U N O-3

1575 Words
La porto alla luce, e dapprima non so dire cos’è; ma poi sento il foglio di alluminio rivelatore, e realizzo: è una barretta di cioccolato. Erano stati dati un paio di morsi, ma è ancora avvolta nel suo involucro originale, e abbastanza ben conservata. Ne scarto giusto un pezzetto, lo porto al naso e l’annuso. Non ci credo: vero cioccolato. È dalla guerra che non abbiamo cioccolato. Odorarlo mi fa venire un’acuta fitta di fame e devo fare ricorso a tutta la mia forza di volontà per non stracciarlo e divorarlo. Mi sforzo di resistere, lo riavvolgo con cura e lo ripongo in tasca. Aspetterò di essere con Bree per godermelo. Sorrido, immaginando lo sguardo sul suo volto quando darà il suo primo morso. Sarà impagabile. Frugo nei cassetti rimasti, fiduciosa adesso di trovare ogni genere di tesoro. Ma tutto il resto si rivela vuoto. Mi volto e attraverso la stanza in lungo e in largo, affianco ai muri, nei quattro angoli, alla ricerca di qualsiasi cosa. Ma è deserta. All’improvviso, cammino su qualcosa di morbido. Mi inginocchio e la raccolgo, mettendola alla luce. Sono stupita: un orsetto di peluche. È logoro e gli manca un occhio, ma comunque Bree adora gli orsetti di peluche e le manca quello che ha abbandonato. Andrà in estasi quando lo vedrà. Sembra che oggi sia il suo giorno fortunato. Metto l’orsetto nella cintura, e mentre mi rialzo, sfioro con la mano qualcosa di morbido sul pavimento. L’afferro e la tiro su, e sono felicissima nel scoprire che è una sciarpa. È nera e coperta di polvere — non potevo vederla mai al buio — e come la metto al collo e sul petto, ne sento subito il calore. La sbatto forte fuori dalla finestra, scrollando via la polvere. La guardo alla luce: è lunga e spessa — non ha neanche un buco. È oro puro. Me l’avvolgo subito intorno al collo e me la infilo sotto la camicia: sento che mi sto già riscaldando. Starnutisco. Il sole sta tramontando e siccome pare che abbia trovato tutto ciò che potevo trovare, vado per uscire. Mentre mi dirigo verso la porta, all’improvviso, sbatto il dito del piede contro qualcosa di duro e metallico. Mi fermo e mi inginocchio, cercando di capire se si tratta di un’arma. Non lo è. È un pomello di ferro rotondo, attaccato al pavimento di legno. Come un battente. O una maniglia. Lo tiro forte a destra e a sinistra. Non succede niente. Provo a girarlo. Niente. Non avendo altre opzioni, mi metto su un lato e lo tiro con forza verso l’alto. Si apre una botola, sollevando una nuvola di polvere Guardo in giù e scopro un’intercapedine, alta circa un metro, con il pavimento in terra battuta. In testa mi passano tutte le possibilità. Se vivessimo qui, e dovesse succedere qualche problema, potrei nascondere Bree quaggiù. Questo piccolo cottage sta diventando sempre più prezioso ai miei occhi. E non solo. Come guardo giù intravedo qualcosa luccicare. Apro completamente la pesante porta di legno e balzo giù per la scala. È tutto nero, e tengo le mani davanti mentre cammino brancolando. Faccio un passo in avanti e sento qualcosa. Vetro. Gli scaffali sono incassati al muro, e sopra in fila ci sono dei barattoli di vetro. Barattoli di conserve. Ne tiro giù uno e lo porto alla luce. Il contenuto è rosso e morbido. Somiglia a marmellata. Svito rapidamente il coperchio di stagno, lo porto al naso e annuso. Vengo investita dall’odore pungente di lamponi. Ci ficco dentro un dito, ne raccolgo un po’ e me lo porto alla lingua per assaggiare. Non ci posso credere: marmellata di lamponi. E sembra fresca come se fosse stata fatta ieri. Stringo rapidamente il coperchio, m’infilo il vaso in tasca e ripasso agli scaffali. Stendo la mano e ne sento a dozzine nell’oscurità. Afferro il più vicino, corro di nuovo alla luce e lo tiro su. Sembrano sottaceti. Sono sbigottita. Questo posto è una miniera d’oro. Vorrei potermi portare tutto, ma ho le mani gelate, non ho come trasportare alcunché e si sta facendo scuro fuori. Rimetto quindi il barattolo di marmellata laddove l’avevo trovato, risalgo la scala, e, tornata al piano terra, chiudo per bene lo sportello della botola dietro di me. Vorrei avere un lucchetto; m’innervosisce lasciare tutta questa roba quaggiù, incustodita. Ma poi mi torna in mente che questo luogo non è stato toccato per anni — e che probabilmente non l’avrei mai neanche notato se quell’albero non fosse caduto. Esco, chiudendo per bene la porta, con senso di protezione, come se questa fosse già casa nostra. Con le tasche piene, mi affretto di nuovo verso il lago — ma mi blocco di colpo non appena percepisco un movimento e sento un rumore. Penso subito che qualcuno possa avermi seguito; ma mentre mi volto