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«Vai all’inferno, stronza!».
Queste furono le ultime parole che Robert mi gridò, prima di allungarsi per chiudere la portiera del passeggero e ripartire con uno stridore di gomme.
«La mia borsa, bastardo!» strillai, ma il paraurti posteriore della sua BWM si limitò ad allontanarsi lungo la strada, accelerando sempre più.
Mi allontanai dalla carreggiata. Non sapevo neppure con precisione dove fossi. Robert Hare, il mio cosiddetto accompagnatore, era stato decisamente ansioso di accontentarmi, quando gli avevo detto di farmi scendere immediatamente, così ansioso da non avermi lasciato il tempo di recuperare la borsa dal sedile posteriore. O il cappotto.
Mi guardai attorno, cercando di capire quanto meno in che quartiere fossi finita.
Capirlo non era facile come potreste pensare. Era periferia, una di quelle periferie senza nome che attraversi in macchina senza neppure guardarle.
Erano le due di notte, piovigginava, e io ero in una periferia senza nome con addosso solo il mio vestitino nero, dei sandali con il tacco alto e un orologio di marca. Niente cellulare, niente portafogli, niente di niente.
Robert mi aveva fatta scendere accostando lungo una strada di scorrimento, una lunga striscia d’asfalto, tre corsie per senso di marcia e uno spartitraffico sormontato da una rete metallica. Alzando lo sguardo, il vialone passava tra due immensi blocchi abitativi, creando una specie di largo canyon. Le due pareti del canyon erano costituite dalla facciata grigia e monotona di casermoni apparentemente senza fine, nove o dieci piani senza balconi e dalle finestre piccole e buie. Come un carcere, solo senza filo spinato.
Iniziai a camminare. Non potevo fare altro, dato che le macchine mi sfrecciavano accanto troppo veloci per notarmi e non avevo nessuna possibilità di riuscire a fermarne una. Per di più... non ero sicura di volerlo fare. Così vestita, lungo un viale periferico? Mi avrebbero presa per una lucciola.
Camminai. Con i miei sandali non era comodissimo, ma che alternativa avevo? Dovevo allontanarmi dal viale e trovare un qualsiasi negozio aperto da cui chiamare un taxi. Non potevo certamente telefonare a mio padre a quell’ora di notte.
La pioggia continuava a cadere, fredda e umida, e mi sembrava di essere in un quadro di Piranesi o in un altro paesaggio inquietante. Le uniche luci erano i fari delle macchine, che tagliavano come sciabolate la penombra arancione data dai lampioni stradali. Il marciapiede era lastricato di mattonelle di cemento – molte mancanti – e la parte bassa dell’infinita facciata che costeggiava il viale era coperta da dei brutti graffiti, fatti per segnalare il territorio di una gang piuttosto che per dare colore a una periferia grigia.
E grigio quel posto lo era in senso fisico. Ogni superficie era coperta da una patina di smog impastata da innumerevoli piogge. Quel poco di intonaco libero dalle scritte era striato dall’inquinamento. Le pulsantiere dei citofoni, quando non erano completamente obliterate dalle tag di qualche gruppo, erano nere.
Sì, esatto, c’erano dei citofoni. C’erano anche dei portoni, piccoli e blindati, grigi come tutto il resto. All’altezza delle mie caviglie, le grate di locali sotterranei bui come tutto il resto. Non una persona sul marciapiede, a parte me.
Camminai.
Non ero spaventata, non ancora. Ero preoccupata, arrabbiata e anche impaziente di trovare un telefono. Quel posto era deserto e sebbene non fosse rassicurante non sembrava neppure pericoloso.
Certo, ogni tanto sul marciapiede si apriva la bocca scura di un sottopassaggio. Ne spirava un odore di piscio e muffa e non ci sarei entrata nemmeno morta. Chissà che cosa c’era subito dopo i primi cinque gradini illuminati. Chissà chi ci dormiva, chi aspettava nell’ombra che qualcuno fosse costretto a scendere là sotto...
La pioggia continuava a cadere, fine e silenziosa, avvolgendo tutto in una sorta di foschia sporca.
Finalmente mi trovai davanti una discontinuità.
Non saprei trovare una definizione migliore, in quel paesaggio monotono. La discontinuità era una rotonda e in qualche modo mi offriva una scelta. O prendevo un sottopassaggio per attraversare la stretta via che si immetteva nel viale o prendevo appunto la stretta via e mi allontanavo dal viale.
Avevo già deciso che non sarei entrata in un sottopassaggio, quindi girai a destra e iniziai a seguire un nuovo marciapiede. Presto dovetti ad abbandonare anche quella via, perché sprofondava in un tunnel per sole auto. Fui costretta a salire una scala di qualche gradino e a percorrere un ballatoio di cemento. L’odore di urina era quasi insopportabile, lì.
