Torno verso l’altopiano e punto gli occhi sul lago più piccolo. È tutto ghiaccio, e scintilla nella luce del pomeriggio come un gioiello smarrito, nascosto dietro una macchia di alberi. Mi ci avvicino, facendo qualche passo di prova sul ghiaccio per assicurarmi che non si rompa. Come lo sento solido, ne faccio qualcun altro. Trovo un punto, estraggo la piccola accetta dalla cintura e inizio a picconare il ghiaccio, un colpo dopo l’altro. Si forma un’incrinatura. Estraggo il coltello, mi metto in ginocchio e do un colpo più forte, esattamente al centro della spaccatura. Lavoro con la punta del coltello e faccio un piccolo foro, grande abbastanza per estrarre un pesce.
Scivolando, torno di corsa verso la riva, fisso la canna da pesca tra i due rami di un albero e srotolo la cordicella, quindi torno verso il buco e vi calo dentro il filo. Strattono un paio di volte, sperando che il riflesso dell’amo di metallo possa attrarre una qualche creatura vivente che sta sotto il ghiaccio. Ma non riesco a non pensare che è uno sforzo inutile, che qualsiasi cosa vivesse in queste laghi di montagna è morta da tempo.
Fa anche più freddo quassù e non posso restare qua a guardare la corda. Devo continuare a muovermi. Mi volto dall’altra parte e mi allontano dal lago; il mio lato superstizioso dice che potrei prendere un pesce solo se non rimango lì a fissare. Mi metto a girare in tondo attorno agli alberi, sfregandomi le mie mani per cercare di riscaldarle. Qualcosa fa.
È a questo punto che mi viene in mente il legno secco. Guardo per terra alla ricerca di ramoscelli, ma è inutile. Il suolo è coperto di neve. Guardo gli alberi in alto, e mi accorgo che anche tronchi e rami sono coperti di neve. Ma un po’ più in là scorgo qualche albero spazzato dal vento e libero dalla neve. Ci vado, osservo la corteccia, ci faccio scorrere sopra la mano. Sono contenta nel vedere che alcuni dei rami sono asciutti. Prendo l’accetta e taglio uno dei rami più grandi. Tutto quello che mi serve è un po’ di legno, e questo grosso ramo è perfetto.
Come si stacca, lo afferro, senza lasciarlo cadere sulla neve, poi lo poggio contro il tronco e lo spacco a metà. Ripeto l’operazione fino a quando non ottengo una piccola pila di ramoscelli che posso portare fra le braccia. La sistemo nell’angolo di un ramo, protetta all’asciutto dalla neve sottostante.
Mi guardo intorno e osservo gli altri tronchi; guardo più vicino e qualcosa mi lascia perplessa. Mi avvicino a uno degli alberi, e guardando più attentamente mi accorgo che la sua corteccia è diversa dalle altre. Controllo bene e mi accorgo che non è un pino; è un acero. Mi sorprende vedere un acero così in alto quassù, e sono anche più sorpresa nel riuscire a riconoscerlo. Un acero è infatti la sola cosa in natura che sarei in grado di riconoscere. Senza volerlo, emerge un ricordo.
Una volta, quando ero piccola, mio papà si era messo in testa di portarmi a fare un giro nella natura. Dio sa perché, mi ha portato a picchiettare gli alberi di acero. Abbiamo guidato per ore in un angolo del paese dimenticato da Dio; io avevo un secchio di metallo, lui un beccuccio, e abbiamo passato ore
con una guida vagando fra gli alberi, alla ricerca degli aceri perfetti. Ricordo lo sguardo di delusione sul suo volto dopo aver picchiettato il suo primo albero e aver visto del liquido chiaro colare nel secchio. Pensava fosse sciroppo.
La guida si mise a ridere, e gli disse che gli alberi di acero non producevano sciroppo—producevano linfa. La linfa doveva essere condensata per diventare sciroppo. Era un processo che richiedeva ore, disse. Ci sono voluti circa 80 galloni di linfa per ottenere un litro di sciroppo.
Papà guardò il secchio traboccante di linfa che aveva in mano e divenne rosso dalla rabbia, come se qualcuno gli avesse appena venduto una partita di merce avariata. Era l’uomo più orgoglioso che avessi mai incontrato, e se c’era qualcosa che odiava più di sentirsi stupido, era che qualcuno si prendesse gioco di lui. Quando l’uomo si mise a ridere, lui gli tirò addosso il secchio, mancandolo di un niente, mi prese la mano e ce ne andammo via con furia.
