II. Prigionia tra i Mori e avventurosa fuga su una scialuppa
Compii così il solo viaggio fortunato fra tutte le avventure della mia vita, e lo dovetti all’integerrima onestà del mio amico, col quale inoltre acquistai una sufficiente cognizione dei princìpi della matematica e della nautica; appresi a valutare la rotta di una nave, a prendere le misure delle altezze, insomma a conoscere i principali rudimenti necessari ad un marinaio, perché lui si divertiva ad insegnare come io ad imparare. A farla in breve, quel viaggio mi rese insieme marinaio ed esperto in commercio, e riuscii a portarmi a casa cinque libbre e nove once di polvere d’oro, che mi resero a Londra circa trecento sterline. Ma ciò mi riempì sempre più la testa di quelle chimere di grandezza che furono poi la mia definitiva rovina. A parte tutto, anche in questo viaggio ebbi le mie disgrazie, e principalmente fui continuamente malaticcio, per una febbre maligna portatami dal caldo eccessivo: il nostro principale commercio lo tenevamo lungo una costa ad una latitudine che andava dai quindici gradi a nord fino all’equatore.
Ero già iscritto tra i trafficanti per la Guinea; ma per mia sventura, poco dopo il ritorno morì repentinamente il mio capitano. Decisi di ripetere lo stesso viaggio e mi imbarcai nella stessa nave che era adesso comandata da chi vi era stato precedentemente secondo. Fu il viaggio più infelice mai fatto, e fu una vera fortuna che non avessi preso con me che cento sterline, dei miei guadagni, lasciando le altre duecento in custodia alla vedova del mio amico.
La prima delle tremende disgrazie di quel viaggio fu la seguente. Mentre la nostra nave veleggiava per le Canarie, o meglio tra tali isole e la spiaggia dell’Africa, venne sorpresa sul far del giorno da un pirata turco di Salé, che cominciò a darci la caccia con tutte le vele spiegate. Anche noi forzammo la velatura per evitarlo; ma vedendo che il pirata guadagnava spazio e ci avrebbe certamente raggiunto in poche ore, ci preparammo a combattere. Avevamo a bordo dodici cannoni, il pirata ne aveva diciotto.
Alle tre dopo mezzogiorno ci trovammo sotto il suo tiro, ma per un errore si portò a ridosso del nostro fianco invece che a poppa, come avrebbe voluto. Riuscimmo a puntargli contro otto cannoni e gli scaricammo addosso una tale bordata da costringerlo a fuggire dopo avere contraccambiato il nostro fuoco con la fucileria di circa duecento uomini, senza però ferire nessuno perché eravamo tutti ben riparati. Poi si dispose ad assalirci di nuovo: ma questa volta venne all’arrembaggio sull’altro fianco del nostro vascello, e ci lanciò sul ponte sessanta uomini che subito spezzarono le vele e misero fuori uso gli attrezzi della nave. Ci difendemmo con moschetti, mezze picche e granate, e per due volte li ricacciammo dal ponte. Ma, per accorciare questa malaugurata parte della nostra storia, essendo rimasta disalberata la nostra nave, e uccisi tre dei marinai e altri otto gravemente feriti, fummo costretti ad arrenderci e venimmo trasportati tutti a Salé, porto dei Mori.
Il trattamento che trovai in questo posto non fu spaventoso come avevo temuto; né venni condotto, come gli altri, alla corte dell’imperatore, ma trattenuto come preda dal capitano del legno corsaro che, trovandomi giovane, snello e assai adatto alle sue necessità, mi volle come suo schiavo. Allo stupefacente cambiamento, che trasformava la mia condizione di mercante in quella di schiavo, mi percosse come una folgore il ricordo delle profetiche parole di mio padre: «Sarai miserabile, e non avrai nessuno che accorra in tuo aiuto». Credevo che quella profezia si fosse avverata, che la mano di Dio mi avesse colpito oltre ogni limite, mi sentivo perduto senza riscatto. Eppure, ahimè, ciò non era che un preludio alla miseria a cui soggiacqui in seguito, come si vedrà dalla continuazione di questa storia.