Attorno a me, velato dalla notte e dalla pioggerella, un paesaggio urbano di periferia. Passaggi, cortili invasi di rottami e spazzatura, saracinesche arrugginite e porte scorrevoli di garage o magazzini... tutto coperto da quella patina viscida di smog decennale.
Ormai fradicia fino al midollo, stanca e tremante, stavo per perdere ogni speranza quando sentii delle voci.
Le seguii.
Passai sotto i piloni di uno di quei palazzi infiniti. Lì pioveva solo quando superavi una sezione a cielo aperto, ma il freddo e l’umidità erano tali che la differenza si notava a stento. Ed era buio. Più buio del passaggio da cui provenivo.
Dietro a un angolo, però, scorgevo delle luci.
Mi avvicinai.
All’inizio mi sembrò di vedere solo un gruppo di ragazzi che bevevano birra e passavano il tempo. Certo, solo alcuni di loro erano adolescenti. E quasi tutti portavano delle fasce rosse in testa, o dei fazzoletti rossi legati a un braccio. O al collo. O una bandana rossa con sopra un cappellino.
Normalmente non sarebbe stato un dettaglio a cui fare caso, ma avevo visto un servizio al TG su quelle insegne rosse solo pochi giorni prima. Una gang.
Iniziai a pensare che avrei fatto meglio ad andarmene. È vero che non rappresentavo un pericolo per loro e non avevo nulla a che vedere con le loro faccende, ma avrebbero potuto vedermi come un’intrusa o...
«Cazzo guardi, puttana?».
Troppo tardi.
Una delle ragazze del gruppo mi aveva vista e non le ero piaciuta.
Feci la cosa sbagliata.
Feci un passo indietro, borbottando che avevo sbagliato strada.
Nel frattempo, però, ero stata notata anche dagli altri, almeno da alcuni. Un tizio di quasi due metri mi prese per un braccio senza tante cerimonie e mi tirò verso la luce di un lampione.
«Cazzo sei?».
«È una troia, Hap, non vedi?» gli rispose un altro.
«Parli inglese, troia?» chiese il primo, senza lasciarmi.
«Quanto vuoi per la bocca?».
«Sul serio vi piace quella tettona?» fece una delle ragazze.
«Fatti i cazzi tuoi, Shirl. Fammela un po’ vedere, Hap».
Venni passata di mano.
Vi chiederete perché non cercai di spiegare la situazione. Ero paralizzata dal terrore. Dicono che un animale, quando si sente attaccato, combatte o fugge, ma non è sempre vero. Alcuni si congelano, ed era quello che stava succedendo a me.
Provavo a parlare, ma non riuscivo ad andare oltre dei vaghi: “un attimo”, “scusate”, “no, non...”
Ossia le frasi più idiote e inutili che potessi dire.
Venni passata di mano in mano da almeno tre individui. Le loro voci mi arrivavano come rumori senza senso compiuto.
«Dev’essere scema».
«Me la faccio io per primo».
«Lo vuoi sentire questo, eh? Bella porca...»
«Ragazzi, potrebbero arrivare...»
«Ah, stai zitto, frocio. Non disturbare, mentre gli adulti decidono che cosa fare a questa troia».
«Dico solo...»
«Non dire un cazzo. Tanto nessuno ti ha chiesto di partecipare. Passamela qua. Faccele vedere, queste tettone!».
Uno di loro mi strattonò verso il basso la scollatura del vestito. Tremavo di paura, non opposi resistenza. Sentii le mani di uno che mi stringevano un seno come se fosse una palla di gommapiuma, vidi i suoi denti giallastri.
«Amore, che cazzo ci fai qua? Chas, mollala subito, Cristo. Ma sei scemo?».
Venni strattonata un’altra volta. Altre mani ruvide. Un tizio con i capelli scuri, il fazzoletto rosso stretto attorno a un bicipite. Barba mal rasata, faccia cattiva.
«S-senti...»
Lui mi tirò verso di sé e mi baciò sulla bocca. Un bacio veloce e convinto.
«Amore, ma che cazzo ti è venuto in mente, eh? Sei fradicia... e che cazzo stavi facendo con Chas?».
«N-non...»
Si mise a ridere. «Sto scherzando. Lo so che quel coglione fa sempre l’idiota. Ma ora copriti, okay?».
Mentre lo diceva mi tirò di nuovo verso l’alto la scollatura del vestito, ricoprendomi le tette. Mi passò un braccio sopra alle spalle, portandomi un po’ più in là.
«Amore, sul serio... ti avevo detto di non venire».
«S-scusa?» riuscii a tartagliare.
«Joe, hai ragazza segreta? Che è ‘sta stronzata?» latrò una delle donne del branco. Mi sembrava di essere circondata da una muta di iene.
«Shirl vuole essere l’unica a lucidartelo, Joe» commentò un altro, malignamente.
«Cazzo dici? Mai stata con lui! Fatti i cazzi tuoi, frocio!».
