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KIM
Dev’essere successa una catastrofe. Il problema è che non ricordo niente.
La mia bocca sa di terriccio in decomposizione, sento una sorta di ruggito nelle orecchie e ho come la sensazione che dei piccoli rompighiaccio mi vengano ripetutamente conficcati nelle tempie.
In altre parole, sto di merda.
Cerco di aprire gli occhi, ma l’improvviso dolore accecante mi costringe a richiuderli immediatamente. Dove sono? Cos’è successo?
Sondando la mia memoria, cerco di capire dove e quando sono stata sveglia l’ultima volta. Niente da fare. A pensarci bene, nella mia memoria ci sono più buchi che ricordi reali.
Ieri sera deve esserci stata una festa pazzesca.
Provo ad aprire di nuovo gli occhi, questa volta con cautela. Sbattendo le palpebre furiosamente, piano piano mi abituo alla luce. Non è brillante come pensavo all’inizio.
Il soffitto sembra... insolito. Decorato. Alto. Molto, molto alto.
Dove diavolo sono?
Mentre mi sforzo lentamente di passare dalla posizione prona a quella seduta, mi afferro le tempie martellanti, sbatto di nuovo le palpebre e mi guardo intorno.
Mi sa che sto ancora dormendo. O sono svenuta. In ogni caso, sto sognando.
Non è possibile che mi trovi davvero dove mi sembra di essere.
In un harem.
Lo spazio è enorme, delle dimensioni della mia vecchia palestra della scuola. Ci sono colonne ornate a volute, cornici elaborate e tessuti trasparenti e leggeri in un arcobaleno di sfumature. Sfere luminose color pastello galleggiano ovunque, apparentemente per magia, inondando l’intero luogo di una bella luce rilassante. C’è un delicato profumo floreale, in netto contrasto con il sapore disgustoso che ho in bocca. L’intero posto sembra uscito da Le mille e una notte.
Comprese le donne.
Ce ne sono forse una dozzina o giù di lì, tutte vestite con abiti leggeri, svolazzanti e scintillanti di gioielli d’oro. Ma, guardando più da vicino, mi rendo conto che c’è qualcosa di veramente strano in loro.
Non sembrano... umane.
Sono alte; la più bassa è almeno più di un metro e ottanta. E la loro pelle... è forse vernice per il corpo? Verdi, lilla, blu, bronzo: i loro volti, le mani, i piedi presentano una gamma di colori tanto ampia quanto le tende che scendono lungo le pareti. Sono tatuate dappertutto, per quanto ne so, con colori sorprendentemente contrastanti, e hanno tutte capelli lunghi e dai colori vivaci, nelle diverse tonalità della loro pelle.
Ma che cavolo?
Una di loro mi nota e si avvicina. Si muove in modo strano. Più scivolando che camminando. Mentre si avvicina, urla qualcosa da sopra la spalla, e quel suono mi fa accapponare la pelle.
Non è inglese. Non è una lingua che io abbia mai sentito. Neanche lontanamente. Una serie di clic, miagolii e vocali lunghe e prolungate...
… eppure riesco a comprenderla, chiaro come il sole.
“È sveglia!”
Tutto sta iniziando a sembrare troppo realistico, per essere un sogno. Pietrificata sul posto, non posso fare altro che aspettare che la strana donna si avvicini a me.
È stupenda da vicino: la sua pelle è della più tenue sfumatura di blu e i suoi lunghi capelli mossi sono di un viola intenso. Gli occhi sono quasi felini e, quando sbatte le palpebre, noto le sue lunghe ciglia viola.
“Benvenuta ad Aurum!” dice.
“Cosa?” Mi sembra di parlare inglese, ma c’è qualcosa nella mia testa che mi fa storcere la lingua e produrre dei suoni incomprensibili con la bocca.
Sto davvero parlando nel suo dannato idioma, in questo momento?
Come?
“Aurum”, ripete, come se questo fosse solo un giorno normale e nella sua casa apparissero continuamente donne stordite e confuse.
