1.
Sentì il rumore della pesante porta di ferro che veniva aperta e pregò che questa volta la uccidessero. Sperare di venire uccisa era sicuramente un peccato, ma Amintha non avrebbe potuto sopportare un’altra giornata come le due precedenti.
Dal corridoio filtrò un chiarore, poi la luce guizzante di una torcia illuminò il pavimento coperto di paglia lurida ed escrementi di topo. L’aria gelida e immobile sapeva di urina e sporcizia, ma ora un nuovo odore si unì a questi: incenso.
Amintha sollevò a fatica la testa. Aveva gli occhi gonfi, tumefatti, e riusciva ad aprirli solo di una fessura, ma questa le bastò a vedere che gli uomini che stavano entrando nella cella non erano le guardie del conte.
Quello davanti a tutti era un monaco grasso, vestito di nero e di bianco, che allungava la testa per guardarla alla luce della torcia. Dietro di lui, due soldati in un’uniforme che Amintha non conosceva. In mezzo... qualcuno di importante. Amintha non sapeva chi fosse, ma poteva vedere la sopravveste di velluto scuro e il farsetto di broccato, il collaretto bianco candido, il capello largo e nero... sembrava un nobile, ma notevolmente più sobrio di qualsiasi nobile Amintha avesse mai visto.
«Eccola, eccellenza. Come vi dicevo è già stata... ehm, preparata per le quaestiones».
L’uomo vestito di scuro fece un altro passo avanti. Un passo cauto, come se stesse cercando di non inzaccherarsi le scarpe sul pavimento.
Amintha vide un viso pallido e levigato... e i suoi occhi. Occhi da gatto, che alla luce della torcia sembravano gialli.
Quegli occhi scivolarono su di lei come se le prendessero le misure, freddi ma non ostili. Amintha non sapeva con precisione che cosa videro. Fino a due giorni prima veniva considerata la fanciulla più bella della contea, ma di lei non doveva essere rimasto molto. Era stata completamente rasata... e quella era la norma, quando venivi accusata di stregoneria... ma per il resto...
Il suo viso era gonfio per le botte ricevute, perché all’inizio aveva avuto l’arroganza di provare a opporsi alle guardie del conte. Non era servito a nulla, anzi, aveva peggiorato le cose. Il risultato era il sangue raggrumato che aveva tra le gambe.
«Sollevatela, per favore» disse il nobile o quel che era.
Il frate fece un cenno con la testa dietro di sé e aggiunse: «State attenti, graffia».
I due soldati si fecero avanti come se avessero a che fare con una bestia selvaggia. La afferrarono per le braccia e la tirarono su. Amintha gemette piano, mentre il sangue riprendeva a scorrerle giù per le cosce.
«Oh, non credo proprio» commentò il nobile o quel che era, senza nessuna particolare inflessione. I suoi occhi gialli cercarono quelli di lei. «Figliola, riesci a parlare?».
Amintha annuì. Poi cercò di aprire la bocca a sufficienza da dire: «S-sì».
«Sì, vostra eccellenza» la redarguì il frate. «Stai parlando con Nathaniel de La Forge, vescovo di Tolosa e inquisitore capo della regione».
«Conosci le accuse che ti sono state mosse?» chiese il vescovo.
«S-sì, vostra eccellenza» riuscì a dire Amintha, con un filo di voce.
«Con tutto il rispetto, monsignore, non sarebbe meglio ascoltarla di fronte al tribunale, domani pomeriggio?».
Il vescovo distolse gli occhi da Amintha per puntarli sul frate. Sembrò che stesse guardando uno scarafaggio o un’altra forma di vita inferiore.
«Domani non si riunirà nessun tribunale. Ho premura di proseguire verso Tolosa. L’accusata verrà portata via insieme al mio seguito e giudicata con calma nella sede appropriata». Tornò a rivolgersi a lei. «Come ti chiami, figliola?».
«Amintha» rispose Amintha. «V-vi prego, eccellenza, aiutatemi».
