CAPITOLO QUATTRO

3025 Words
CAPITOLO QUATTRO Gareth camminava avanti e indietro nello studio di suo padre – una piccola stanza al piano più alto del castello, una saletta che suo padre aveva amato – e poco alla volta la distruggeva. Andava da una libreria all’altra, prendeva preziosi volumi, antichi libri rilegati in pelle che appartenevano alla sua famiglia da secoli, e ne strappava copertine e pagine facendole in mille pezzi. Li lanciava in aria e questi ricadevano sulla sua testa come fiocchi di neve, appiccicandosi al suo corpo e alla saliva che gli colava dalla bocca. Era determinato a eliminare ogni singola parte di quel luogo che suo padre aveva amato, un libro dopo l’altro. Si avvicinò freneticamente a un tavolino d’angolo, afferrò ciò che era rimasto della sua pipa di oppio e con mano tremante se la portò alla bocca aspirando con violenza, più bisognoso che mai. Ne era ormai dipendente e fumava in ogni momento, con l’intento di bloccare le immagini di suo padre che lo perseguitavano nei suoi sogni e addirittura quando era sveglio. Quando ripose la pipa vide suo padre nella stanza, di fronte a lui, un cadavere in via di decomposizione. Ogni volta che gli appariva il cadavere era sempre più decomposto, sempre più scheletro che carne. Gareth si voltò per non dover sopportare quella vista abominevole. Era solito tentare di attaccare l’immagine, ma aveva imparato che non serviva a nulla. Quindi si limitò a girare la testa e a distogliere lo sguardo. Era sempre lo stesso: suo padre che indossava una corona arrugginita, la bocca aperta, gli occhi fissi su di lui con espressione di rimprovero, un dito puntato contro di lui, accusatorio. In quell’orribile sguardo Gareth sentiva che i suoi giorni erano contati, sentiva che era solo questione di tempo perché finisse a raggiungere suo padre. Odiava più di ogni altra cosa vederlo. Se c’era stato un aspetto positivo nell’ucciderlo, era proprio che non aveva più dovuto vedere la sua faccia ogni giorno. Ma ora, ironicamente, lo vedeva più che mai. Gareth si voltò e scagliò la pipa di oppio contro la visione, sperando che – tirandola velocemente – magari l’avrebbe realmente colpito. Ma la pipa volò semplicemente in aria e andò a sbattere contro il muro frantumandosi. E suo padre era sempre lì che lo guardava con sguardo truce. “Quelle droghe non ti saranno di aiuto ora,” lo rimproverò. Gareth non poteva più sopportarlo. Si lanciò contro l’apparizione, con le mani in avanti, deciso a graffiargli la faccia. Ma come sempre si scagliò contro nient’altro che aria, e questa volta inciampò in mezzo alla stanza atterrando sulla scrivania di legno di suo padre, rovesciandola e cadendo a terra con essa. Rotolò sul pavimento, ruotò su se stesso e sollevò lo sguardo accorgendosi di essersi procurato un taglio profondo al braccio. Il sangue gli gocciolava dalla camicia, e guardandosi si rese conto di avere ancora indosso la stessa veste da camera che portava ormai da giorni. In effetti erano settimane che non si cambiava. Vide di scorcio un riflesso di se stesso e vide i capelli arruffati: sembrava un comune mascalzone. Una parte di lui stentava a credere di essere caduto così in basso. Ma un'altra parte non se ne curava affatto. L’unica cosa che gli era rimasta dentro era l’ardente desiderio di distruggere, distruggere ogni rimasuglio di ciò che un tempo era stato di suo padre. Avrebbe voluto far radere al suolo quel castello, e la Corte del Re con esso. Sarebbe stata la vendetta per il trattamento subito da bambino. I ricordi erano indelebili in lui, come una spina che non era capace di estirpare. La porta dello studio si aprì di scatto e un servitore di Gareth entrò guardandolo con paura. “Mio signore,” disse. “Ho udito un colpo. State bene? Mio signore, state sanguinando!” Gareth guardò il ragazzo con odio. Cercò di rimettersi in piedi e colpirlo, ma scivolò su qualcosa e cadde a terra, disorientato dall’ultima fumata di oppio. “Mio signore, lasci che la aiuti!” Il