Dopo quella volta, non mi portò più a fare giri nella natura.
In fondo, non m’importava — e anzi mi era piaciuta la gita, anche se in auto è stato zitto furibondo per tutto il tragitto di ritorno a casa. Ero riuscita a raccogliere un po’ di linfa prima che mi afferrasse per andarcene, e mi ricordo che la sorseggiai di nascosto in macchina di ritorno a casa, mentre lui non guardava. Mi piacque tantissimo. Sapeva di acqua zuccherata.
Adesso sono qui davanti a quest’albero e lo riconosco come si riconoscerebbe un fratello. Quest’acero è così alto, esile e malridotto, che mi sorprenderebbe trovare anche solo poca linfa. Ma non ho niente da perdere. Tiro fuori il coltello e colpisco ripetutamente l’albero nello stesso punto. Poi scavo nel buco, affondando sempre più il coltello, girandolo e ruotandolo di continuo. In realtà non mi aspetto che succeda niente.
Rimango scioccata quando fuoriesce una goccia di linfa. E ancora più scioccata quando, pochi istanti dopo, le gocce si trasformano in un piccolo scolo. Tendo il dito, lo bagno e la porto alla lingua. Sento subito lo zucchero, e riconosco il gusto. Proprio come me lo ricordavo. Non riesco a crederci.
Ora la linfa gocciola più velocemente, e ne sto perdendo un bel po’ che scivola giù per il tronco. Cerco disperatamente qualcosa attorno per raccoglierla, un qualche contenitore — ma ovviamente non c’è niente. Poi mi ricordo: il termos. Tiro il termos di plastica fuori dalla cintura e lo capovolgo, per svuotarlo dall’acqua. Posso prendere acqua dolce ovunque, soprattutto con tutta questa neve — ma questa linfa è preziosa. Tengo il termos vuoto a filo sull’albero, sperando in un flusso adeguato. Spingo la plastica il più radente possibile al tronco, e riesco a prenderne il grosso. Si riempie più lentamente di quanto vorrei, ma in pochi minuti, sono riuscita a riempire mezzo termos.
Il flusso di linfa si ferma. Aspetto qualche secondo, mi chiedo se riprenderà, ma non succede.
Mi guardo attorno e scorgo un altro acero a circa tre metri. La raggiungo di corsa, sollevo il coltello con entusiasmo e stavolta do un colpo forte, pensando di riempire il termos e immaginando lo sguardo di sorpresa sulla faccia di Bree quando lo gusterà. Potrebbe non essere nutriente, ma di sicuro la renderà felice.
Ma stavolta, non appena il coltello colpisce il tronco si sente un rumore secco, di strappo, che non mi aspettavo, seguito dal crepitio del legname. Guardo in su e noto l’inclinazione dell’albero; troppo tardi mi accorgo che l’albero — gelato in un cappotto di ghiaccio —era morto. L’affondo del mio coltello era quello che mancava per farlo cadere.
Un attimo dopo, l’albero cade con tutti i suoi sei metri, precipitando al suolo. Solleva un’enorme nuvola di neve e aghi di pino. Mi accovaccio, nervosa: potrei avere segnalato la mia presenza a qualcuno. Sono furiosa con me stessa. È stato imprudente. Stupido. Avrei dovuto prima esaminare l’albero con più attenzione.
Ma dopo qualche momento, il battito cardiaco si stabilizza, il tempo di accorgermi che non c’è nessun altro quassù. Torno razionale, mi rendo conto che gli alberi cadono da soli nella foresta tutto il tempo, e il suo crollo non era necessariamente collegato a una presenza umana. Guardo l’area dove c’era l’albero, dando una seconda occhiata. Rimango a bocca aperta.
In lontananza, nascosto dietro un boschetto di alberi, costruito proprio dentro il versante della montagna stessa, c’è un piccolo cottage di pietra. È una piccola struttura, un quadrato perfetto, largo e profondo circa cinque metri, alto tre o quattro, i muri di blocchi di pietra antichi. Dal tetto spunta un piccolo camino, e piccole finestre sono ricavate nei muri. La porta d’ingresso, in legno, ad arco, è socchiusa.
Questo piccolo cottage è così ben mimetizzato, si fonde così bene con l’ambiente circostante, che perfino mentre lo fisso ho qualche difficoltà a distinguerlo. Il tetto e i muri sono coperti di neve, e la pietra viva si mimetizza perfettamente nel paesaggio. Sembra antico di centinaia di anni. Non riesco a capire cosa ci faccia qui, chi può averlo costruito, e perché. Forse è stato costruito per il guardiano di un parco statale. Forse era la casa di un eremita. O di un maniaco della sopravvivenza.
