I pirati di Mompracem-1

2022 Words
I pirati di Mompracem All’indomani, ancor prima che le sei fossero uonate, Sandokan e il Portoghese erano in piedi, sorseggiando una tazza di the, che un garzone dalla tinta giallognola aveva loro preparato. — Ebbene, Sandokan — disse il Portoghese, — sei ancora fermo nella tua idea? — Fermissimo, fratello mio — rispose il pirata. — E lasciarti tu sfuggire una sì bella occasione, d’abbordare dei prahos carichi di mercanzie preziose, pel capriccio di recarti a Labuan? — Oibò! Non aver paura, Yanez. L’interesse innanzi tutto. — Sicché, daremo la caccia ai due legni? — Certamente. Dove vedo sangue, e dove c’è occasione di fiutare polvere, ci corro. — Per poi andarti a far assassinare a Labuan? Ah! Sandokan, tu tronchi il mio sogno di andar a finire la mia vita in una città dell’oriente. — Pueh! — fe’ il pirata alzando sdegnosamente le spalle. — Che belle idee d’avventuriero. — Cospetto! Vorresti tu che una volta tanto ricco da sfidare la miseria, me ne restassi ancora a Mompracem, come un sorcio in trappola? — In tal caso, non prenderai parte alla spedizione. Non vedrai questa Perla, e potrai continuare i tuoi sogni. — Eh! Non lo pensare nemmeno, Sandokan. — La Perla ti attira adunque? — Niente affatto. Ma lasciarti partire senza di me, sarebbe metterti la corda al collo per appiccarti. Senza la mia prudenza a quest’ora saresti morto le cento volte. — Lo credi? — chiese la Tigre con tono incredulo. — Sì, perdio, che lo credo. — Ed io niente affatto. — Perché, di grazia? — Perché?... Perché io sono invulnerabile!... — Tu vuoi burlarmi, Sandokan. — Zitto là, fratello mio. I prahos, non sono d’umore di aspettare che tu finisca i tuoi discorsi. Prendi la tua carabina e scendiamo al villaggio. I nostri tigrotti, mi pare di vederli, s’impazientano. Hanno sete e sete di sangue. Il Portoghese cacciò fuori un sospirone, e maledicendo in cuor suo la Perla di Labuan, staccata dalla parete una pesante carabina, seguì la Tigre di già uscita. L’uragano era del tutto cessato, lasciando solo qualche nube sull’orizzonte e le traccie del suo passaggio nelle foreste dell’isola. Il sole, sciolti gli ultimi vapori, brillava all’oriente colla solita fulgidezza, versando torrenti di fuoco nel mare ancor agitato dai soffi della notte, e sulle verdeggianti pianure, in mezzo alle quali scorrevano numerosi ruscelli e torrenti, che parevan filoni d’argento liquido, scesi da miniere inesauribili. I due pirati scesero la tortuosa scala, e si diressero verso la spiaggia, presso la quale prahos d’ogni dimensione e in completo armamento da guerra, danzavano all’âncora. La loro comparsa fece uscire dalle capanne del villaggio tutti i pirati che le abitavano. Essi corsero come un sol uomo a schierarsi dinanzi ai due capi presentando colle loro cento divise e le loro cento tinte, uno spettacolo bizzarro. Vi si vedevano in mezzo dei Cinesi dalla tinta gialla come poponi col pen-sse(1) nazionale; Indiani dal capo rasato, cui una continua vita di pericoli aveva dato loro una certa dose di coraggio del quale mancano generalmente i loro compatrioti; dei Malesi dalla statura bassa, ma membruti e robusti, dalla faccia quadra, piatta, ossuta, a tinta fosca; dei Battiassi di una carnagione fuliggine chiara e ancor più piccoli ma forse più robusti e che al coraggio aggiungevano ferocia d’antropofagi; dei Lampunghi non molto dissimili dai Cinesi; dei Negritos d’orribile struttura e dalle teste enormi, e un miscuglio di Giavanesi dai piacevoli lineamenti, di Daiassi del Borneo sanguinarissimi, dei Bughisi, di Macassaresi e infine dei Tagali delle Filippine. Erano più di duecento uomini, duecento tigrotti raccozzati in tutte le terre della Malesia, senza scrupoli e senza religione, ciechi istrumenti della terribile Tigre della Malesia, cui una parola sola bastava per magnetizzarli, e una sola minaccia per farli tremare, mentre che dinanzi alla mitraglia e ai moschetti non avevano mai tremato! Sandokan gettò uno sguardo di compiacenza sui suoi tigrotti, come amava chiamarli. — Ehi! Patau, salta innanzi — diss’egli. Un uomo