lentamente, vedo qualcos’altro. C’è un cervo che mi guarda impalato, a tre metri di distanza. È il primo cervo che vedo da anni. I suoi grandi occhi neri sono fissi sui miei, poi all’improvviso si gira e fugge via. Sono senza parole. Ho trascorso mesi e mesi alla ricerca di un cervo, sperando di potermici avvicinare abbastanza da lanciare il mio coltello. Ma non sono mai riuscita a trovarne uno, da nessuna parte. Forse non stavo cacciando abbastanza in alto. Forse hanno vissuto quassù tutto questo tempo. Decido che ritornerò qui la mattina presto, e aspetterò tutto il giorno se necessario. Se è stato qui una volta, forse ritornerà. La prossima volta che lo vedo, lo uccido. Quel cervo ci sfamerebbe per settimane. Sento tornare la speranza mentre mi corro verso il lago. Mi avvicino a controllare la mia canna, e ho il batticuore nel vedere che è piegata quasi a metà. Tremando per l’emozione, mi precipito, scivolando, verso il ghiaccio. Afferro la corda che vibra freneticamente, e prego che tenga. Tendo le braccia e la strattono con un colpo secco. Sento la forza di un grosso pesce che tira forte e dentro di me spero che la corda non si spezzi e l’amo non si rompa. Gli do un ultimo colpo e il pesce balza fuori dal buco. È un salmone enorme, grande quanto il mio braccio. Cade sul ghiaccio e si dimena in tutti i sensi, scivolando da un lato all’altro. Mi abbasso per prenderlo, ma mi scivola dalle mani e ripiomba sul ghiaccio. Ho le mani troppo viscide per tenerlo fermo, così mi abbasso le maniche, mi chino e stavolta l’afferro con maggiore fermezza. Si divincola e si contorce nelle mie mani per trenta secondi buoni, fino a quando non si placa, morto. Sono meravigliata. È la mia prima preda da mesi. Mi sento estasiata mentre scivolo sul ghiaccio e lo poggio sulla riva; lo avvolgo nella neve, temendo che possa in qualche modo tornare in vita e risaltare nel lago. Tiro giù la canna e la corda e me li metto in una mano, poi afferro il pesce con l’altra. Sento il barattolo di marmellata in una tasca, il termos di linfa nell’altra — stipato insieme alla barretta di cioccolato — e l’orsetto di peluche alla cintura. Bree avrà di che gioire stasera. È rimasta solo una cosa da prendere. Mi dirigo verso la catasta di legno secco, con la canna in equilibrio in un braccio, e con la mano libera raccolgo tutti i ceppi che riesco a prendere. Ne faccio cadere qualcuno; non riesco a portare tanti quelli che vorrei, ma non mi lamento. Posso sempre tornare domattina per i restanti. Con mani, braccia e tasche piene, scendo cadendo e scivolando giù per il ripido versante della montagna nell’ultima luce del giorno, attenta a non fare cadere niente del mio tesoro. Mentre procedo, non riesco a smettere di pensare al cottage. È perfetto, e il cuore batte sempre più forte all’idea. È esattamente ciò di cui abbiamo bisogno. La casa di nostro papà è troppo in vista; è costruita sulla strada principale. Per mesi sono stata preoccupata del fatto di essere troppo vulnerabili là dove siamo. Sarebbe bastato che passasse un qualunque mercante di schiavi e saremmo state nei guai. È da tanto tempo che vorrei che io e Bree cambiassimo posto, ma non ho mai saputo dove. Non ci sono altre case quassù. Quel piccolo cottage, così in alto, così lontano da qualsiasi strada — e letteralmente costruito dentro la montagna — è così ben mimetizzato, che sembra quasi essere stato costruito apposta per noi. Nessuno riuscirebbe mai a trovarci lì. E pure se ci riuscissero, non potrebbero mai avvicinarsi a noi con un veicolo. Dovrebbero muoversi a piedi, e da quel punto vantaggioso, li distinguerei lontani un chilometro. La casa ha anche una fonte di acqua dolce, un ruscello che scorre proprio davanti la porta; non dovrei lasciare Bree sola ogni volta che esco a fare un bagno o a lavare i vestiti. E non dovrei portare i secchi di acqua dal lago uno alla volta ogni volta che preparo un pasto. Senza dire che con quella copertura di alberi, saremmo abbastanza nascosti da poter accendere il caminetto ogni sera. Saremmo più sicure, più calde, in un luogo brulicante di pesce e selvaggina — e provvisto di un seminterrato pieno di cibo. In testa mia ho deciso: ci sposteremo lì domani. È come togliersi un peso dalle spalle. Mi sento rinata. Per la prima volta da non so quando, non sento la fame che morde, non sente il freddo che mi buca le punte delle dita. Anche il vento, man mano che scendo, sembra rimanere dietro di me, come se mi aiutasse ad andare avanti, e sento che le cose finalmente sono girate. Per la prima volta da tanto tempo, so che possiamo farcela. Che possiamo sopravvivere.
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