I. Robinson lascia la casa paterna e prende a navigare.-2

2588 Words
Tuttavia dovetti subire un’altra prova che avrebbe potuto farmi ravvedere, perché la Provvidenza, come fa di solito, aveva deciso di lasciarmi privo di scuse; e davvero, sebbene non avessi voluto vedere un salutare ammonimento nella prima prova, la seconda sarebbe stata tale che anche il peggiore tra noi, l’uomo più duro di cuore, non avrebbe potuto non riconoscere il pericolo e insieme la grandezza della divina misericordia. Dopo sei giorni di navigazione toccammo le spiagge di Yarmouth: essendoci stato contrario il vento ed avendo trovato poi bonaccia, dopo la tempesta avevamo fatto ben poca strada. A Yarmouth fummo costretti ad ancorarci, e vi rimanemmo sette o otto giorni, perché soffiava contrario un persistente vento di libeccio. In quei giorni parecchie grosse navi provenienti da Newcastle arrivarono alle stesse spiagge, che rappresentavano un rifugio comune dove ogni nave poteva attendere il vento propizio per raggiungere il Tamigi. Ma non era indispensabile rimanere all’ancora così a lungo, ed avremmo potuto addentrarci facendo fronte alla marea, se il vento fosse stato meno forte. Dopo quattro o cinque giorni divenne poi fortissimo. Ma quelle spiagge venivano considerate un ottimo porto, le nostre ancore erano solide e i nostri attrezzi pure: la nostra brigata non si preoccupò, e senza sospettare il pericolo impiegammo il tempo nel riposo e nell’allegria, come usano i marinai. Ma l’ottavo giorno il vento aumentò in modo terribile, e tutte le braccia furono messe al lavoro per abbassare i nostri alberi di gabbia e serrare e imbragare tutto, in modo da consentire alla nave di rimanere all’ancora senza danni. Verso mezzogiorno il mare si fece altissimo; il nostro castello di prua pescava acqua, la nave ricevette a bordo parecchie ondate, e due o tre volte tememmo che l’ancora arasse il fondo senza tenerci. Il capitano ordinò allora che si gettasse l’ancora di soccorso. Eravamo così tenuti da due ancore a prua, e le gomene erano tese da un capo all’altro della nave. Fu allora che la burrasca scoppiò spaventosa: cominciai a leggere la paura e l’avvilimento sui volti dei marinai. Il capitano continuava con la massima attenzione a controllare la situazione; ma mentre rientrava nella sua cabina e mentre ne usciva lo udii parecchie volte mormorare «Dio, abbiateci misericordia, o siamo perduti!» e cose del genere. Durante le prime avvisaglie io ero rimasto istupidito nella mia cabina, posta di fronte a quella del capitano, né riuscirei a descrivere il mio stato d’animo. Sapevo ancora ripetere quei primi pentimenti che avevo così apertamente dimenticati e contro i quali il mio cuore si era indurito; pensavo anche che quell’orrore mortale sarebbe passato, che anche quella tempesta sarebbe finita come la prima. Ma quando lo stesso capitano, passandomi accanto, mormorò, come ho raccontato, che eravamo perduti, non so dire come rimasi spaventosamente atterrito. Uscito in fretta dalla cabina guardai fuori. I miei occhi non avevano mai visto uno spettacolo così spaventoso: il mare si accavallava in montagne che si rompevano su di noi ogni tre o quattro minuti. Quando potei guardarmi attorno, mi accorsi che eravamo circondati dalla desolazione: due navi, che erano all’ancora vicino a noi, per alleggerire il carico avevano tagliato gli alberi lungo la coperta; la nostra ciurma gridava che una nave, ancorata a circa un miglio da noi, stava affondando. Altre due navi, strappate le ancore, andavano alla deriva dopo aver perduto gli alberi. Le imbarcazioni più piccole se la cavavano meglio, perché erano meno sballottate dal mare; eppure ci sfiorarono due o tre di esse, in balìa delle onde, con le sole vele di civada, a prua, esposte al vento. Verso sera il nostromo e il pilota proposero al capitano di tagliare l’albero di trinchetto. Il capitano esitava: ma quando il nostromo affermò che se egli continuava ad opporsi a questo provvedimento, la nave