1.
Dicono che il potere corrompe, ma non sono sicura che sia la giusta prospettiva da cui guardare la faccenda. Secondo me a volte è tutto il contrario: sono i corrotti che cercano di accumulare sempre più potere. E a volte – anche se molto di rado, lo so – il potere finisce per dimostrarsi una responsabilità che cambia chi lo detiene.
Dane Savard pranzava due volte al mese con il senatore del nostro stato, ma le frequentazioni in alto loco non l’avevo rammollito. Era ancora capace di aprirti la pancia con un singolo fendente del coltello a serramanico che aveva sempre con sé.
Ed era un uomo corrotto, profondamente corrotto, dalla vita prima ancora che dal potere.
Era cresciuto a St. Martin, come me, quando St. Martin era ancora il posto peggiore della città in cui crescere. Poi c’era stato un tentativo di gentrificazione del quartiere, riuscito solo a metà, e ora alcune parti di St. Martin sono piuttosto tranquille, ma questo non significa che sotto la superficie le cose siano migliorate chissà quanto.
Dane era un uomo della vecchia St. Martin, comunque. Uno venuto su con i pugni stretti.
Passata la trentina era ancora un ragazzone biondo scuro con i capelli rasati corti, un naso da pugile che lo faceva assomigliare un po’ a un leone e le sopracciglia attraversate in più punti da vecchie cicatrici di quando si picchiava per la strada. E degli occhi blu scuro, incassati là sotto, pensierosi e quasi tristi. Occhi ingannevoli, perché Dane poteva essere brutale e molto spesso lo era.
Lo incontrai la prima volta pochi giorni dopo aver iniziato a lavorare al Vegas come cameriera. Vi racconterò in un altro momento la mia storia, vi basti sapere che ero finita lì dopo essere stata beccata a rubare farmaci nell’ospedale dove fino a quel momento avevo un posto da infermiera. La bambina di mia sorella era stata investita da otto mesi e non sapevamo ancora se avrebbe camminato come prima oppure no. A me servivano soldi, più soldi di quanti me ne servissero da ragazza, quando buttare giù pasticche, ballare tutta la notte e scopare con il primo venuto erano tutto quello che volevo.
Rubare farmaci e rivenderli mi era sembrata una buona idea, sul momento. Era stata un’idea stupidissima e ormai dovevo conviverci.
Il Vegas era uno strip-club. Buona parte delle lap-dancer faceva anche marchette, ma tra le cameriere qualcuna si salvava. Anche se dovevi tollerare un sacco di cose e ignorare le mani vaganti degli avventori.
Dentro il Vegas c’erano sempre trenta gradi, anche quando fuori nevicava. Noi ragazze eravamo in completi slip-reggiseno di nylon aderentissimo, autoreggenti nere e stivaletti con il tacco a spillo. Ogni turno durava sei ore ed erano praticamente sei ore di petting continuo con dei completi sconosciuti.
Avevo passato a vomitare buona parte del mio primo turno, ma poi avevo capito di non potermi permettere di essere tanto schizzinosa. Invece, nell’arco di soli tre giorni, avevo imparato a stuzzicare i clienti per fargli cacciare più soldi.
Sapevo che Dane aveva un “suo” separé a destra del palco, una specie di nicchia con i divani disposti a elle, un tavolo basso e lungo nel mezzo e un divisorio di specchio che chiudeva quasi completamente il lato “aperto”, almeno fino a un metro e mezzo di altezza, lasciando solo un passaggio sulla sinistra.
Chiunque fosse entrato là dentro sapeva anche che lo specchio era un vetro monodirezionale, in modo che gli uomini seduti sui divani potessero tenere d’occhio il locale senza stare sotto gli sguardi di tutti.
La sera in cui incontrai per la prima volta Dane, Tatjana, la caposala, mi mollò in mano il secchiello con il ghiaccio e lo champagne e mi disse: «Quello là dentro è Dane, lo sai, no?».
