I.Nelle profondità di una foresta, la cui fronzuta superficie era percossa dalla vivida luce di una radiosa giornata di giugno, mentre tra le ombre sottostanti i tronchi degli alberi si levavano, cupamente solenni, risuonava un’eco di voci che si chiamavano a vicenda. I richiami erano di toni diversi e provenivano evidentemente da due uomini i quali avevano smarrito la via e stavano cercando di rintracciare il proprio sentiero in direzioni diverse. Rimbombò finalmente un grido di vittoria. E di lì a poco uscì dall’intrico labirintico di un breve fossato una figura d’uomo che avanzò sino a una radura, la quale sembrava essersi formata in parte per le devastazioni del vento, in parte per le distruzioni del fuoco. Questa piccola chiarita, che consentiva la vista di un buon tratto di cielo, si allungava sul fianco di una delle tante colline alte, o basse montagne, da cui era accidentata quasi tutta la superficie della regione circostante.
«Finalmente un po’ di spazio per respirare!», esclamò il forestale uscendo all’aperto e scuotendo l’enorme corporatura al pari di un mastino che si sia allora allora posto in salvo da un banco di ghiaccio: «Evviva, Cacciatore-di-Daini! Ecco la luce del giorno, finalmente, ed ecco laggiù il lago».
Aveva appena proferite queste parole che anche il secondo forestale uscì dai cespugli dell’acquitrino, apparendo nella radura. Dopo essersi sommariamente rassettate le vesti, scompigliate dal cammino nella foresta, questi si unì al compagno che già aveva iniziato i preparativi per una breve sosta. «Conosci questo luogo?», domandò colui che l’altro aveva chiamato Cacciatore-di-Daini, «oppure gridi di gioia alla semplice vista del sole?».
«Grido per una ragione e per l’altra, amico; conosco il luogo e non mi dispiace di ritrovare un compagno provvidenziale qual è il sole. Ma finalmente ci siamo rificcati in testa i quattro punti cardinali e sarà tanto peggio per noi se torneremo a perdere la bussola come è capitato poco fa. Non mi chiamo Hurry Harry1 se questo non è lo stesso posto nel quale si sono accampati l’estate scorsa e vi hanno trascorso una settimana i cercatori di terre. Guarda, laggiù ci sono ancora i rami secchi del loro rifugio, e qui c’è la sorgente. Ma per quanto mi piaccia il sole, ragazzo mio, non ho bisogno di lui per sapere che è mezzogiorno; il mio stomaco funziona quanto il migliore orologio della Colonia, e ad ascoltarlo sono già le dodici e mezzo. Apri dunque la bisaccia, e ricarichiamoci per un’altra marcia di sei ore».
Al che si diedero entrambi a sbrigare i preparativi necessari per approntare il pasto, come al solito frugale ma sostanzioso. Approfitteremo di questa pausa nel loro discorso per dare al lettore un’idea dell’aspetto fisico di questi due uomini, destinati entrambi ad avere nel nostro racconto una parte tutt’altro che insignificante. Sarebbe stato difficile trovare un esempio di più nobile e più gagliarda virilità di quello offerto da colui che si autodefiniva Hurry Harry. Il suo vero nome era Henry March, ma la gente di frontiera aveva appreso dagli indiani l’usanza di appioppare soprannomi; perciò veniva chiamato assai più spesso Hurry che non con il suo appellativo vero e proprio, e non di rado era detto anche Hurry Skurry2, nomignolo causato dai suoi modi audaci, temerari, scanzonati, e da una irrequietudine fisica che lo teneva costantemente sulle mosse e lo aveva fatto conoscere lungo tutto il percorso disseminato di abitazioni isolate che si stendeva tra quella regione e il Canada. La statura di Hurry Harry superava i due metri, e poiché era meravigliosamente proporzionata, la forza che emanava da lui rispondeva a perfezione all’idea suggerita dalla sua corporatura gigantesca. In quanto al viso esso non screditava il resto della persona, essendo a un tempo bello e bonario. Emanava da tutto il suo essere un senso d’indipendenza e, benché i suoi modi non potessero essere forzatamente scevri da una certa rudezza insita in tutti gli abitatori di frontiera, la solennità che ispirava un fisico così nobile gli impediva di cadere nel volgare.