Avendomi il mio padrone preso in casa sua, speravo che sarei andato corseggiando con lui e che una volta o l’altra sarebbe stato fatto prigioniero da qualche nave da guerra portoghese o spagnola: in ciò vedevo la possibilità d’una mia futura liberazione. Ma questa speranza cadde presto: quando si rimise in mare, mi lasciò a terra a custodire il suo piccolo giardino e a dedicarmi ai soliti lavori da schiavo; e quando tornò dal corseggiare, mi mandò nella cabina della sua nave per farvi la guardia.
Qui pensavo sempre alla mia fuga ed alla possibilità di realizzarla, ma non trovavo nessun espediente che avesse qualche probabilità di riuscita. Per due anni non riuscii a scorgere nessuna confortante prospettiva di liberarmi.
Dopo un paio di anni ci accadde un singolare episodio, che mi rafforzò nel proposito di fare qualcosa per riacquistare la libertà. Il mio padrone, da qualche tempo, rimaneva in casa più del solito senza fare allestire la sua nave, a quanto udii, per mancanza di denaro. Intanto, per svago, aveva preso l’abitudine, due o tre volte la settimana, e anche più spesso se il tempo era bello, di prendere la scialuppa della sua nave e andare al largo a pescare. Prendeva sempre con sé me e un giovane n***o per remare, e noi lo tenevamo allegro, tanto più che ero molto abile nel pescare. Perciò qualche volta mandava con me un Moro, suo cugino, e il giovane n***o, per rifornirgli la tavola di pesce.
Una volta, andando a pescare in una mattina fredda ma tranquilla, si alzò improvvisamente una nebbia così fitta che, sebbene distassimo solo mezza lega dalla riva, la perdemmo del tutto di vista; remando senza sapere dove andassimo, ci affaticammo inutilmente tutto il giorno e la notte successiva, e quando giunse il mattino ci accorgemmo che ci eravamo allontanati invece che avvicinarci alla riva, che era ormai distante oltre due leghe. Alla fine la raggiungemmo, ma non senza fatica e con qualche pericolo, perché il vento aveva cominciato a soffiare gagliardamente quella mattina. Arrivammo infine a casa tremendamente affamati.
Il nostro padrone, messo sull’avviso da questo incidente, pensò a prendere precauzioni per l’avvenire, e decise perciò di non andare più a pesca senza una bussola ed alcune vettovaglie. Presa questa decisione, avendo a sua disposizione la scialuppa della nostra nave inglese da lui catturata, ordinò al suo falegname, che era uno schiavo inglese, di costruire nel mezzo di essa una elegante cabina, come quella di un battello da diporto, con uno spazio di dietro per chi governa il timone e tira le scotte ed uno davanti per chi deve regolare le vele. Usava quelle vele chiamate “spalla di castrato”, e l’albero era sopra la cabina, stretta e bassa, ma che conteneva il letto per lui e una o due schiave, una tavola da mangiare e una piccola dispensa per conservarvi il liquore che avesse voluto bere e principalmente la provvista di pane, riso e caffè.
Andava spesso a pesca su quella scialuppa, e mai senza di me, ché si era accorto ch’io ero molto abile alla pesca. Una volta decise di recarsi per diporto sulla barca in compagnia di due o tre Mori assai stimati nel paese, in onore dei quali aveva fatto straordinari preparativi. Mandate la notte precedente a bordo della scialuppa provviste più abbondanti del solito, mi ordinò di preparare tre moschetti con polvere e pallini, tutti conservati sul suo legno corsaro, perché contava di divertirsi non solo con la pesca, ma anche con la caccia.
Feci diligentemente quanto mi era stato comandato, e la mattina dopo assistei a tutti i lavori riguardanti la pulizia della barca, feci issare la banderuola e la bandiera di comando, insomma quanto bisognava fare per onorare gli ospiti. Dopo poco si presentò solo a bordo il mio padrone, e mi disse che i signori da lui attesi erano impegnati in una faccenda che li costringeva a rinviare la gita; aggiunse che ciò nonostante i suoi amici avrebbero cenato con lui, e mi ordinò di andarmene secondo il solito a pescare col Moro e col negretto sulla scialuppa e portare a casa sua tutto il pesce che avrei preso. Mi disposi ad eseguire tutti questi ordini.