sarebbe colata a picco, finì per acconsentire. Ma quando l’albero di trinchetto fu tagliato, quello di maestra, rimasto isolato, prese a dare tali scossoni alla nave che bisognò tagliare anche esso, ed il ponte rimase del tutto spoglio. Lascio immaginare al lettore in che condizioni mi trovassi, a questo punto, io che ero tanto inesperto di mare da essere rimasto spaventato prima per una faccenda da poco. Pure, se dopo tanto tempo riesco a ricordare i pensieri che allora mi si agitavano in mente, mi sovviene che ero più spaventato al pensiero della ribalderia con cui avevo rinunziato al mio pentimento per tornare alle antiche risoluzioni, che a quello stesso della morte. Questi pensieri mi gettarono, assieme allo spavento della burrasca, in uno stato tanto deplorevole che non vi sono parole per descriverlo. Ma il peggio non era ancora venuto: la tempesta imperversava con tanto furore che i più esperti marinai confessavano di non averne mai vista una peggiore. Avevamo, sì, una buona nave, ma enormemente carica, e si abbassava tanto che i marinai gridavano ad ogni momento: «Sta per andare per occhio!». Per fortuna non sapevo allora che “andare per occhio” nel linguaggio dei marinai significava affondare, e solo dopo domandai il significato della frase. La tempesta era così violenta che vidi, cosa piuttosto insolita, il capitano, il nostromo ed alcuni altri tra i più esperti della ciurma, inginocchiarsi a pregare come se attendessero di vedere la nave ingoiata dalle onde da un momento all’altro. Nel mezzo della notte, come se non avessimo abbastanza disgrazie, un marinaio che era sceso nella stiva per un controllo gridò forte: «Si è aperta una falla!», e un altro «L’acqua è alta quattro piedi sopra la stiva!». Tutte le braccia vennero chiamate alle pompe. A quelle grida io m’ero sentito schiantare il cuore ed ero caduto riverso sul letto dove ero seduto. Ma gli altri vennero a scuotermi da quella specie di letargo, gridandomi: «Ehi, voi, che non servivate a niente prima, adesso potete tirar su l’acqua al posto di un altro!». A questo invito mi mossi e, recatomi alla pompa, lavorai di buona lena. Intanto il capitano, visti alcuni leggeri palischermi che, incapaci di difendersi dalla burrasca e costretti ad abbandonarsi in balìa delle onde, non riuscivano ad avvicinarsi a noi per soccorrerci, diede ordine che si sparasse il cannone, come segnale di disgrazia. Io, che ne ignoravo il significato, rimasi così sbalordito che immaginai che fosse naufragata la nave, o qualcosa del genere. Non vi dico altro: fu tale lo spavento che caddi svenuto. Siccome era un momento in cui ognuno badava solo a se stesso, nessuno ci fece caso. Un altro uomo mi sostituì alla pompa, e buttatomi da parte con un calcio mi abbandonò lì, credendomi forse morto. E ci volle parecchio tempo prima che recuperassi i sensi. Continuammo a lavorare: ma l’acqua saliva sempre nella stiva, e tutto lasciava pensare che la nave stava per affondare. Sebbene la tempesta accennasse a placarsi, non c’era possibilità di farla rimanere a galla il tempo sufficiente per entrare in porto, e quindi il capitano ordinò di continuare a sparare per chiedere soccorso. Un bastimento leggero che stava all’ancora dinnanzi a noi si arrischiò a mandarci una imbarcazione. Con grave pericolo questa si avvicinò al fianco della nostra nave, ma né a noi era possibile lanciarsi verso di essa, né essa riusciva a giungere a ridosso del nostro legno pericolante. Finalmente quei marinai, vogando di tutto cuore e rischiando le proprie vite per salvare le nostre, ci vennero abbastanza vicini. I nostri uomini da poppa lanciarono in mare una corda col segnale galleggiante attaccato in fondo; poi la filarono per una lunghezza sufficiente da farla raggiungere dai marinai sulla barca, che vi si attaccarono. Potemmo così tirare l’imbarcazione tanto vicina che ci riuscì a tutti di saltarvi dentro. Raggiunta la barca, non conveniva né a noi né a loro tornare verso la loro nave. Fummo tutti