Sulle labbra dell’altro aleggiò un minuscolo sorriso. «Non credere che questa sia una grazia, Amintha. A Tolone abbiamo legna per ardere le streghe proprio come qua. Se fossi in te userei il tempo del trasferimento per pregare un’autorità più alta della mia».
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Ma la sua autorità doveva essere alta abbastanza. Amintha era stata coperta alla bell’e meglio con un mantello e caricata su un carro insieme alle masserizie del vescovo. Nessuno le aveva rivolto la parola e le erano anche state legate le mani, ma nessuno l’aveva più sfiorata.
Era rimasta su quel carro per tutta la notte, sballottata come un sacco mentre la strada acciottolata faceva sobbalzare le ruote. All’alba erano entrati in una città... Tolosa.
Il loro convoglio passò davanti alla basilica di Saint-Sernin, che faceva parte del cammino verso Compostela, una grande e bella chiesa di mattoni rosati. E il rosa sembrava il colore dominante di molti edifici, tutti bellissimi e imponenti, l’ultimo dei quali quello in cui entrò la fila di carri e carrozze.
Il vescovo scese dalla seconda, la più sfarzosa, e andò verso il carro di lei.
Alla luce chiara del mattino Amintha vide che era un uomo alto, snello, nel pieno della giovinezza, con un portamento e un viso nobilissimi, i lineamenti cesellati e virili al tempo stesso e i capelli di una sfumatura di rosso dorato, molto chiaro. Per contro, le sopracciglia erano rosso scuro e rendevano magnetico il suo sguardo verde-giallastro.
Era così bello, pensò Amintha, che avrebbe potuto essere un Guardiano. Ma non lo era, l’avrebbe percepito.
Si chinò su di lei e le tagliò i legacci ai polsi.
Aprì il mantello che la copriva e la esaminò di nuovo alla luce del sole. Mentre lo faceva gli si affiancò un uomo molto magro con una divisa da valletto addosso.
«Be’, vostra eccellenza» disse, con un sospiro, «vi concedo un notevole colpo d’occhio, ma dubito che ne trarrete grande gioia. Se posso farvelo notare, è già stata usata brutalmente... e quella testa calva... be’...»
«Sei un idiota, Berry» rispose il vescovo con un sospiro. «È un seme d’ombra, non vedi?».
L’altro inarcò le sopracciglia.
«Io sì, lo percepisco» tagliò corto de La Forge. «Se vuoi un’ulteriore prova... guarda lì, sulla sua spalla».
«Una voglia rosa».
«Come una fragolina di bosco, sì. Sei un seme d’ombra, Amintha?».
Lei non ebbe bisogno di pensare a che cosa dire. Da qualche secondo si sentiva invadere da un immenso sollievo.
«Sì, eccellenza».
Il vescovo la ricoprì e tornò a rivolgersi al suo servitore. «Manderete una lettera al cardinale in cui spiegherete che la prigioniera è morta durante il trasporto. Se dovessero giungere richieste di spiegazioni – cosa di cui dubito – addosserete la colpa agli uomini del conte de Mavelline».
«Temo che se non facciamo qualcosa al più presto...»
«Naturalmente» lo interruppe l’alto prelato, gelido. «Chiamate Règis, il guaritore. E mentre lo aspettate fatele un bagno».
«Eccellenza... un bagno? Nelle sue condizioni? E Règis è... be’, un seme di luce, monsignore. Non pensate che...»
«Oppure posso fare a te quello che hanno fatto a lei. Usando un attizzatoio rovente».
Il servitore, Berry, si inchinò rigidamente e si allontanò in fretta.
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Rivide il suo salvatore quella sera stessa. Era stata lavata e curata, le erano stati consegnati dei vestiti morbidi e puliti, decenti, e un velo per coprire la sua testa rapata a zero.
L’uomo che l’aveva curata era un seme di luce, proprio come aveva detto il servitore, ma non sembrava che gli importasse che lei fosse di un diverso colore. L’aveva guardata con occhi pieni di compassione e Amintha aveva provato il desiderio di colpirlo fino a rompergli tutte le ossa. Si era trattenuta, ovviamente. Quell’uomo le serviva.