Cacciatore-di-Daini, come Harry chiamava il compagno, era una persona di aspetto e di temperamento assai diversi. In quanto a statura, mocassini compresi, era sul metro e ottanta, ma di struttura relativamente fragile e snella, sotto la quale però si rivelavano muscoli dotati, se non di forza insolita, certo di eccezionale agilità. Il suo viso non offriva nulla di speciale all’infuori della giovinezza, ma aveva in sé un’espressione che raramente mancava di conquistare coloro che avevano la possibilità di notarla, cedendo così irresistibilmente al senso di fiducia che emanava da essa. Questa espressione altro non era che una irradiazione di schiettezza assoluta, accompagnata da una serietà di propositi e da una sincerità di sentimenti che la rendevano inconfondibile. A volte questa aria d’integrità appariva talmente semplice da risvegliare il sospetto di una carenza dei consueti mezzi di discriminazione tra artificio e verità; ma ben pochi erano coloro che, conosciutolo a fondo, non si spogliassero di questa diffidenza circa le sue opinioni e i suoi intenti.
Questi uomini di frontiera erano ancora giovani entrambi; Hurry era sui ventott’anni, mentre Cacciatore-di-Daini gli era di parecchi anni più giovane. Il loro vestire non richiederà una descrizione particolare, benché sia forse opportuno aggiungere che si componeva in buona parte di pelli di daino conciate, e offriva i consueti indizi del vestire di coloroche trascorrevano a quel tempo i loro giorni fra le estreme propaggini del mondo civile e le foreste sterminate. Vi era però, ciononostante, una certa ricercatezza di eleganza e di pittoresco nell’abbigliamento di Cacciatore-di-Daini, soprattutto per quel che riguardava le sue armi e il suo equipaggiamento. La sua carabina era in condizioni perfette e il manico del suo coltello da caccia era minutamente scolpito, il corno in cui conservava la polvere da sparo era ornato di motivi ispirati alla caccia e la sua cartucciera era tutta infiorata di conchiglie. Hurry Harry invece, o per la sua trascuratezza congenita, o per una segreta consapevolezza di quanto poco abbisognasse la sua prestanza fisica di aiuti artificiali, indossava qualsiasi cosa con noncuranza, quasi provasse un nobile disprezzo per tutti i vani accessori del vestire e dell’ornamento. Ma forse questa indifferenza sdegnosa e comunque non studiata aumentava anziché diminuire l’effetto insolito prodotto dalla sua aitante persona.
«Andiamo, Cacciatore-di-Daini, fatti sotto, e mostra di possedere uno stomaco di Delaware e non soltanto un’educazione di Delaware, come sei solito vantarti», gridò Hurry, e diede il buon esempio aprendo la bocca per infilarvi una fetta di cacciagione fredda che avrebbe fornito a un contadino europeo un intero pasto; «fatti sotto, figliolo, e mostra su questa povera diavola di daina la forza della tua virilità anche con i tuoi denti, come già hai fatto con la tua carabina».
«Eh, Hurry, non occorre grande virilità per ammazzare una daina, e fuori stagione per giunta; anche se possa esservene una certa dose nell’abbattere una pantera o un giaguaro», replicò l’altro disponendosi a ubbidire all’invito del compagno. «I Delaware mi hanno dato questo soprannome non tanto per l’audacia del mio cuore, quanto per la prontezza del mio occhio e l’agilità del mio piede. Non c’è nessuna vigliaccheria nel prevalere su una daina, ma neppure grande coraggio»
«Per quel che li riguarda personalmente, però, i Delaware sono tutt’altro che eroi: se lo fossero non avrebbero mai permesso a quei vagabondi saltatori di Mingo di ridurli femmine».
«Questo è un punto che non è mai stato ben chiarito o compreso», replicò con veemenza Cacciatore-di-Daini, il quale era fervente come amico, quanto il suo compagno era pericoloso come nemico; «i Mingo riempiono i boschi delle loro menzogne, e disconoscono parole e trattati. Io vivo con i Delaware da dieci anni, ormai, e li conosco per gente virile quanto qualsiasi altra, quando si presenti il momento giusto di colpire».
«Ascolta, Messer Cacciatore-di-Daini, dal momento che siamo sull’argomento converrà che ci diciamo quello che pensiamo da uomo a uomo. Rispondi a questa sola domanda: tu devi aver avuto per quel che riguarda la selvaggina molta fortuna, lo dimostra del resto il tuo appellativo, ma hai mai colpito un essere umano o comunque dotato di ragione, hai mai premuto il grilletto contro un nemico capace di fare altrettanto nei tuoi confronti?»