d’accordo a costeggiare e vogare verso riva. Il nostro capitano promise che se la barca si fosse rotta contro la spiaggia, avrebbe risarcito i danni al proprietario. In parte remando, in parte abbandonandoci alla marea verso tramontana, la barca arrivò di sghembo nei pressi di Winterton Ness. Non era passato un quarto d’ora dacché avevamo abbandonato la nostra nave quando la vedemmo affondare, e allora compresi per la prima volta cosa volesse dire “andare per occhio”. Devo confessare che me ne ero reso poco conto quando i marinai mi avevano parlato di questo pericolo, perché ero così fuori di me che, quando dovetti abbandonare la nave, fui gettato nella barca, più che esserci disceso io. Il mio cuore era come morto, sia per il terrore che mi incombeva, sia per il timore di quanto poteva ancora accadere. Eravamo in balìa dei flutti e i rematori cercavano disperatamente di avvicinare la barca alla spiaggia. Ogni volta che la barca veniva sollevata sulla cresta di un’onda, potevamo scorgere la terra e la folla per le strade, pronta ad aiutarci appena fossimo stati vicini; ma avanzavamo ben lentamente verso la spiaggia, e riuscimmo a raggiungerla solo quando, passato il faro di Winterton, la costa piegava a ponente in direzione di Cromer, rompendo quindi un poco la violenza del vento. Qui finalmente, e non senza difficoltà, prendemmo terra sani e salvi. Arrivammo con le nostre gambe fino a Yarmouth, dove fummo accolti con una umanità corrispondente alla nostra grande sciagura, sia dalle autorità della città – che ci fecero assegnare dei buoni alloggi – sia dai privati, negozianti e proprietari di navi. Ci fu pure elargito denaro bastante per andare a Londra o tornare a Hull, come ci fosse meglio piaciuto. Se avessi avuto abbastanza senno da attenermi alla seconda possibilità e tornare a casa, sarebbe stata certamente una grande fortuna per me; mio padre, come nella parabola del nostro Salvatore, avrebbe certo anch’egli fatto macellare un grasso vitello al mio arrivo. Il pover’uomo, infatti, avendo appreso che la nave con la quale ero partito era naufragata davanti alle coste di Yarmouth, credette per molto tempo ch’io fossi annegato. Ma la mia cattiva sorte mi trascinava con una tenacia alla quale nulla poteva resistere; e benché parecchie volte sentissi i richiami della ragione e delle più pacate mie riflessioni, pure non ebbi la forza di arrendermi a queste voci. Il mio compagno, quello stesso che aveva tanto contribuito a confermarmi nei miei tristi propositi, che era figlio come dissi del capitano, si mostrò anche meno coraggioso di me quando gli parlai la prima volta dopo il nostro arrivo a Yarmouth, cioè dopo due o tre giorni, perché eravamo in alloggi separati. La prima volta che lo vidi, dunque, aveva un modo di fare molto diverso dal solito ed un aspetto molto malinconico, quando gli chiesi come stesse. Era in compagnia di suo padre, al quale raccontai chi fossi e come avessi intrapreso quel viaggio solo per esperimento, con l’idea di andare molto più oltre. Il capitano, guardandomi, mi disse con accento grave e solenne: «Ragazzo mio, dovete abbandonare ogni pensiero di rimettervi per mare, e vedere in quanto è accaduto un chiaro segno che la vostra vocazione non è quella del marinaio». «Perché, signore?», gli chiesi. «Forse voi non contate di tornare in mare?» «Il mio caso è diverso: navigare è la mia professione e quindi anche il mio dovere. Ma dato che voi avete fatto questo viaggio per prova, dal gusto che ne avete ricavato potete capire quanto ne ritrarreste ancora, se persisteste in questo proposito. Forse la disgrazia che ci è toccata ci è venuta per causa vostra, come accadde alla nave di Tarso che portava Giona. Ditemi, per quale combinazione vi trovaste imbarcato con noi?». Gli raccontai qualcosa della mia storia, e allora si abbandonò ad una singolare collera, quando ebbi finito di parlare: «Giovanotto», concluse, «state sicuro che, se non tornate indietro, dovunque andiate non troverete che