Annuii.
«Il signor Savard, per te. E fai tutto quello che ti chiede, non importa cosa. È chiaro?».
«Chiarissimo, Tatjana» risposi io.
Come ho già detto, mi servivano soldi. Non avevo nessuna intenzione di fare la difficile con uno che poteva darti come mancia un centone solo se ti trovava simpatica. Né di fare l’antipatica con uno che poteva romperti tutte le ossa solo se non gli piaceva come l’avevi guardato.
Presi il secchiello e andai verso il separé, decisa a essere simpatica, disponibile, ma rispettosa.
Erano da poco passate le nove di sera, ma su quei divanetti erano già quasi tutti sbronzi marci. C’erano due capo-piazza che conoscevo di vista, un tizio magro da impazzire, con i capelli neri e unti, un gorilla con tanto di auricolare, un tizio vestito elegante e Dane.
Era in un angolo, in ombra, ma la sua stazza mi colpì quanto il suo sguardo vigile. Era più di un metro e novanta, con le spalle larghe, il petto ampio, il collo muscoloso.
«Qualcuno ha ordinato dello champagne?» dissi, con un sorriso, e posai il secchiello sul tavolo.
«Stappalo, dolcezza» fece uno dei due capo-piazza. E mi diede una bella palpata al sedere.
«Ma certo, tesoro». Mi diedi da fare con la bottiglia, facendo un po’ di scena. Mi posai il fondo su un fianco, in modo che un po’ d’acqua mi colasse lungo la pancia e fino agli slip. E la stappai facendo una smorfietta di piacere.
Il capo-piazza mi tirò uno sculaccione scherzoso. «Guarda lì che troietta!» rise.
Io emisi un sospiro di gradimento.
Finii di stappare la bottiglia e mi chinai per riempire tutti i bicchieri sul vassoio.
«Piccola, siediti un attimo qua».
«Non so se posso, signore» mi schermii.
Lui tirò fuori una banconota da venti e me la infilò nel reggiseno.
Sorrisi. «Magari cinque minuti».
Ci furono diverse risate.
«Hanno una tariffa oraria piuttosto alta, queste ragazze!» sghignazzò qualcuno.
Mi sedetti sul divanetto accanto al mio “sponsor” e lui mi passò un braccio sopra le spalle. Aveva una colonia forte, quasi intossicante, e diversi denti d’oro. Mi palpò una tetta al di sopra del reggiseno e io mi schermii, spostandogli la mano e ridacchiando: «Non faccia così, signore!».
«No, eh?». Tirò fuori un’altra banconota da venti e me la fece guardare. «Immagina che ti dia anche questa... dopo diresti ancora “non faccia così, signore”?».
Gli rivolsi un sorriso seducente. «Non le resta che provare».
Ci furono delle altre risate e qualcuno commentò divertito che quello era adescamento.
Il capo-piazza mi infilò la seconda banconota da venti nel reggiseno e nel farlo ci mise dentro anche la mano. Mi diede una bella palpata alla tetta. Io feci finta di ansimare e dissi: «Non faccia così, signore...»
«Che razza di puttana...» rise lui, stringendomi il capezzolo tra le dita.
Mi fece male, ma finsi che la mia fosse una smorfia di piacere. Riuscivano sempre a farti un po’ male, che lo volessero oppure no.
Fino a quel momento Dane aveva parlato sottovoce con l’elegantone, ma a quel punto alzò la testa.
«Di’ un po’, sei nuova?» chiese.
«Sì, signor Savard».
«Vieni un attimo qua. Tyron, chiama un’altra cameriera. Fatti portare anche qualcosa da mettere sotto i denti».
Il capo-piazza, Tyron, mi lasciò subito andare e io mi alzai per spostarmi verso Dane.
«Siediti» disse, dandosi un paio di pacche su una coscia.
