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Smilzo, così si fece chiamare il più longilineo della squadra per via della sua incredibile magrezza, non era di certo un pilota improvvisato, e si capiva da come guidava sicuro e preciso. Con abilità sfrecciava a centottanta all’ora sull’autostrada in direzione zona delle Asturie, in piena Maremma toscana, una delle aree più belle della Regione, se non dell’Italia intera. Nonostante il traffico intenso, la viabilità era scorrevole, molto del merito andava imputato ai lampeggianti e alle potenti sirene che suggerivano agli automobilisti che era meglio spostarsi e dare spazio al gruppo delle due auto. La capofila era quella guidata dallo Smilzo, al suo fianco il Capo in perfetto silenzio, dietro trovava spazio Pulcinella che comunicava, in costante contatto radio, con la sede operativa della Questura e con l’equipaggio dell’altro veicolo occupato dai colleghi. Alla centrale erano rimaste le due donne: Pina, nomignolo affidatole per una rassomiglianza con la moglie del Fantozzi cinematografico e Rosy che scelse il nome della nonna, scomparsa da pochi mesi e alla quale era molto legata. La seconda auto era pilotata da Nanni che faticava non poco a rimanere incollato alla macchina del collega, a fianco Pupo e dietro Savio e Nick, quest’ultimo aveva scelto il nomignolo con scarsa fantasia. Quando gli spiegarono che doveva trovare un nickname, un soprannome, scelse proprio quello: Nick, appunto. Tutti i componenti della squadra erano eccitati, stavano entrando in azione lo stesso giorno dell’arrivo del loro nuovo Capo e la curiosità di vedere il “maestro” sul campo, li riempiva di adrenalina. Da quel che si vociferava nell’ambiente, il Capo era un portento investigativo, si intendeva di norme, regolamenti, leggi, tecnologia, psicologia criminale, medicina legale. Insomma uno navigato, che ne aveva viste di cotte e di crude. Soprattutto cadaveri, lui ne aveva contati a centinaia e di ogni tipo nei dieci anni passati all’Antimafia. Il Capo era colui che aveva maggiormente contribuito a smantellare più di tre quarti delle famiglie mafiose dell’Isola, ponendo freni anche all’azione internazionale, soprattutto quella economica derivante dallo spaccio di stupefacenti delle varie Cosche. Questi risultati furono possibili solo con bagni di sangue e grosse perdite sia fra i criminali sia fra le Forze dell’Ordine. Autentiche carneficine al cui confronto il loro primo caso poteva essere considerato una passeggiata per il loro Capo. Così non era, per Alfonsi la morte era sempre una tragedia, anche sua personale. Tre anni prima la moglie e il figlioletto di appena due anni erano stati massacrati davanti ai suoi occhi. La Mafia gli aveva teso un agguato, un avvertimento senza pietà, in cui uccisero a sangue freddo la moglie e il piccolo lasciando solo lui vivo, seppur ferito a una gamba. Allora la Mafia gli lanciò un messaggio chiaro e inequivocabile.
«Smettila di occuparti di cose che non ti riguardano!» gli disse il killer mentre sparava il colpo di grazia alla moglie e al figlio lasciando Alfonsi al colmo della disperazione.
Non aveva subito il ricatto, era riuscito a reagire gettandosi a capofitto nel lavoro, senza istinti di vendetta, almeno all’apparenza, ma con sete di giustizia. Alfonsi non rideva, non si divertiva come molti altri colleghi, magari più per scaricare l’adrenalina dell’azione che non per volontà ludica. Lui non passava mai una notte tranquilla, dormiva raramente e aveva sempre il sonno agitato, il ricordo dei suoi cari e la scena della loro morte erano ormai scolpiti nella sua mente, quei pensieri lo accompagnavano da anni. Grosseto, per lui, significava riprendere a vivere normalmente, per quanto gli fosse possibile. Questa era la sua speranza, cambiare vita, allontanarsi dai luoghi che lo tenevano incollato al ricordo, passare oltre o semplicemente sopravvivere. Il suo primo caso Alfonsi lo stava vivendo così, come un voltar pagina, una nuova fase, non solo professionale. Un cadavere come tanti già visti, l’ennesimo. Non stava cambiando di molto il suo lavoro, pensò. Almeno questo cadavere, disse fra sé, non è certo un morto di Mafia. Una simile e semplice constatazione era già un buon inizio, una svolta professionale e un cambio radicale di vita. Ne aveva abbastanza di Mafie che lo facevano sempre pensare alla morte dei suoi cari. Giunsero nei pressi del castello, le auto presero il sentiero che li avrebbe portati all’apice della collina, ai bordi della stradina alti cipressi creavano la giusta cornice a quel paesaggio incredibilmente verde. Arrivarono innanzi all’imponente struttura, un castello enorme, lì il tempo sembrava essersi fermato a cinquecento anni prima se non fosse stato per le numerose auto di Polizia, Carabinieri, Vigili del Fuoco, l’Ambulanza e qualche camioncino della Polizia Scientifica. Fuori, sotto lo scalone d’ingresso, un cordone di agenti, fra Carabinieri e Poliziotti, teneva a bada un nugolo di giornalisti e cine reporter, giunti numerosi. Alfonsi scese dall’auto e sventolò il distintivo al Carabiniere che si era avvicinato; verificato l’alto grado dell’uomo, il milite si pose sull’attenti e gli offrì il classico saluto militare.
«Come mai i giornali e le TV sono arrivati prima di noi?» chiese indispettito Alfonsi.
Il milite scrollò le spalle e rispose. «Sapevano già tutto. La contessa è donna nota soprattutto per la sua mondanità, sicuramente alcuni paparazzi la stavano seguendo. Dopo che gli operai l’hanno avvisata del ritrovamento del cadavere, è giunta di corsa al castello, veniva direttamente dall’ennesima festa, lì c’erano molti giornalisti di testate scandalistiche, poi la voce è girata in un secondo e il risultato lo può notare anche lei».
«Chi sta coordinando le indagini, finora?» chiese Alfonsi.
«Io, ma sono informato che è lei che comanda», rispose quasi sollevato il Maresciallo, «quindi il caso è tutto suo. Voglio dirle che sono onorato di mettermi a sua disposizione, dottor Alfonsi, la sua fama…».
«Sì, sì, ho capito», Alfonsi non gradiva i complimenti o le false lusinghe e stoppò il milite, «voleva dire che la mia fama mi ha preceduto. Ormai questa frase fatta inizio a odiarla».