“Cos’è?”
“Ulfaria”.
Forse non stiamo davvero parlando la stessa lingua.
“Lenah”, dice un’altra voce, e ora mi rendo conto di essere circondata dalle donne. Mi guardano tutte con un misto di stupore e curiosità. “Lei non è di qui. Non conosce i nomi dei nostri regni e del nostro pianeta. Sarà confusa, come ha detto il mago”.
Questo l’ho capito. Ma non ha attenuato neanche un po’ la vaga sensazione di stare andando fuori di testa. Regni? Pianeta? "Confusa" è un dannato eufemismo.
“Eh”, dice Lenah, presumo. Si avvicina un po’ a me. “Come ti chiami?”
Come mi chiamo?
L’ansia lieve che ho provato fino a questo momento si trasforma in un brivido di panico quando mi rendo conto che sto lottando per rispondere a questa domanda basilare. Non solo non so dove sono o come sono arrivata qui, ma, a quanto pare, non so nemmeno chi sono.
“Omega” è l’utile risposta fornita da un’altra ragazza.
Scuoto la testa. Non è sicuramente quello il mio nome.
“Omega”, concorda Lenah. “Una volta che il siero ha iniziato a funzionare. Hanno detto che ci sarebbe voluto un po’ di tempo”.
Siero?
Decidendo di averne abbastanza, mi pizzico l’interno del polso così forte che il dolore mi fa sussultare.
All’unisono, anche le donne si ritraggono e sussultano.
E… sono ancora qui. Quindi non sto sognando.
Cazzo! Cazzo! Cazzo!
Mi schiarisco la voce, chiedendomi cosa potrei dire. Ho così tante domande. Portatemi dal vostro capo forse sarebbe pretendere troppo, ma in realtà c’è una piccola parte di me che si domanda se non solo io non sia a casa, ma se, in questo momento, non mi trovi nemmeno sulla Terra.
Ma è semplicemente folle. Non credibile. Non realistico. Non possibile.
Kim! Il nome mi viene in mente in un lampo e lo riconosco come mio. Grazie a Dio! È un inizio. Mi schiarisco la gola.
“Mi chiamo Kim. Qualcuno, per favore”, comincio lentamente, “potrebbe spiegami dove sono e perché sono qui. Questa è la Terra, giusto? Siamo ancora sulla Terra?” Tanto vale togliere di mezzo la domanda più pressante, prima.
La seconda ragazza, che è di una splendida sfumatura di turchese, mi lancia uno sguardo di sincera pietà. “No”, risponde. “Questa è Ulfaria. La Terra è il tuo pianeta. Ulfaria è il nostro”.
“Siamo su un altro pianeta?” La mia voce si incrina sull’ultima parola. Riesco a malapena a credere a quello che sto dicendo... oltretutto in una lingua aliena.
“Sì. Questo è Aurum, il regno più grande di Ulfaria”.
“Perché”, deglutisco, “mi avete portato qui?” Almeno adesso stiamo avendo una conversazione che posso capire, anche se faccio fatica a crederci.
“Per il re Aurus”, Lenah prende il posto della ragazza turchese. “Ha bisogno di un’omega. Sarai la sua omega”.
Alla faccia del comprendere la conversazione! “Non sono un’omega”, dico alla fine. “Io sono un essere umano. Sono un essere umano e vorrei andarmene”. Non so dove, ma sarebbe preferibile un posto diverso da questo. L’harem, le donne bellissime e ora anche la notizia che vogliono darmi a un re mi rendono seriamente nervosa.
Cosa c’è di peggio che svegliarsi su un pianeta alieno?
Svegliarsi su un pianeta alieno e sentirsi dire che diventerai il giocattolo di un re alieno.
“Ti hanno dato un siero”, dice la ragazza turchese. “Ti trasformerà in un’omega”.