Aveva dormito in un vero letto, un letto comodo, e si era nutrita.
In un solo giorno le sue condizioni erano migliorate in modo sensibile. Certo, non sapeva ancora che cosa volesse de La Forge in cambio, ma probabilmente era un prezzo che Amintha era disposta a pagare. I semi d’ombra non erano famosi per la generosità disinteressata.
La accompagnarono nelle stanze private del vescovo e lei apprezzò la ricercatezza con cui era arredato il palazzo. Ovviamente c’era una maggioranza di quadri, pale e arazzi di soggetto religioso, ma tutti con un certo occhio all’estetica, che fosse della nudità o del martirio.
In quanto a de La Forge, sembrava ancora meno legato alla forma della maggior parte degli ecclesiastici che Amintha avesse conosciuto in vita sua... che pure di solito non erano ansiosi di vivere davvero in povertà, castità e obbedienza.
La camera in cui lui la ricevette era magnificamente tiepida, il pavimento coperto di tappeti delle Fiandre, le pareti di arazzi religiosi di squisita fattura. La penombra della stanza aveva le sfumature dorate delle fiamme nel caminetto e di quelle di un candeliere.
Ma la cosa più impressionante di quell’ambiente era il letto. Era piuttosto largo e posto sopra una stufa di maiolica verde scuro, con un alto materasso coperto di stoffe preziose. Amintha ne aveva visti alcuni a nord, ma mai di quelle dimensioni.
Lo stava ancora fissando quando de La Forge entrò nella stanza. Indossava solo una lussuosa veste da camera di velluto viola scuro, o così sembrava. Dietro di lui, una ragazza di forse sedici anni, con gli occhi blu e grandi, i capelli color del grano e il corpo procace coperto a stento da una veste bianca. Aveva in mano quella che sembrava una pisside d’argento.
«Eccellenza» mormorò Amintha, con un inchino formale.
Lui la squadrò. «Molto meglio. Vieni, saliamo sul letto. È caldo... è davvero magnifico. Marie mi preparerà per la notte e noi due parleremo. Non devi preoccuparti di quello che dici: è sorda».
Come a dimostrazione di quello che le aveva appena spiegato, rivolse alla fanciulla un gesto gentile del capo, invitandola a precederlo su quel giaciglio principesco.
Amintha aspettò che i due prendessero posizione prima di arrampicarsi a sua volta. Rimase seduta vicino al bordo, mentre de La Forge si sdraiava tra i cuscini e la giovane Marie si inginocchiava accanto a lui.
«Quindi...» disse il vescovo, slacciandosi la cintura della veste da camera.
Amintha cercò di non distogliere gli occhi dai suoi, anche se non era a suo agio. D’altronde, dubitava che metterla a suo agio fosse una priorità, per Nathaniel de La Forge.
«Vi ringrazio per avermi aiutata, eccellenza...» iniziò a dire.
«“Mio signore” è sufficiente. Sono un vescovo quanto tu sei una strega». Un vago sorriso si dipinse sulle sue labbra perfette. «Oddio, paragone sbagliato, probabilmente. In ogni caso... “Signore Nathaniel”, “mio signore”...»
La giovane servitrice, nel frattempo, aveva aperto la pisside e aveva intinto le dita nel fluido che conteneva, per poi iniziare a spalmare il corpo di Nathaniel. Si diffuse un aroma dolce, di rosa e coriandolo. Amintha non riuscì più a impedirsi di guardare. Lo fece senza tentare di dissimularlo, nello stesso modo distaccato in cui lui aveva guardato lei.
Inutile a dirsi, anche il corpo di Nathaniel era magnifico, con la pelle lattea e i muscoli ben disegnati, una lieve peluria castano dorata sul petto e la pancia piatta come una tavola.
«In ogni caso... certo che ti ho aiutata. Fa parte dei nostri doveri aiutare i fratelli e le sorelle in difficoltà. È altrettanto ovvio che ora tu sei in debito».
«Sì, mio signore. Ne sono consapevole» disse lei.