Non mi sembravano nemmeno umani. Mi sembravano subumani usciti da un brutto film post-apocalittico, ma forse erano solo tutti sbronzi. Così sbronzi da biascicare e da rivelare il loro sé più primitivo e ributtante.
Il mio “ragazzo”, nel frattempo, mi aveva portata lentamente più in là. Mi abbracciava per la vita ora, o più precisamente mi sorreggeva.
Mi schiacciò contro il muro e mi infilò una gamba tra le gambe. Si chinò per baciarmi di nuovo e questa volta fu un bacio lungo e schifoso, dal quale cercai di ritrarmi. Doveva averlo previsto, perché mentre lo faceva mi tenne ferma per la nuca.
«Be’, amore, sono felice che tu sia qua. Potresti aiutarmi con un problema...»
«P-per favore...»
Lui mi tirò di nuovo verso di sé. Iniziò a baciarmi sul collo. Quando la sua bocca arrivò vicino al mio orecchio sussurrò: «Non so chi sei, ma venire qua è stata una stronzata. Ora stai al gioco, se vuoi che provi a salvarti le chiappe».
Erano le prime parole sensate che sentissi. Annuii.
«Abbracciami... e cerca di non parlare».
Feci come diceva, meccanicamente. Non che la cosa mi facesse impazzire di gioia, ma dovendo scegliere tra due mali “Joe” sembrava il male minore.
«Mmm, amore, lo senti quanto sono contento di vederti?» diceva lui, nel frattempo. Mi strofinò l’inguine sull’inguine in modo osceno, ma per quel che potevo giudicare non sembrava così felice di vedermi. Insomma, là sotto, ringraziando il cielo, non c’era movimento.
«Che ne dici se ce ne andiamo in un posto più...»
«Skulls!».
Il grido interruppe la proposta del mio “ragazzo”, lì. Lo sentii borbottare “merda”, mentre mi trascinava da una parte. Mi ficcò dietro a una colonna come se fossi un manichino e mi intimò: «Non ti muovere. Se resti ferma nell’ombra non ti si vede. Immobile, okay?».
Annuii.
Non avevo idea di che cosa stesse succedendo, ma sapevo già che non mi sarebbe piaciuto. Ero finita in una specie di incubo di cui non afferravo nemmeno le basi.
Ora i “rossi” brandivano coltelli e sbarre di metallo. Irrompevano degli altri individui, con qualche capo d’abbigliamento di pelle nera. Mentre molti dei “rossi” sembravano latini, i “neri” erano tutti caucasici... non capivo se fossero neonazisti o motociclisti. Oddio, forse nessuno dei due.
Sapevo solo che si stavano pestando con una ferocia che avevo visto solo al cinema e io ero di nuovo paralizzata dal terrore. Se anche avessi provato la tentazione di disobbedire al mio “ragazzo” e di allontanarmi, non ce l’avrei fatta. Le mie gambe sembravano fatte di calcestruzzo.
Davanti a me, nella luce incerta di quel porticato, i due gruppi cercavano di farsi più male possibile, donne comprese.
Vidi un “nero” ricevere un pugno da “Joe”... che indossava dei grossi tirapugni metallici. Il suo avversario sputò sangue, ma non andò a terra. Invece brandì il coltello e gli aprì uno squarcio sull’aderente maglietta mimetica... e forse anche sullo stomaco. “Joe” lo disarmò e riprese a prenderlo a pugni finché quello non riuscì a sottrarsi ai suoi colpi e a fuggire.
Le grida di quello scontro brutale si fecero sempre più alte, finché non si sentì un boato.
Poi altre grida. Imprecazioni.
Mi resi conto che c’era qualcuno a terra. Un corpo che non accennava a rialzarsi bestemmiando. I “neri” gli si fecero attorno, lo circondarono. Mi chiesi se quel boato fosse stato un colpo di pistola e se quella persona fosse... morta?
Mi afferrarono di nuovo per un braccio e mi trascinarono via.
«Presto... presto, vieni...»
“Joe” mi tirò giù per una scala di pochi gradini. Incespicai sui tacchi, ma lui mi sorresse. Mi spinse davanti a sé, in un cortile e poi in un passaggio coperto.
«Dove stiamo...» riuscii a balbettare.
«Lontano dagli sbirri».
Attraversammo in quel modo almeno due sezioni dell’immenso alveare sotto cui eravamo. Alla fine “Joe” tirò fuori un mazzo di chiavi e aprì un portone dotato di sbarre.
Mi fece segno di entrare e io esitai.
«Non ti faccio niente» disse. Si asciugò il sudore dalla faccia. «Sto sanguinando. Mi rattoppo e ti do uno strappo verso il tuo quartiere, okay? Qualunque sia».
«Thompson Hill» dissi.
Lui si mise a ridere. «Be’... benvenuta nella Terra di Nessuno».