Sembra non essere stato toccato per anni. Scruto con attenzione il suolo della foresta, alla ricerca di impronte umane o animali, in entrata o in uscita. Ma non ce ne sono. Ripenso a quando la neve ha iniziato a cadere, diversi giorni fa, e mi faccio i conti in testa. Nessuno entra o esce di qua da almeno tre giorni.
Il pensiero vola all’idea di ciò che potrebbe esserci dentro. Cibo, vestiti, medicine, armi, materiali — qualsiasi cosa sarebbe un dono del cielo.
Mi muovo con prudenza attraverso la radura, controllandomi alle spalle mentre cammino, per assicurarmi che non ci sia nessuno che guardi. Mi muovo rapidamente, lasciando grosse e chiare impronte sulla neve. Raggiunta la porta d’ingresso, mi giro e osservo un’altra volta, poi rimango ferma e mi metto in ascolto. Non si sentono rumori a eccezione di quello del vento e di un ruscello vicino, che scorre a pochi passi davanti la casa. Tendo il braccio e sbatto con forza il dorso del manico dell’accetta sulla porta — producendo un forte rimbombo — per dare un ultimo avvertimento a eventuali animali che si nascondo dentro.
Nessuna risposta.
Apro rapidamente la porta con una spinta — la neve si scosta — ed entro.
È scuro, solo l’ultima luce del giorno filtra attraverso le piccole finestre, e i miei occhi hanno bisogno di qualche momento per abituarsi. Aspetto, rimanendo in piedi con la schiena contro la porta, in guardia nel caso qualche animale stesse usando questo spazio come riparo. Ma dopo diversi secondi di attesa, i miei occhi si sono completamente abituati alla luce fioca ed è chiaro che sono da sola.
La prima cosa che noto di questa piccola casa è il suo calore. Forse perché è così piccola, col soffitto basso e costruita direttamente dentro la pietra della montagna; o forse perché è protetta dal vento. Anche se le finestre aperte sono esposte alle intemperie, e la porta è ancora socchiusa, ci saranno almeno nove gradi in più qui dentro —molto più calda di quanto sia mai stata casa di papà, anche col fuoco acceso. Casa di papà era stata costruita con pochi soldi, i muri erano sottili come carta e rivestiti di vinile; e si trovava sull’angolo di una collina che sembra essere il punto di passaggio preferito del vento.
Ma questo posto è diverso. I muri di pietra sono così spessi e ben fatti, da farmi sentire protetta e riparata qui dentro. Posso solo immaginare come potrebbe diventare caldo questo posto chiudendo la porta, sbarrando le finestre, e accendendo un fuoco nel camino — che sembra essere funzionante.
L’interno è composto da una grande stanza — strizzo gli occhi nel buio mentre perlustro il pavimento, alla ricerca di qualsiasi cosa, davvero qualsiasi, da recuperare. Incredibilmente, sembra che nessuno entri in questo posto dai tempi della guerra. Tutte le altre case che ho visto avevano le finestre frantumate, i detriti sparsi ovunque, ed erano palesemente state ripulite di qualsiasi cosa utile, finanche del circuito elettrico. Ma non questa. È immacolata, pulita e ordinata, come se un giorno il proprietario si fosse alzato e se ne fosse andato. Mi domando se c’era prima che iniziasse la guerra. A giudicare dalle ragnatele sul soffitto, e dalla sua incredibile posizione, così ben nascosta dietro agli alberi, scommetto che c’era anche prima. E che nessuno viene qui da decenni.
Vedo il profilo di un oggetto sul muro, e vado per raggiungerlo, brancolando al buio con le mani tese in avanti. Appena lo tocco con le mani, capisco che è un cassettone. Scorro le dita sopra la sua liscia superficie di legno e le sento riempirsi polvere. Scorro le dita sopra piccoli pomelli — le maniglie dei cassetti. Tiro con delicatezza, aprendoli uno alla volta. È troppo scuro per vedere, quindi infilo la mano in ogni cassetto, perlustrando la superficie. Il primo cassetto non frutta niente. Neppure il secondo. Li apro tutti, rapidamente, e le mie speranze stanno svanendo — quando all’improvviso, al quinto cassetto, mi fermo. C’è qualcosa nella parte posteriore. La tiro fuori lentamente.