’ombra dei grandi alberi e dei canneti, che fiancheggiavano una piccola palude di due o trecento metri di estensione. Un incrociatore che avesse battuto la costa, non sarebbe riuscito a scoprire quei due legni pirateschi che si tenevano imboscati come le tigri nel delta del Gange che spiano, sotto le grandi foglie acquatiche, la preda.
Sandokan e Patau sbarcarono, mentre che il restante dell’equipaggio rimaneva a bordo rigorosamente consegnato. Bisognava agire più che prudentemente per affrettare i piani del formidabile capo, che già contava non solo di veder la Perla, ma di mettere a ferro e fuoco se non tutta almeno una parte dell’isola.
Armati entrambi di carabine indiane e di scuri, i due pirati s’internarono senza dir verbo sotto la foresta, che lasciava qua e là qualche varco, tracciato talvolta dalla mano umana ma il più dalla naturale disposizione delle piante, che si rizzavano in mille guise differenti, ora ritte, ora inclinate e talvolta contorte come giganteschi serpenti.
Sandokan guidò il Malese per un duecento passi sotto la foresta, come conoscesse di già il cammino, poi si arrestò ai piedi di un durion colossale le cui frutta pericolose per le cadute che il più delle volte riescono mortali per l’incauto che vi passa sotto, si agitavano leggermente sotto uno stormo di tucani dal becco colossale, che parevano affaccendarsi nella costruzione dei loro strani nidi.
— Ascolta, Patau — diss’egli. — La vicinanza di nemici, che godono fama di possedere potenti navi e potenti congegni di distruzione, non ti nasconderò che mi inquieta per Mompracem, la mal difesa isola che non saprebbe resistere dinanzi ai loro cannoni, e che è d’uopo ci rimanga. L’intenzione di queste giacche rosse dacché si sono stabilite su questi malaugurati mari, è evidente che mira a portare un colpo fatale alla pirateria; fuggono la nostra presenza, ma spiano e cercano di tagliarci la ritirata invadendo i nostri selvaggi covi.
— Lo so — rispose il Malese. — Mompracem è troppo vicina a Labuan, offre troppe mire per quei ladri di terre, e un dì o l’altro non mi meraviglierei che una intera flotta si presentasse dinanzi al villaggio e cominciasse una danza infernale a suon di cannone.
— È ciò che vado pensando anch’io da vario tempo. Vedi, la presenza di questo incrociatore, che fuma silenziosamente su queste onde, non mi rassicura punto riguardo alle sue intenzioni che puzzano di polvere cento miglia lontano. È d’uopo che uno di noi, Mompracem o Labuan, abbia a cedere le armi al più forte. Spenta la pirateria, la Malesia sarà morta.
— Se io rimanessi in vita — disse Patau senza commuoversi, — agirei prontamente. La colonia va crescendo di giorno in giorno, grazie alla scoperta del carbone che attira maledettamente tutte le navi da guerra dei dintorni; oggi è un pugno di uomini che l’abitano, domani saranno due, da qua un anno cento. Le difficoltà allora saranno cento volte raddoppiate, le mosse difficili sotto l’occhio degli incrociatori e poco a poco la pirateria cadrà.
Sandokan rimase colle braccia incrociate a mirare il Malese, come per commentar le sue parole che trovava più che giuste, poi ripigliò la via senza smascherare l’audace progetto che lo rodeva.
Patau lo seguì, cacciandosi come il padrone sotto cespugli spinosi dove vi era pericolo di lasciarvi mezze vesti, tendendo l’orecchio per raccoglier ogni estraneo rumore e coll’occhio in guardia sulle piante vicine, dove poteva darsi che qualche tigre se ne stesse imboscata aspettando la preda al varco o che qualche serpe si dondolasse da qualche ramo pronto ad avviluppare il primo venuto e stritolarlo tra le vischiose anella con una di quelle strette cui non resistono forze umane. Per mezz’ora quei due uomini proseguirono il difficile cammino senza scambiare una sola parola, poi Sandokan tornò ad arrestarsi facendo cenno al compagno di tacersi. Aveva udito lontano un abbaiar di cani che sembravano seguire qualche pesta di selvaggina e che andavano rapidamente avvicinandosi, ed a cui talvolta univasi uno squillo di tromba.
— Vi sono degli uomini che cacciano — disse Sandokan dopo di avere ascoltato attentamente. — Si vede che questi dannati Inglesi non perdono tempo. Sono sicuro che cacciano le ultime tigri sfuggite alle armi degli indigeni; ovunque è distruzione dove passa l’avvelenato loro soffio.
— Ma dove andiamo? — chiese Patau che non comprendeva lo scopo della passeggiata.
— Dove vuoi che andiamo, se non si va in cerca della Perla?
— Ma questi uomini? Io credo che mostrarci sia pericoloso.
— Potrebbe darsi, Patau. Ma a noi occorrono notizie per sapere dove si trova questa Perla e come vanno le faccende della colonia. Tiriamo innanzi. I due pirati, anziché battere prudentemente in ritirata, si riposero in cammino dirigendosi verso il luogo dove udivasi squillare la tromba e abbaiare i cani.