«Sì, signore».
Mi sedetti sulle sue cosce con aria tutta seria, le gambe strette e le spalle dritte. Lui mi posò una mano sulla vita.
«Vedi... è questo il bello di St. Martin. In posti come il Vegas trovi ragazze sempre nuove e sempre affidabili. Non nel senso che non rubano dalla cassa – magari lo fanno – ma nel senso che non parlano con le persone sbagliate di quello che sentono... anzi, cercano proprio di non sentire niente. È vero?».
Aveva parlato all’elegantone, ma l’ultima domanda era per me.
«Sì, signore» confermai.
«E puoi divertiti con loro senza complicazioni... restando entro certi limiti. Vuoi toccarla? Quello puoi farlo. Pagando».
Il tizio in completo fece un sorrisetto divertito e mi scoprì una tetta. Una delle banconote da venti volò via e io iniziai subito a chiedermi come fare a recuperarla. Avrei dovuto pensarci dopo. Il tizio iniziò a palparmi la tetta e io chiusi gli occhi e mi morsi il labbro inferiore, sospirando silenziosamente.
«Carino, no?».
«Sì, è... be’, pensavo che in posti come questo fossero tutte rifatte. Ma lei è naturale. Come ti chiami, bellezza?».
«Cassidy... per lei Cassie» sospirai io.
Dane si rilassò contro lo schienale del divano e io gli finii addosso. Feci per raddrizzarmi, ma lui mi diede una pacca bonaria su una coscia.
«No, va bene. E sei nuova, mh? Da quanto tempo...»
«Meno di una settimana, signore».
Avevo un fianco contro il suo stomaco ed era come essere stesa su una seduta di legno appena leggermente imbottita, questo tanto per darvi un’idea di che tipo fosse. Il suo amico continuava a toccarmi e mi aveva tirato fuori dal reggiseno anche l’altra tetta. Si sporse verso di me e mi succhiò un capezzolo. Nessuno si era mai spinto così oltre, dannazione, e c’era ben poco che io potessi fare per impedirglielo. Pensai che quanto meno avrei avuto una mancia favolosa, più di quello che avrei guadagnato con una marchetta vera e propria.
Il tizio elegante mi succhiò il capezzolo fino a convincerlo e venire fuori dalla mia tetta, poi si dedicò all’altro, continuando a palparmi mentre lo faceva. Ero profondamente a disagio e mi guardai attorno cercando un modo per togliermi di lì.
«Meno di una settimana» ripeté Dane, accarezzandomi una coscia. Accostò la bocca al mio orecchio. «Se ora ci lasci fare qualcosa di davvero sconcio ti darò un sacco di soldi... hai bisogno di soldi, è vero?».
«Sì, signore» ammisi.
Mi baciò il collo, mentre il suo amico continuava a palparmi e leccarmi le tette.
«Si vede, sai? Si vede che ti servono disperatamente e che sei disposta a tutto per averli. Ti fai?».
«N-no, signore».
Mentre parlava mi aveva fatto aprire una coscia e la sua mano era scivolata dentro ai miei slip passando da un lato.
«Allora hai dei debiti» insistette lui, con la mano letteralmente sulla mia fica.
«Scopiamola con la bottiglia» suggerì l’elegantone, che era elegante solo nel vestire.
Dane mi accarezzò la passerina, restando all’esterno.
Mi baciò il collo, per poi tornare a mormorarmi cose nell’orecchio.
«Ti sei tutta irrigidita. Hai paura che ti facciamo male?».
«N-no, signore, ma...»
In realtà ero sicura che mi avrebbero fatto male. Sarebbe stato bruttissimo e avrei dovuto ringraziare se non fossi rimasta tagliata o ferita in modo serio.
«Mm... dimmi a che cosa ti servono i soldi» mormorò lui. Il suo compare mi succhiava e mi mordeva, ormai presissimo.
«Voglio metterglielo nel culo...»