di bassa statura, ma dalle forme di una robustezza eccezionale, un Malese che fino dai primi anni aveva fiutato la polvere di cannone sui prahos pirateschi, si staccò dalla banda e si fece innanzi con un dondolamento di lupo di mare. — Sei tu, se non m’inganno, che vorresti vedere la Perla di Labuan? — chiese la Tigre. — Sì, capitano — rispose il Malese. — Sei tu, che ti lagni sempre di aver sete di sangue? — Sì, Tigre della Malesia. Il tuo tigrotto ha sempre sete. — Sta bene. Armerai due dei più rapidi prahos. Ti voglio accontentare. Il Malese non aveva ancora ascoltato l’ultima parola che già volava, tirandosi dietro con un fischio mezza banda. In meno che non si dica i due più rapidi legni si trovavano pronti a sciogliere le vele. — Bene — disse la Tigre, che non faceva a meno d’ammirare con legittimo orgoglio i suoi uomini. — Tutti sono smaniosi di andare a Labuan a vedere questa Perla; per Allah! danzeranno tutti al tuonar dei cannoni! Vieni, Yanez. Nel momento che i due capi stavano per dirigersi alle imbarcazioni amarrate sulle sabbie, un indigeno dalla tinta nera come l’inchiostro, dalle labbra grosse come quelle degli africani, il naso stiacciato, gli occhi torvi e brillanti come quelli di una civetta, sbucando dalle foreste circostanti, avvicinossi a loro. — Oh! l’orribile mostro! — esclamò Yanez segnalandolo al suo compagno. — Ah! sei tu, Nini Balu? — disse Sandokan arrestandosi. — Mi hai l’aria, di portarci qualche novità. Su, cattiva creatura, sciogli la tua lingua da vipera. — Un sospiratore affannato fuma in vista dell’isola — rispose il selvaggio. Sandokan aggrottò la fronte, e portò involontariamente una mano sull’impugnatura del kriss. — Tu vuoi dirmi che un incrociatore bordeggia al largo? Il selvaggio fece un cenno affermativo col capo. — Che fa questo vascello? — chiese la Tigre con voce rauca. — Ci spia. Non fidarti, Tigre, di quella bestia nera. Ha un malefizio nel ventre. Sandokan non rispose. Egli mirò distrattamente e per alcuni istanti l’onda che veniva a morire quasi ai suoi piedi, poi volgendosi bruscamente verso Yanez: — Hai udito, fratello? — domandò egli. — A meno di non essere sordo, sicuramente — rispose il Portoghese. — Yanez — disse gravemente il pirata, — quel fumante incrociatore non mi dà a pensare, finché io batto il mare. Ma tu sai quanto il mare sia ampio, e quanto sia facile perdere di vista il nemico; finché io lo cerco, potrebbe piombare sull’isola e dar fuoco al nostro covo. Ora occorre un uomo di ferro per impedire che si bombardi il villaggio. Tu rimarrai. — E tu? — domandò il Portoghese. — In quanto a me proseguo la via che mi son fissato di tenere. Andrò, se mi si offre il destro dopo la presa dei legni, non solo a veder la Perla, ma a bombardare Vittoria, la città di Labuan. — Ti occorrono venti prahos per lo meno, Sandokan. — Alla Tigre della Malesia basta il suo ruggito per ispaventare il leone — disse Sandokan fieramente. Poi si volse e fece un gesto a Patau, che avvicinossi come un lampo. — Quaranta tigrotti a bordo dei prahos — disse. — Bada che sieno tutti assetati. — Attaccheremo l’incrociatore? — chiese imprudentemente il Malese. — Ciò non ti riguarda, rettile. Spicciati, per Cristo! Il Malese si allontanò senza fiatare. Scelse quaranta dei più coraggiosi uomini, la maggior parte Daiassi, Malesi e Battiassi e li fece imbarcare a bordo dei due legni assieme a due cannoni di rinforzo. Sandokan tornò a volgersi verso il Portoghese, che sembrava pensieroso e di cattivo umore. — Suvvia! A che tenermi il broncio? — gli disse. — Avrai la tua parte di bottino lo stesso, lo sai bene. Vorrai dei prigionieri? Te li porterò. Vorrai sangue da bere? Te ne porterò una nave carica. Che vuoi di più? — Ah! Sandokan! Ho il presentimento che questa spedizione ti sia fatale. — Lascia i presentimenti alle femmine, Yanez. Orsù, i prahos mercantili non mi aspettano, lo sai. Addio, fratello. — Addio, Sandokan. Che la buona stella ti guidi. I due pirati si abbracciarono, come solevano far sempre quando intraprendevano una spedizione, dove non erano sicuri di tornar sempre. Poi