Contraggo involontariamente la gola e comincio a soffocare. “Potrei avere qualcosa da bere?” riesco a chiedere, tra un colpo di tosse e l’altro.
Una delle altre ragazze scivola via; poi torna e mi porge un calice luccicante con dei gioielli incastonati, pieno di un liquido scuro. Lo tracanno d’un fiato. Non ha un sapore troppo cattivo; è un po’ dolce, con un pizzico di spezie. È rinfrescante e mi toglie l’orribile sapore in bocca. “Ancora, per favore”, la supplico, tendendo il calice vuoto come se chiedessi l’elemosina.
Mentre la ragazza va a prendermi un altro drink, prendo fiato, cercando di rimanere più calma possibile.
“Mi chiamo Kim”, dico, indicando il mio petto.
“Kim”, le donne ripetono in coro, all’unisono. Inquietante.
“Sono Juno”, dice la ragazza turchese. “Dobbiamo prepararti”.
“Prepararmi per cosa?” Forse non avrei dovuto chiederlo.
“Per incontrare il re Aurus. Non vede l’ora di vederti”.
“Niente cazzate”, mormoro, e mi alzo in piedi lentamente, incerta. Mi viene di nuovo offerto il calice e lo scolo ancora una volta, chiedendomi se abbiano dell’alcol su questo pianeta. Di certo mi sento stordita.
Le ragazze si scambiano degli sguardi, poi Lenah riprende il comando. “Spogliati”, dice prepotentemente. “Il bagno è già pronto”.
Sono combattuta. Mi sento appiccicosa per la paura, e stare nell’acqua mi ha sempre calmata e radicata, ma non ho intenzione di essere preparata per il re come una vergine sacrificale. “Mostrami dov’è il bagno”, dico, “e mi farò il bagno da sola”.
Lenah emette uno sbuffo e un paio di altre ragazze ridono. “Ti faremo noi il bagno”, dice con fermezza e, un momento dopo, vengo afferrata per le braccia e trascinata via.
Sono almeno trenta centimetri più bassa della maggior parte di queste donne, e più snella, ma non gliela rendo facile, piantando i talloni a terra e sputando maledizioni al loro indirizzo per tutto il tragitto.
Sembrano impassibili mentre mi trascinano verso una porta, nascosta dietro una tenda, che non avevo notato. Si apre come per un comando invisibile, e poi il mio viaggio senza cerimonie continua fino a quando non arriviamo a un’enorme vasca di bronzo, completa di acqua profumata che fuma lievemente e di quelli che sembrano petali di fiori, sparsi sulla superficie.
“Ti svesti o dobbiamo aiutarti?” chiede Lena.
“Posso spogliarmi da sola!” Mi sforzo di non digrignare i denti. Guardando in basso, vedo che indosso pantaloncini di jeans al ginocchio e una canotta nera decorata con una E maiuscola rovesciata. I miei piedi sono nudi. Non porto gioielli, orologio, niente, ma, quando mi abbasso i pantaloncini, c’è il tatuaggio di un colibrì sulla parte esterna della coscia destra.
“Puoi darci i tuoi vestiti”, dice gentilmente Juno, tendendo la mano. Sembra più amichevole di Lenah. “Ci penseremo noi a buttarli”.
“No!” Per qualche ragione, dopo tutto ciò che è successo, il pensiero di perdere le ultime cose della Terra che mi sono rimaste mi fa sgorgare lacrime dagli occhi. “Vi prego, permettetemi di tenerli”.
Segue una pausa, durante la quale avviene uno scambio muto tra Lenah e Juno.
“Li faremo lavare e poi te li restituiremo”, dice infine Lenah.
“Grazie”.
A quanto pare, non sono molto pudica: non mi imbarazza restare nuda di fronte a queste donne, come potrebbe succedere a una ragazza timida. Una volta tolti i pantaloncini e il top, sgancio il reggiseno sportivo bianco e lo porgo a Juno; poi mi sfilo le mie semplici mutandine di cotone e le metto in una piccola pila ordinata sopra i vestiti che ha già in mano.