ragazzo si affrettò ad afferrare il braccio di Gareth, che era magrissimo, praticamente pelle e ossa. Ma Gareth aveva ancora un rimasuglio di forza e quando il ragazzo gli toccò il braccio lo scrollò via, spingendolo dall’altra parte della stanza. “Toccami un’altra volta e ti farò tagliare le mani,” lo minacciò. Il ragazzo indietreggiò intimorito e in quel momento un altro servitore entrò nella stanza, accompagnato da un uomo più anziano che Gareth riconobbe appena. Da qualche parte nei meandri della sua mente sapeva di conoscerlo, ma in quel momento non era in grado di ricordare. “Mio signore,” disse una voce vecchia e greve, “vi attendiamo nel consiglio da mezza giornata. I membri del consiglio non possono aspettare molto oltre. Hanno notizie urgenti che devono condividere con voi prima che il giorno volga al termine. Siete pronto?” Gareth strinse gli occhi in due fessure guardando l’uomo e cercando di capire. Ricordava appena che aveva servito suo padre. La Sala del Consiglio… la riunione… Tutto vorticava nella sua mente. “Chi sei?” chiese. “Mio signore, sono Aberthol. Il consigliere più fidato di vostro padre,” gli rispose, avvicinandosi di un passo. Lentamente gli stava tornando alla mente. Aberthol. Il consiglio. I pensieri di Gareth vorticavano, la testa gli faceva male. Voleva solo che lo lasciassero solo. “Lasciatemi stare,” disse seccamente. “Ora arrivo.” Aberthol annuì e uscì rapidamente dalla stanza insieme al servitore, chiudendo la porta alle loro spalle. Gareth rimase lì in ginocchio, la testa tra le mani, cercando di pensare e ricordare. Era troppo. Le cose gli tornavano alla mente a piccoli pezzi. Lo scudo era inattivo; l’Impero stava attaccando; metà della sua corte se n’era andata; sua sorella li aveva condotti via; a Silesia… Gwendolyn… Ecco. Ecco cosa aveva cercato di ricordare. Gwendolyn. La odiava con una veemenza che non era in grado di descrivere. Ora, più che mai, voleva ucciderla. Aveva bisogno di ucciderla. Tutti i suoi problemi erano stati causati da lei. Avrebbe trovato un modo di raggiungerla, avesse pure rischiato di morire lui stesso per farlo. E poi avrebbe ucciso anche i suoi altri fratelli. Iniziò a sentirsi meglio a quel pensiero. Con sforzo supremo si mise a fatica in piedi e zoppicò attraverso la camera, andando a sbattere contro un tavolo. Avvicinandosi alla porta scorse un busto di alabastro che raffigurava suo padre. Era una scultura che suo padre aveva amato: la prese afferrandola per la testa e la scagliò contro la parete. Andò in mille pezzi e per la prima volta in quella giornata Gareth riuscì a sorridere. Forse quel giorno, dopotutto, non era così male. * Gareth entrò con irruenza nella Sala del Consiglio affiancato da numerosi servitori, sbattendo il portone di quercia e facendo sobbalzare tutti i presenti. Velocemente si alzarono tutti in piedi mettendosi sull’attenti. Mentre normalmente un comportamento del genere gli dava una certa soddisfazione, quel giorno quasi non se ne accorse. Era tormentato dal fantasma di suo padre e pieno di rabbia per la fuga di sua sorella. Le emozioni vorticavano dentro di lui e aveva bisogno di sfogarsi. Attraversò zoppicando la grande sala, ancora intontito dall’oppio, e raggiunse il centro dove si trovava il suo trono. Decine di uomini del consiglio si alzarono in piedi al suo passaggio. L’energia che emanava dalla sua corte era più che mai elettrica, sembrava che la gente fosse più che mai in fibrillazione per la notizia della partenza di metà degli abitanti della Corte del Re e per la novità dello scudo non più funzionante. Era come se ciò che era rimasto della Corte del Re si fosse riversato lì per avere delle risposte. E ovviamente Gareth non ne aveva. Salendo barcollando gli scalini fino al trono di suo padre, vide, paziente dietro ad esso, Lord Kultin, il capo mercenario del suo esercito privato, l’unico uomo rimasto a corte di cui si potesse realmente fidare. Accanto a lui erano schierate decine di guerrieri, in