la Tigre, colla testa alta, la carabina in mano, l’occhio acceso e le labbra contratte a un feroce sorriso, s’allontanò. Salì in una ricca imbarcazione, e in pochi colpi di remo raggiunse il suo prahos. Le âncore, in meno che nol si dica, furono strappate dal fondo e le grandi vele furono sciolte al vento da una squadra di diavoli color verde-oliva o nero fuliggine, che parevano dotati della potente agilità delle scimie. — Rotta per le Romades! — si accontentò di dire Sandokan, poi andò sedersi a prua sulla culatta del suo cannone favorito, con lo sguardo acuto, che avrebbe sfidato quello d’un’aquila, rivolto al sud. I due legni, coi quali la Tigre stava con la sua solita intrepidezza per intraprendere la caccia dei mercantili e di poi la spedizione sulle pericolose coste di Labuan, appartenevano a quella specie conosciuta nella Malesia sotto il nome di prahos o di pralì. Erano due legni bassi di scafo, di forma allungata e snella, più alti a poppa che a prua, e provvisti sottovento di bilanciere per impedire che una raffica improvvisa li rovesciasse e sopravento di un largo sostegno di bambù per la zavorra. Portavano vele della lunghezza di quaranta e più metri di forme allungate, composte di striscie di grossa tela di cotone dipinta, con pennoni tesi obliquamente, fatti di bambù strettamente legati con fibre di rotang, e alberi triangolari, grossi, un lato dei quali veniva formato dalla coperta del prahos. Avevano doppi timoni per meglio dirigerli, un casotto sul ponte chiamato attap, l’attrezzatura tutta di bambù, di rotang e di fibre di gamuti, e grossi cannoni a prua e spingarde dal lungo tiro, per poter gareggiare colle navi meglio armate. Al comando di Sandokan, i due legni pirateschi si affrettarono a prendere il largo descrivendo curve con matematica precisione per evitare le scogliere che fanno pericolosa corona all’isola, e bruschi angoli per non urtare contro le secche e i banchi madreporici. Una volta usciti da quel laberinto, quantunque il vento fosse un po’ debole, misero la prua al sud, guizzando e rimbalzando come palle elastiche sulle onde, filando senza darlo a vedere tre e quattro nodi all’ora, rapidità sufficiente per poter raggiungere i legni mercantili, che dovevano camminar assai meno. Tutti i pirati, benché la distanza fosse ancora ragguardevole dalle Romades, e nessuna vela apparisse all’orizzonte, si misero in osservazione, i più agili a cavalcioni dei pennoni per abbracciare maggior spazio e gli altri in piedi sulle murate, aggrappati alle sartie e alle griselle. Quaranta cannocchiali viventi, in pochi minuti, scrutavano i trentadue punti della bussola, spiando la preda non solo, ma anche il fumante incrociatore, verso il quale avevano qualche apprensione. Non era nemmeno da supporsi che avessero paura di esso o che temessero un incontro, malgrado la sproporzione delle forze. Avrebbe bastato che si fosse fatto vedere e che la Tigre ordinasse l’abbordaggio per espugnarlo. Solo avevano qualche timore che si unisse a qualche altro legno, e che sbarcasse improvvisamente soldati su qualche punto mal guardato di Mompracem. Anche la Tigre della Malesia pensava all’incrociatore, ma non si preoccupava tanto. Pure, volendo assicurarsi di ciò che pensavano i suoi uomini sulla probabile presenza di quel legno, chiamò Patau. Il Malese fu lesto ad accorrere. — Credi tu — chiese la Tigre, — che quel maledetto n***o non ci abbia ingannati? — E perché avrebbe voluto ingannarci? — disse il Malese. — Nini Balu è una creatura, che non sarebbe capace di trattare colle giacche rosse(2). Sono sicuro, per mio conto, che il sospiratore affannato spii l’isola colla speranza di ornare le sue antenne di impiccati. Le labbra della Tigre si piegarono a una smorfia, che voleva essere un sorriso. — Credi tu che i nostri uomini si preoccupino della presenza di questo legno? — Oibò — esclamò Patau con un’alzata di spalle. — Per preoccupare i tigrotti di Mompracem, guidati dalla Tigre della Malesia, occorrerebbero cento navi, e ancor queste sarebbero poche.
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