«No, quello non puoi farlo, amico mio. Non è sicuro» lo rimproverò Dane. Tornò a guardarmi. «Quindi?».
Lo guardai a mia volta.
«Non è nulla che la riguardi, signor Savard» dissi. «Ma se volete... ecco, usare una bottiglia... okay, potete farlo».
Lui socchiuse gli occhi, sospettoso. Nel frattempo il suo amico continuava a palparmi.
«Il tuo uomo si fa e gli servono soldi» disse Dane. Mi infilò un dito tra le grandi labbra e cercò il mio buchetto. La sensazione di intrusione fu fortissima, ma mi costrinsi ad allargare le gambe per renderglielo più facile.
«È proprio una troia...» ridacchiò il tizio elegante.
«Non mi servono... per quello... signore...»
Lui provò a infilarmi un dito nella passera. Ero tutta contratta e irrigidita e lui non spinse forte: non riuscì a entrare.
«Allora in prigione» disse.
Mi accarezzò sul clitoride, pianissimo. Sobbalzai e strizzai gli occhi. Non potevano sbrigarsi, almeno?
«No... signore...»
Dane spostò la mano e allontanò distrattamente la testa del suo amico. Mi sistemò il reggiseno, palpandomi delicatamente le tette.
«Bene, bene... quanto mistero. Che ne dici di spompinare il mio socio, invece? Qua. Ora. Ti darà cinquecento sacchi».
Annuii.
«Sì, signore. Come vuole lei».
«Ah, ah, ah! Fantastico! Mi piace questo posto, Dane!» rise il tizio elegante.
Scivolai giù dalle cosce di Dane e mi inginocchiai a terra tra le gambe del suo amico. Mi era andata bene, in un certo senso. Mi era andata di lusso.
Il tizio elegante si slacciò la patta dei pantaloni e se lo tirò fuori dalle mutande. Me lo trovai davanti alla bocca e iniziai a succhiare con tutto l’impegno possibile, anche se aveva un odore troppo forte, consapevole di essere stata graziata.
A che cosa fosse dovuta la relativa gentilezza di Dane non mi era del tutto chiaro, ma suppongo che avesse qualcosa a che fare con il senso di appartenenza. Io ero di St. Martin, come lui, il tizio che stavo spompinando no. E per quanto quel tizio fosse suo socio e forse suo amico, il fatto di venire dallo stesso quartiere ai suoi occhi mi rendeva leggermente più umana di una qualsiasi prostituta di un’altra parte della città.
Cercai di usare un sacco di saliva e di mettere in quel pompino tutto l’impegno possibile. Per quanto la situazione mi facesse schifo, sono sempre stata brava a succhiare. E quelli erano cinquecento dollari che non potevo evitare nemmeno volendo (e non volevo).
L’elegantone, lì, dovette rendersi conto che stavo facendo del mio meglio e la cosa dovette mandarlo su di giri. Iniziò a venire meno di cinque minuti più tardi con una specie di uggiolio eccitato e tirandomi la testa sul suo cazzo. Fortunatamente era una taglia medio-piccola o mi sarei strozzata. Non sapendo come cavarmela con il suo sperma, finii per buttare tutto giù. Subito dopo mi venne da vomitare, ma riuscii a controllarmi e credo che non se accorse nessuno.
Mi risollevai, un po’ tremante, e Dane mi riprese sulle sue cosce.
«Cristo... santissimo... che troia. Ah, che troia, ragazzi. Ti è piaciuto, amore?».
Era la domanda più stupida che mi avessero mai fatto e cercai di non sorridere.
«Certo, signore» risposi, tutta seria, e fu Dane a ridacchiare.
«Bene, bene... siete tutti soddisfatti. Ora pagala, Ned».
Cinque minuti più tardi, ancora malferma sulle gambe, uscii dal separé, più ricca di cinquecento quaranta dollari.