silenzio, le mani posate sulle loro spade, pronti a combattere fino alla morte per Gareth. Era l’unica cosa che gli desse un po’ di conforto. Gareth si sedette sul trono e guardò la stanza. C’erano così tanti volti: un pochi li riconobbe, ma molti non li conosceva. Non si fidava di nessuno di loro. Ogni giorno eliminava qualcuno per purificare la sua corte, ne aveva già mandati un sacco nelle segrete e ancora di più sul patibolo. Non passava giorno che non uccidesse almeno una manciata di uomini. La riteneva una buona politica: teneva le persone al loro posto ed era un’ottima prevenzione contro ogni colpo di stato. Nella sala regnava il silenzio e tutti lo guardavano stupiti. Sembravano tutti terrorizzati all’idea di prendere la parola. Ed era proprio ciò che lui desiderava. Non c’era niente di più eccitante che infondere paura nei suoi sudditi. Alla fine fu Aberthol a fare un passo avanti, il bastone risonante contro il pavimento, schiarendosi la voce. “Mio signore,” iniziò con voce antica, “ci troviamo in un momento di grande scompiglio nella Corte del Re. Non so quali notizie vi siano già giunte: lo Scudo è inattivo, Gwendolyn ha lasciato la Corte del Re ed ha preso con sé Kolk, Brom, Kendrick, Atme, l’Argento, la Legione e metà del vostro esercito, insieme a metà della Corte stessa. Quelli che sono rimasti guardano a voi come guida, per sapere quale sarà la nostra prossima mossa. Il popolo vuole delle riposte, mio signore.” “Per di più,” aggiunse un altro membro del consiglio che Gareth riconobbe vagamente, “si è diffusa la notizia che il Canyon sia già stato oltrepassato. Si dice che Andronico abbia invaso la parte dei McCloud con il suo esercito di milioni di uomini.” Un sussulto indignato si diffuse nella sala: decine di valorosi guerrieri iniziarono a bisbigliare tra loro, assaliti dalla paura, e uno stato generale di panico si espanse a macchia d’olio come un incendio. “Non può essere vero!” esclamò un soldato. “Invece lo è!” rispose il membro del consiglio. “Se è così, ogni speranza è perduta,” gridò un altro. “Se i McCloud vengono conquistati, l’Impero verrà poi verso la Corte del Re. Non c’è modo di tenerli a bada.” “Dobbiamo discutere i termini di resa, mio signore,” disse Aberthol a Gareth. “Resa!?” gridò un altro uomo. “Non ci arrenderemo mai!” “Se non lo facciamo,” intervenne un altro, “saremo annientati. Come possiamo fronteggiare un milione di uomini?” Nella stanza si diffuse un brusio concitato, i soldati e i consiglieri iniziarono a discutere tra loro in un generale disordine. Il capo del consiglio sbatté il bastone di ferro sul pavimento e gridò: “ORDINE!” Gradualmente tutti fecero silenzio. Gli uomini si voltarono verso di lui. “Queste sono decisioni che spettano al re, non a noi,” disse uno degli uomini del consiglio. “Gareth è il legittimo sovrano e non sta a noi discutere i termini di resa, o se arrenderci del tutto.” Tutti si voltarono verso Gareth. “Mio signore,” disse Aberthol con voce esausta, “come dite di comportarci con l’esercito dell’Impero?” Un silenzio di tomba calò nella sala. Gareth rimase seduto a guardare gli uomini che attendevano una risposta da lui. Ma era sempre più difficile schiarirsi le idee. Continuava a sentire nella sua testa la voce di suo padre che gli gridava contro, come quando era bambino. Lo stava facendo impazzire e non smetteva un solo momento. Grattò ripetutamente i braccioli del trono con le unghie: era l’unico rumore che si poteva udire nella stanza. I membri del consiglio si scambiarono sguardi preoccupati. “Mio signore,” insistette un altro membro del consiglio, “se deciderete che non dobbiamo arrenderci, allora dovremo fortificare subito la Corte del Re. Dobbiamo rendere più sicuri tutti gli ingressi, le strade, i cancelli. Dobbiamo richiamare tutti i soldati e preparare la difesa. Dobbiamo prepararci a un assedio, razionare il cibo, proteggere i cittadini. C’è molto da fare. Vi prego, mio signore. Dateci degli ordini. Diteci cosa fare.” Di