In quel momento mi tornarono in mente le prime idee di libertà: mi trovavo ad avere una specie di piccola nave ai miei comandi, e poiché il mio padrone se ne era andato mi organizzai non per una pesca, ma per un viaggio, benché non sapessi, e neppure ci pensassi molto su, quale direzione avrei seguito. Per me qualsiasi strada mi portasse fuori di lì era buona.
La mia prima astuzia fu quella di trovare un pretesto per mandare il Moro a cercare qualcosa per il nostro vitto, mentre saremmo stati a bordo: perché non dovevamo – gli dissi – consumare le provviste preparate dal nostro padrone. Ci portò un gran canestro di rusk, che è il loro biscotto, e tre orci d’acqua fresca. Io sapevo dove stava la cassa dei liquori che, come appariva chiaramente dalla fattura dei fiaschetti, erano appartenuti a qualche nave inglese predata, e la portai a bordo mentre il Moro stava sulla spiaggia, facendogli credere che vi era stata posta precedentemente per ordine del padrone. Portai a bordo anche un gran pane di cera che pesava oltre mezzo quintale, una certa quantità di spago e di filo, un’accetta, un martello e una sega, che ci furono assai utili in seguito, specie la cera per fare candele. Escogitai un altro trucco, nel quale il Moro cadde egualmente con la massima semplicità. Il suo nome era Ismael, ma lì lo storpiavano in Muley o Moely: e così lo chiamai io:
«Moely», gli dissi, «abbiamo a bordo i moschetti del padrone: perché non andate a prendere un po’ di polvere e di pallini? Può darsi che ci capiti di ammazzare delle alcamie (una specie delle nostre pavoncelle) per noi. Il padrone ha lasciato nel brigantino la sua polvere».
«Sì», rispose, «ne prenderò un poco».
Portò difatti una gran borsa di cuoio che conteneva una libbra e mezzo abbondante di polvere, e un’altra di pallini che pesavano cinque o sei libbre, ed anche alcune palle, e mise tutto nella scialuppa. Al tempo stesso io avevo trovato della polvere del mio padrone nella cabina, e con questa riempii una delle bottiglie di liquore contenute nella cassa, che era quasi vuota, versando il liquore rimasto in un’altra bottiglia. Così, provveduto al necessario, salpammo dal porto per andare a pescare.
Le guardie del castello posto all’ingresso del porto sapevano chi eravamo e non badavano a noi. A più di un miglio dal porto ammainammo la vela e ci sedemmo a pescare. Il vento spirava da nord-nord-est, il che contrariava i miei progetti, perché se avessi avuto vento da mezzogiorno sarei stato sicuro di dirigermi alla costa spagnola e di raggiungere la baia di Cadice; ma qualsiasi fosse il vento che soffiava, non sarei tornato indietro sulla mia risoluzione di abbandonare il triste luogo, dove mi trovavo, lasciando al destino la cura della mia sorte.
Pescammo qualche tempo inutilmente, perché quando i pesci abboccavano non li tiravo fuori per non farli vedere al Moro, e poi dissi a costui:
«Qui non va bene, e così non possiamo servire il nostro padrone. Dobbiamo andare a pescare più al largo».
Non sospettava nulla e fu d’accordo con me. Trovandosi a prua, alzò di nuovo le vele. Io feci avanzare di una lega la scialuppa, poi la misi in panna, come se stessi per fermarmi a pescare. Poi, lasciato il ragazzo al timone, raggiunsi il Moro e abbassatomi come per raccogliere qualcosa che mi fosse caduta, lo colsi di sorpresa, mettendogli un braccio tra le gambe e di netto lo feci saltare dal bordo della scialuppa in mare. Appena emerso – ché sapeva nuotare come un pesce – quel povero diavolo mi chiamava supplicandomi di riprenderlo sulla scialuppa, dicendosi disposto a venire anche in capo al mondo insieme a me. Nuotava così vigorosamente che ci avrebbe presto raggiunto perché spirava un vento leggerissimo. Corsi in cabina, impugnai uno dei moschetti, e lo presi di mira dicendogli:
«Non vi farò nessun male, se mi obbedite. Siete abbastanza abile al nuoto da raggiungere la spiaggia, e il mare è tranquillo. Ma se continuate ad avvicinarvi alla scialuppa vi farò scoppiare il cervello, perché sono deciso a guadagnarmi la mia libertà».