Continuava a seguire il lavoro delle mani della servitrice, che massaggiavano il corpo di lui in modo delicato ma deciso. Amintha guardò il suo membro, che giaceva morbido su una coscia con la punta esposta dalla circoncisione. Doveva essere una seccatura.
«Hai aggrottato la fronte, amica mia. Devo informarti che di solito non amo che si aggrotti la fronte in modo scettico mentre si ammirano le mie parti basse».
Amintha gli rivolse un lieve inchino. «Chiedo scusa, mio signore. Senza dubbio sapete già di essere perfetto sotto ogni punto di vista».
Lui rise sottovoce. «Quanti anni hai, giovane seme?».
«Con precisione non lo so. Meno di un secolo».
«Bene. Intendi pagare il debito che hai contratto nei miei confronti?».
Amintha piegò rispettosamente la testa. Ovviamente lui non le aveva detto come voleva essere ripagato, ma non poteva rifiutare.
«Sì, mio signore».
Lui fece un gesto alla sua servitrice, che iniziò a occuparsi appunto delle parti basse di cui avevano parlato fino a poco prima. Amintha la guardò mentre gli massaggiava i testicoli con le mani cicciottelle e quel dettaglio le fece tenerezza.
«Ti lego a me per dieci anni, Amintha. Dieci anni al mio servizio. Ti sembra equo?».
Dieci anni erano parecchi, ma era pur vero che lui l’aveva salvata dal rogo e l’aveva fatta curare.
«Sì, mio signore» mormorò lei.
«Oh, non nello stesso ruolo di Marie o di una... delle altre. Vedo che ti disgusta».
Amintha deglutì. Aveva ragione lui, ovviamente. Le cure amorevoli della giovane servitrice sorda avevano risvegliato il membro di lui, che ora si ergeva tra le sue cosce, lungo e bello. Amintha doveva fare uno sforzo per non saltare indietro.
«Mi dispiace, signore. Non riguarda voi, è...»
«...Un po’ penalizzante, per un seme d’ombra. È una conseguenza della tua prigionia? O era così già prima?».
Lei sospirò. «Mio signore...» iniziò, in tono sostenuto, ma Nathaniel rivolse un altro gesto alla sua servitrice e quella abbassò la bocca sull’erezione di lui. Ad Amintha risalì un fiotto acido dallo stomaco.
Nathaniel le rivolse uno sguardo paziente. «A lei piace. Non riesci a sentirlo? Usa i tuoi sensi, invece di chiuderti. Le piace prendersi cura di me».
Amintha cercò di calmare il respiro. Marie baciava e leccava il membro dell’altro emettendo dei suoni raschianti e a lei veniva da vomitare ogni secondo di più. Ricordava il modo in cui era stata usata la sua bocca, solo un giorno prima. Il modo in cui gliel’avevano tenuta aperta perché non mordesse. Il modo in cui l’avevano quasi strozzata.
Nathaniel accarezzò affettuosamente i capelli di Marie mentre lei terminava. Fece una vaga smorfia e iniziò a liberarsi tra le sue labbra. Amintha saltò giù dal letto e cercò un posto dove rimettere. Lo fece in un vaso di fiori. Il rumore dei suoi conati coprì i leggeri grugniti di lui.
Quando rialzò la testa Nathaniel aveva finito.
«Sposta il vaso fuori dalla porta. C’è dell’acqua in quella brocca».
L’aveva detto senza guardarla, occupato a ripulire le labbra della sua servitrice con un fazzoletto. Amintha non capiva come quella ragazza potesse accettare di essere usata così. Pensò che forse non aveva alternative. Quando una giovane era povera e menomata che cos’altro poteva fare?
Si sciacquò la bocca e tornò verso il letto riscaldato.
Nathaniel congedò la giovane Marie con un bacio affettuoso sulla testa e si riallacciò la veste da camera. Amintha si avvicinò tentennante.
«Chiedo scusa per il mio comportamento, signore» si obbligò a dire. «Non intendevo mancarvi di rispetto».