nuovo scese il silenzio e tutti gli occhi rimasero fissi su Gareth. Alla fine Gareth sollevò il mento e li guardò. “Non combatteremo contro l’Impero,” dichiarò. “Ma neppure ci arrenderemo.” Tutti si guardarono confusi. “E allora cosa faremo, mio signore?” chiese Aberthol. Gareth si schiarì la voce. “Uccideremo Gwendolyn!” dichiarò. “È tutto ciò che conta ora.” Seguì un silenzio scioccato. “Gwendolyn?” chiese un membro del consiglio mentre gli altri erompevano nuovamente in un mormorio incontrollato. “Le manderemo contro tutte le nostre forze armate, faremo massacrare lei e quelli che la stanno seguendo prima che raggiungano Silesia,” continuò. “Ma, mio signore, come può esserci d’aiuto questo?” chiese un membro del concilio. “Se ci avventuriamo all’attacco di Gwendolyn, questo non farà che lasciare esposti i nostri eserciti. Saranno presto circondati e massacrati dall’Impero.” “E anche la Corte del Re verrà così lasciata libera di essere attaccata,” aggiunse un altro. “Se non abbiamo intenzione di arrenderci, dobbiamo fortificare la città il prima possibile!” Un gruppo di uomini iniziarono a discutere a voce alta. Gareth si voltò a guardare i membri del consiglio con occhi di ghiaccio. “Useremo tutti gli uomini che abbiamo per uccidere mia sorella,” disse con tono cupo. “Non ne risparmieremo neanche uno.” Nella sala calò nuovamente il silenzio e uno dei membri del consiglio spinse indietro la sua sedia, facendola strisciare rumorosamente sul pavimento e alzandosi in piedi. “Non starò a guardare la Corte del Re rovinata dalla vostra ossessione personale. Io, per me, non sto dalla vostra parte! “Neppure io!” gli fecero eco la metà degli uomini che si trovavano nella sala. Gareth fumava di rabbia e stava per alzarsi in piedi quando improvvisamente le porte si aprirono di schianto ed entrò in fretta e furia l’unico comandante dell’esercito rimasto. Tutti gli occhi erano puntati su di lui. Trascinava dietro di sé un uomo, un mascalzone dai capelli arruffati e sporchi, la barba incolta, i polsi legati dietro la schiena. Lo portò fino al centro della stanza, fermandosi di fronte al re. “Mio signore,” disse il comandante freddamente. “Dei sei ladri giustiziati per il furto della Spada della Dinastia, questo è il settimo, quello che era riuscito a fuggire. Racconta la storia più fantasiosa riguardo a ciò che è accaduto. Parla!” gli intimò il comandante, scuotendolo. Il mascalzone guardava nervosamente in ogni direzione, i capelli appiccicati alle guance, lo sguardo incerto. Alla fine disse: “Ci hanno ordinato di rubare la spada!” I presenti iniziarono a mormorare in modo concitato. “Eravamo diciannove!” continuò l’uomo. “In dodici dovevano portarla via, nell’oscurità, oltre il ponte sul Canyon, nelle Terre Selvagge. L’hanno nascosta in un carro che hanno scortato attraverso il ponte così che i soldati non potessero avere idea di cosa celasse. Gli altri, noi sette, hanno ricevuto l’ordine di rimanere indietro dopo il furto. Ci hanno detto che saremmo stati imprigionati, come dimostrazione, ma che poi ci avrebbero liberati. Invece i miei amici sono stati tutti giustiziati. Sarebbe successo anche a me se non fossi scappato.” Il brusio nella sala si fece più agitato. “E dove stanno portando la spada?” insistette il comandante. “Non ne ho idea. Da qualche parte nell’Impero.” “E chi ha ordinato una cosa del genere?” “Lui!” disse il malvivente, girandosi di scatto e puntando un dito ossuto contro Gareth. “Il nostro re! Ce l’ha ordinato lui!” Il brusio si tramutò in un vociare concitato, si levarono delle grida, fino a che alla fine un membro del consiglio batté il bastone di ferro diverse volte e gridò di fare silenzio. Tutti tacquero, anche se a fatica. Gareth già tremava di paura e di rabbia, si alzò lentamente dal trono e tutti gli occhi si puntarono su di lui. Un gradino alla volta scese i gradini d’avorio, facendoli risuonare sotto i suoi passi. Il silenzio era così fitto che lo si sarebbe potuto tagliare con un