“Non molto femminile”, osserva una delle donne in un sussurro ben udibile. “Ha un corpo simile a quello di un ragazzo”.
“Non piacerà al re Aurus”, dice un’altra.
“Riesco a sentirvi”, dico ad alta voce, entrando nella vasca e resistendo all’impulso di lanciare loro un’occhiataccia. Ma quelle parole mi fanno capire una cosa: se non posso evitare di incontrare il re, forse posso rendermi poco attraente ai suoi occhi. Dopo essermi immersa nell’acqua con un sospiro, appoggio la schiena e lascio che il liquido caldo mi circondi, mentre chiudo gli occhi. Solo per un secondo, in cui fingo di essere tornata sulla Terra e di trovarmi in una vasca, nell’attesa di gustarmi un po’ di gelato e di guardare un film.
E poi quel momento viene rovinato.
“Ha troppi peli sul corpo”, dice una.
“Verranno rimossi dopo il bagno”. La voce sembra quella di Lenah.
“Riesco ancora a sentirvi”, dico, lanciando un’occhiata a Lenah. Ha l’accortezza di distogliere lo sguardo.
Guardo il mio corpo nudo, che è perlopiù celato dall’acqua opaca e dai petali che galleggiano in superficie. Sarà anche vero che non mi raso le gambe da un po’, ma il mio pube è ben curato e non sono affatto simile al gorilla peloso che mi stanno facendo sembrare. Come faranno a rimuovermi i peli? Esiste una specie di ceretta aliena? Non che sia importante. Non ho intenzione di lasciarglielo fare.
Ultime famose parole: poco dopo, mi ritrovo ricoperta da una pasta appiccicosa e profumata e mi viene strappato anche l’ultimo pelo dalla radice, finché non sono liscia e morbida come la seta dal collo in giù.
“Dovrai farli crescere ancora un po’”, dice Lenah, allungando una mano per tirare una ciocca umida dei miei capelli biondi, lunghi fino alle spalle.
“Non lo farò”, dico. Se davvero non posso andarmene fisicamente – non ancora – sarò oltremodo polemica. Nel frattempo, sto costantemente pianificando la mia fuga, prendendo nota di ogni porta, ogni dettaglio, tutto ciò che potrebbe tornarmi utile quando giungerà il momento di andare via. Sto anche raccogliendo informazioni tramite domande apparentemente innocenti.
Se sta succedendo davvero, se sono stata davvero rapita e trasportata su un altro dannato pianeta, ci dev’essere un modo per tornare indietro. Ho intenzione di trovarlo al più presto.
“Re Aurus preferisce i capelli lunghi”, dice un’altezzosa donna di colore verde, spingendo dietro alla spalla la sua criniera di lucenti ciocche verde acqua.
“Allora è un bene che lui abbia tutte voi”, dico dolcemente. Aspetto che l’abito mi venga infilato sulla testa, prima di chiedere: “Siete le sue mogli?”
“Il suo harem”, risponde Juno a bassa voce. “Le sue cortigiane”.
“Sembra che ce ne siano abbastanza di voi. Abbastanza per soddisfare anche il più... potente dei re”. Cerco di nascondere il sarcasmo dalla mia voce. “Allora perché ha bisogno di me?” L’abito giallo pallido è leggero come l’aria ed è così trasparente che non nasconde quasi nulla. Tanto varrebbe essere nuda. Ma sto al gioco.
Per ora.
“Come ti abbiamo già detto”, dice Lenah, “ha bisogno di un’omega. Solo un’omega può dargli ciò che desidera veramente”.
Il cuore inizia a battermi forte nel petto, ma mi impongo di mantenere un tono calmo, quasi annoiato. “Ah, davvero? E cosa sarebbe?”
Juno si fa avanti, l’espressione piena di riverenza. Le sue parole successive mi sbalordiscono al punto da farmi ammutolire.
“Dei figli”.