Gli occhi dorati di lui le rivolsero un’occhiata sorniona.
«Vieni qua».
Amintha si avvicinò ancora. Sentiva il suo odore e lo trovava ributtante. Non l’odore del suo corpo – quello era dolce e gradevole – ma del suo seme. Le rivoltava lo stomaco.
«Lascia prima che ti rassicuri. Non ho alcuna intenzione di usarti per il mio piacere. Per inciso, mi stancherei dopo poche settimane. No, quello che mi interessa è che sei una guerriera».
Amintha tornò ad arrampicarsi sul letto e si sedette di nuovo sull’angolo.
«Sei una guerriera, no?».
Lei annuì.
«Anch’io, ma non è questo il punto. Mi hanno detto che hai ucciso uno degli uomini che tentavano di violentarti e ne hai feriti gravemente altri due».
«Non è bastato».
Nathaniel non offrì simpatia. «No, è ovvio» commentò, indifferente. «Ma è indicativo. E non si trovano molte donne, tra i guerrieri. Forse sai che il nuovo Faro ha parlato. Ha profetizzato un’altra guerra di qua a pochi anni. Quando accadrà non voglio trovarmi solo di fronte ai miei nemici».
«Capisco» mormorò lei.
«Ti addestrerò. Ti farò crescere. In cambio pretendo solo la tua fedeltà assoluta». I suoi occhi si fissarono in quelli di lei, magnetici e malevoli. «Non subito, ma presto».
«Ci proverò, mio signore».
«Stenditi con me».
Amintha si irrigidì. Se quello era il modo in cui il suo nuovo padrone era abituato a mantenere la sua parola...
«Quando ti do un ordine mi aspetto che lo esegui subito» puntualizzò lui.
Amintha si fece forza e si allungò sul materasso, sdraiandosi su un fianco. Sperò che non le facesse troppo male. Si chiese se sarebbe riuscita a sopraffarlo.
Nathaniel le prese un polso e la tirò verso di sé. La sua stretta assomigliava a una morsa e Amintha capì due cose: non sarebbe mai riuscita a sopraffarlo e quello doveva essere un seme molto vicino a sbocciare.
«E non dubitare più di me, o ti farò male come non te ne ha mai fatto nessuno. Ho detto che non intendo usarti per il mio piacere».
Lei si limitò a guaire, gli occhi che le si riempivano di lacrime.
Alla fine Nathaniel le lasciò il polso. «Questo disgusto è un difetto da correggere, Amintha. Come hai detto tu stessa, so benissimo di essere perfetto sotto ogni punto di vista. Il tempo mi ha levigato come un sasso in un fiume, rendendo i miei colori brillanti e delicati, il mio corpo forte e flessuoso, i miei movimenti eleganti e bilanciati. La piccola Marie pensa che io sia un angelo e piange se non le permetto di prendersi cura di me. Persino i miei nemici mi trovano bello e attraente. Tu vomiti in uno dei miei vasi».
«Mi dispiace, non volevo...»
«No, a me dispiace. Il tuo corpo è uno strumento che intendo usare contro i miei nemici. Se non posso disporne sotto ogni punto di vista diventa uno strumento fallato. Ti piacciono le donne?».
«Eh? In che senso...»
«Non fa differenza, per me».
«Credo di non aver capito».
Nathaniel sembrò seccato. «Intendo: forse sono le donne ad accendere i tuoi sensi. È così? Non ha importanza... chiunque può imparare a simulare piacere».
«N-no, non... cioè, le donne non mi... credo... credo che non mi piaccia nessuno, signore».
«E quando sei sola e hai freddo, la persona che sogni che ti abbracci... è un uomo, una donna, entrambi...»
Amintha sbatté le palpebre. Non aveva mai guardato la faccenda in quel modo. Non trattenne una risata di stupore. «È buffo. Penso a un angelo. Penso di dormire tra le braccia dell’arcangelo Michele».
«Nientemeno» sorrise lui. I suoi occhi di gatto scintillarono di divertimento. «Be’, sono sicuro che troveremo una soluzione».