coltello. Attraversò la stanza e raggiunse il mascalzone. Lo guardò con freddezza, a solo un passo da lui, mentre l’uomo si dimenava tra le braccia del comandante, guardando da ogni parte, ma non Gareth. “I ladri e i bugiardi vengono trattati in un unico modo nel mio regno,” disse Gareth sottovoce. Estrasse un pugnale dalla cintura e lo conficcò nel cuore dell’uomo. Questi gridò, strabuzzò gli occhi e poi si afflosciò sul pavimento, morto. Il comandante lo guardò con occhi cupi. “Avete appena ucciso un uomo che era testimone contro di voi,” disse. “Non vi rendere conto che questo rafforza i sospetti sulla vostra colpa?” “Quale testimone?” chiese Gareth sorridendo. “Gli uomini morti non parlano.” Il comandante arrossì. “Se non se ne è dimenticato, io sono comandante di metà dell’Esercito del Re. Non mi piace che ci si prenda gioco di me. Da come vi comportate e dalle vostre azioni posso solo presumere che siete colpevole del crimine per cui quest’uomo vi ha accusato. Detto questo, io e il mio esercito non siamo più al vostro servizio. Anzi, vi prendo in custodia, sulla base di sospetto tradimento dell’Anello!” Il comandante fece un cenno ai suoi uomini, che tutti insieme – decine di soldati – sguainarono le spade e avanzarono verso Gareth per arrestarlo. Ma Lord Kultin fece lo stesso con il doppio degli uomini, tutti con le spade pronte, disponendosi alle spalle del re. Rimasero tutti lì, di fronte ai soldati del comandante, Gareth al centro. Gareth sorrise trionfante. Gli uomini dell’Esercito del Re erano in netta minoranza rispetto alla forza armata privata di Gareth, e lui lo sapeva. “Non verrò preso in custodia proprio da nessuno,” disse con una smorfia. “E non certo da te. Prendi i tuoi uomini e andatevene dalla mia corte, oppure scontratevi pure con la collera del mio esercito personale.” Dopo diversi secondi di tensione, il comandante si voltò, fece un cenno ai suoi uomini, e tutti insieme si ritirarono, camminando all’indietro con le spade sguainate, andandosene dalla stanza. “Da questo giorno in poi,” tuonò il comandante, “sia ben chiaro che non vi serviremo più” affronterete l’esercito dell’Impero da solo. E spero che vi tratteranno bene. Meglio di quanto voi abbiate trattato vostro padre!” I soldati lasciarono la stanza con grande clangore di armi e armature. I membri del consiglio e i numerosi presenti rimasero in piedi pietrificati, bisbigliando fra loro. “Andatevene!” gridò Gareth. “TUTTI!” Tutti lasciarono velocemente la sala, anche l’esercito personale di Gareth. Solo una persona rimase. Lord Kultin. Ora lui e Gareth erano soli nella sala. Si avvicinò a Gareth, fermandosi a pochi passi da lui, e lo guardò come se lo stesse studiando. Come sempre il suo volto era privo di espressione. Era un vero mercenario. “Non mi importa cosa hai fatto o perché,” iniziò, la voce greve e cupa. “Non mi interessa la politica. Io sono un guerriero. Mi interessa solo il denaro con cui pagherai me e i miei uomini.” Fece una pausa. “Eppure mi piacerebbe sapere, per pura curiosità personale: hai veramente ordinato a quegli uomini di portare via la spada?” Gareth lo fissò. C’era qualcosa nei suoi occhi in cui riconosceva se stesso: erano freddi, privi di rimorso, sfrontati. “E se anche l’avessi fatto?” gli chiese. Lord Kultin lo guardò a lungo. “Ma perché?” gli chiese. Gareth lo guardò in silenzio. Kultin sgranò gli occhi capendo. “Non sei riuscito a sollevarla tu, e così hai evitato che qualcun altro ci riuscisse?” gli chiese. “È per questo?” Prese in considerazione le implicazioni. “Però anche fosse così,” aggiunse, “sapevi di certo che eliminarla avrebbe disattivato lo scudo, rendendoci vulnerabili all’attacco.” Kultin sgranò gli occhi. “Tu volevi che ci attaccassero, vero? C’è qualcosa in te che vuole che la Corte del Re venga distrutta,” disse, ora consapevole. Gareth gli sorrise. “Non tutti i posti,” disse lentamente, “sono destinati a durare per sempre.”
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