Questa domanda produsse nell’animo del giovane una curiosa lotta di sentimenti, preso com’era tra la mortificazione e il bisogno di dire la verità, lotta facilmente discernibile nel tormento delle sue ingenue fattezze, ma fu un confitto breve, ché la sua dirittura morale ebbe ben presto il sopravvento su ogni falso orgoglio e vanteria, difetti in genere caratteristici della gente di frontiera.
«Per dire la verità, non mi è mai capitato, anche perché non mi se n’è mai offerta l’occasione propizia», rispose Cacciatore-di-Daini. «I Delaware si sono sempre mostrati pacifici, durante tutto il mio soggiorno presso di loro, e io ritengo che sia sleale prendere la vita di un uomo se non in guerra aperta e generosa».
«Cosa! Non hai mai trovato un tizio che tentasse di rubacchiare tra i tuoi calappi e le tue pelli, e non hai cercato di farti giustizia da solo, con le tue mani, risparmiando così un sacco di noie ai magistrati dei Possedimenti e al farabutto le spese del processo?».
«Io non sono un trapper, Hurry», rispose orgogliosamente il giovane; «io vivo della mia carabina, arma con la quale mi sentirei di gareggiare con qualsiasi uomo della mia età tra l’Hudson e il San Lorenzo. Non offro mai una pelle che non abbia un buco nella testa oltre a quelli fattivi da madre natura per vedervi o respirarvi attraverso».
«Eh, eh, questo ragionamento va benissimo per quel che riguarda il mondo animale, ma fa una meschina figura quando si tratta di scotennamenti e di imboscate. Sparare a un indiano da dietro a un cespuglio significa agire secondo i suoi stessi principi, e ora che abbiamo per le mani quella che tu chiami una guerra legittima, quanto più presto ti sbarazzerai di simili calamità, tanto più sodo dormirai, se i tuoi sonni dipendono soltanto dal sapere che esiste nei boschi un nemico di meno in agguato. Non frequenterò a lungo la tua compagnia, amico Natty, a meno che tu non aspiri a un bersaglio ben più alto di qualche miserabile animale a quattro zampe su cui esercitare la tua carabina».
«Il nostro viaggio è già bell’e terminato, se tu pensi questo, Padron March, e possiamo separarci stasera stessa, qualora ti sembri opportuno. Io ho un amico che mi aspetta, il quale non ritiene affatto vergognoso accompagnarsi a un uomo che non ha mai ucciso un suo simile».
«Pagherei non so quanto per sapere che cosa ha portato in questo tratto di paese e così fuor di stagione quella gatta morta di un Delaware», borbottò Harry tra i denti per mettere bene in mostra la propria diffidenza e al tempo stesso quasi il dispetto di dover rivelare il suo pensiero. «Dove devi incontrarti con il giovane capo, hai detto?».
«Presso una roccia piccola e rotonda, vicino alla riva del lago, dove, mi dicono, le tribù si riuniscono per stringere alleanze e per seppellire le asce di guerra. Ho spesso udito parlare dai Delaware di questa roccia, sebbene tanto questa quanto il lago mi siano parimenti sconosciuti. Il territorio è conteso dai Mingo e dai Mohicani contemporaneamente, e rappresenta una specie di terreno comune di caccia e di pesca: questo in tempo di pace; in guerra il Signore soltanto sa quello che può diventare!»
«Terreno comune!», esclamò Harry, scoppiando in una sonora risata.
«Mi piacerebbe sapere che cosa ribatterebbe a queste parole Tom Hutter! Egli sostiene che il lago sia proprietà sua, in virtù di un possesso di quindici anni, e non ha intenzione di darlo via senza lottare né a Mingo né a Delaware».
«E la Colonia che ne pensa di un fatto simile? Il territorio deve pur avere un proprietario, e l’ingordigia dei signori aspira al possesso di queste solitudini, anche se non osano arrischiarsi di persona a darvi una occhiata sia pure superficiale».
«Questi sistemi potranno andare in altri settori della Colonia, Cacciatore-di-Daini, ma certo non qua. A eccezione del Signore non un solo essere umano possiede sia pure un palmo di terreno in questo tratto di paese. Come ho inteso dire più volte dal vecchio Tom, non si è mai messo inchiostro su carta, per quanto riguarda queste colline e queste valli che ci circondano; perciò egli ne reclama il diritto di prelazione su ogni altro essere vivente; e Tom è tipo da sostenere quello che asserisce».