disastri e guai, finché i presagi di vostro padre non si saranno interamente avverati». Dopo queste parole ci separammo, ché avevo ben poco da rispondergli: non lo vidi più. Che sia accaduto di lui lo ignoro. Quanto a me, avendo un po’ di denaro nella borsa, mi avviai per terra a Londra, e sia lungo il cammino che in quella città fui molto perplesso sul genere di vita che avrei abbracciato, indeciso tra il tornare a casa e il rimettermi in mare. Per quanto riguarda il tornare a casa, la vergogna soffocava i migliori proponimenti che mi venivano in mente, perché ciò a cui pensavo subito era la derisione che avrei trovato tra i miei concittadini; arrossivo all’idea di rivedere, non solo mio padre e mia madre, ma qualunque altra persona. Da allora ho fatto spesso questa considerazione: quanto, cioè, sia incoerente ed assurda l’indole umana nello stabilire i princìpi che ci dovrebbero razionalmente guidare. Non si ha vergogna della colpa, ma del pentimento; non ci vergogniamo di un’azione che ci merita giustamente la fama di stolti, ma di un ravvedimento che ci farebbe guadagnare invece la nomea di saggi. Per qualche tempo rimasi, ad ogni modo, incerto sul partito al quale attenermi; ma prevaleva sempre l’insormontabile ostilità a tornare a casa. E mentre durava questa indecisione, il ricordo dei precedenti disastri svaniva del tutto, e con esso ogni tendenza a tornare. Per cui, finalmente, abbandonata ogni idea del genere non pensai ad altro che ad intraprendere qualche viaggio. La malaugurata mania che mi portò la prima volta lontano dalla casa paterna, che seminò nella mia mente il desiderio vago e mal inteso di far fortuna, che s’impossessò di me al punto da rendermi sordo a tutti i buoni consigli, alle preghiere e persino agli ordini di mio padre, quella stessa sventurata mania mi spinse a scegliere la più sventurata impresa della mia vita: mi imbarcai su una nave diretta alla costa dell’Africa, o, come usano dire gli uomini di mare, ad un viaggio in Guinea. Fu una grossa sventura in tutte queste spedizioni che non mi imbarcassi mai come marinaio. Avrei certamente sofferto molto, ma avrei anche imparato i doveri e il mestiere di un marinaio, ed avrei potuto a suo tempo diventare pilota o ufficiale, se non capitano; ma siccome il mio destino era quello di scegliere sempre il peggio, così mi comportai anche in quella occasione, ed essendo ancora provveduto di denaro e ben vestito, volli salire a bordo in qualità di passeggero. Avevo avuto la fortuna di conoscere a Londra un eccellente compagno; una fortuna che non capita sempre a giovani scapestrati e spensierati come ero io in quel tempo, poiché il demonio, in genere, non dimentica mai di tendere presto insidie alla gioventù. La mia prima conoscenza era stata dunque con un capitano che veniva dalla costa della Guinea e che, avendo ottenuto buoni risultati con quel viaggio, era deciso a ritornarvi. La mia conversazione, che in quel tempo non era sgradevole, gli piacque, e avendo appreso che volevo vedere il mondo mi propose: «Se voleste venire con me, non sopportereste nessuna spesa; sareste mio compagno e mio commensale, e se potete portare qualche merce con voi, ne ritrarreste dei buoni vantaggi commerciali, tali forse da incoraggiarvi a maggiori iniziative, successivamente». La proposta venne accettata subito, e, entrato in cordiale amicizia col capitano che era davvero un uomo onesto e lealissimo, mi imbarcai con lui portando con me un po’ di paccottiglia che, grazie alla disinteressata onestà del mio amico capitano, aumentai considerevolmente. Portai con me circa quaranta sterline in quegli oggettini e cianfrusaglie che il capitano stesso mi suggerì di acquistare. Queste quaranta sterline le avevo messe insieme grazie all’aiuto di alcuni parenti coi quali avevo mantenuto dei rapporti, e che credo erano riusciti ad indurre mio padre, o almeno mia madre, a mandarmi questa somma per la mia prima prova.
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