A poco a poco gli alberi poco prima strettamente uniti, cominciarono diradarsi dando luogo a praticelli e a radure cespugliose in mezzo alle quali s’innalzavano gran numero di piante di pepe, che avviticchiandosi ai rami degli arenga e degli artocarpus, formavano grandi reti vegetali e festoni ricadenti, dove garrivano leggiadri uccelletti e svolazzavano battaglioni di lucertole volanti.
I latrati dei cani si udivano allora tanto vicini che i due pirati, temendo essere scoperti, si nascosero dietro ad un aloé la base del cui tronco spariva fra gigantesche erbe.
Quasi subito apparve un indigeno in calzoncini bianchi, tenendo a guinzaglio un grosso mastino che ringhiava fiutando la terra.
— Ecco il mio uomo — disse Sandokan all’orecchio di Patau. — Non farti vedere, Malese mio; non all’armiamo questo stupido schiavo delle giacche rosse, questo schifoso rettile, questo miserabile più codardo di tutti i popoli della Malesia.
Gettò al Malese la carabina e si cacciò fra i cespugli circostanti senza far rumore e in maniera di abbordare il selvaggio di fronte. Alla sua improvvisa comparsa il bracconiere si arrestò tra il sospettoso e lo spaventato.
— Che vai cacciando, sulle mie terre? — domandò brutalmente Sandokan piantandosi dinanzi a lui e vibrando un potente calcio al mastino che gli abbaiava contro.
— La tigre — rispose l’indigeno.
— Chi è questo furfante che si permette di calpestare i miei campi?
— Lord Haawen.
— Ah! — fe’ Sandokan ghignando. — Una giacca rossa. La colonia comincia adunque ad avere certi signori che si permettono di cacciare sulle terre altrui?
— Non sono di loro le terre? Gli antichi padroni sono morti.
Sandokan tornò a sogghignare ma con quel sogghigno crudele che faceva rabbrividire e parve che volesse fulminare il selvaggio colla potenza dei suoi occhi.
— Ah! — esclamò il pirata. — Tu rimpiangi adunque l’istante in cui l’Iris si mostrò su queste coste e che i tuoi accolsero danzando?
— Forse.
Sandokan si passò la mano sulla fronte e stette per qualche istante in silenzio come pensasse. Poi guardando fisso fisso il selvaggio:
— Odimi bene, maledetto schiavo — gli disse. — Sai tu che la colonia fu condannata ad essere distrutta da un uomo potente, la cui sua comparsa basterebbe per incutere spavento?
— No, stenterei d’altronde a crederlo.
— Nemmeno se quest’uomo si chiamasse...
Egli s’arrestò bruscamente mordendosi le labbra.
— Chi?...
— Silenzio — disse il pirata ponendosi un dito sulle labbra. — Silenzio! Dimmi ora, hai mai udito parlare della Perla di Labuan?
— E chi, in Labuan, non ne avrebbe udito parlare?
— Chi è?
— Un genio benefico, che nulla ha di comune colle giubbe rosse.
— La conosci tu, questa Perla?
— Sì, l’ho veduta.
— Dove abita?
— A un miglio da questo luogo — rispose il selvaggio.
— Potrei vederla io?
— Sì, lo potreste.
— Indicami il modo.
— Basterà che vi nascondiate dietro qualche albero del parco. Tutte le mattine va a passeggiare al chiosco chinese.
Una vampa inesplicabile salì in volto al pirata. Trasse un pugno d’oro e lo diede al selvaggio che lo guardò istupidito.
— Grazie, amico — gli disse. — E ora va... va, e non volgerti più mai indietro.
Il selvaggio se ne andò correndo. Sandokan aspettò che fosse abbastanza lontano da non vederlo più, poi ritornò presso il Malese che lo aspettava impazientemente.
— Ebbene? — chiese Patau.
— Tutto va bene, tigrotto — rispose Sandokan. — Domani vedremo la Perla.
— E le giacche rosse?
— Sono più forti di prima.
— Ah! — esclamò il Malese sospirando. — I bei giorni sono finiti.
— Crederesti tu che la Tigre avesse paura? Cento leoni sarebbero pochi per incatenare la gran Tigre. Ritorniamo, Malese.
Sandokan raccolse la carabina e si diresse verso la costa seguito da Patau. Non avevano ancor percorso cento metri, che un colpo di cannone rombò verso l’alto mare.
La Tigre della Malesia cacciò fuori un ruggito come di belva ferita, poi precipitossi verso la foresta agitando come un forsennato la carabina.
— Vieni, Patau! Vieni! — gridò egli, facendo salti da tigre. — Vedo del sangue!
I due pirati in cinque minuti attraversarono il lembo della foresta e giunsero al fiumicello. Nel medesimo tempo un secondo colpo di cannone rombò sul mare, e in mezzo a un denso fumo che volteggiava nell’aria assieme a scintille, fu veduto il fumante incrociatore che moveva a tutto vapore verso la costa, sbarrando la ritirata ai legni da preda!