Gli occhi di sua madre guardarono lontano, oltre di lui.
— Non ti dimenticherai di venire, mamma?
— No, se tu dormirai.
— È un patto, allora. — E il piccolo Jon strinse gli occhi.
Sentì le sue labbra sulla fronte, poi i suoi passi, aprì gli occhi per vederla scomparire nella porta, e, sospirando, li richiuse di nuovo.
E passò il tempo.
Per circa dieci minuti, lui si sforzò lealmente di dormire, contando una gran quantità di cardi in fila, la vecchia ricetta di «Da» per chiamare il sonno. Finché gli parve di avere contato per delle ore. Pensò che fosse ormai l’ora in cui la mamma sarebbe salita. Buttò indietro le coperte. «Ho caldo!» disse e la sua voce suonò bizzarra nel buio, come se fosse la voce di un altro. Perché non veniva? Si drizzò a sedere sul letto. Voleva guardare. Uscì dal letto, andò alla finestra, e tirò leggermente la tenda. Non era buio, ma non si capiva se quel chiarore era prodotto dalla prima luce dell’alba o dalla luna, grossissima. La luna aveva una faccia buffa e malvagia, come se ridesse di lui, e Jon non volle guardarla. Poi, ricordando ciò che gli aveva detto sua madre, e cioè che le notti di luna sono belle, continuò a guardare fuori, qua e là. Gli alberi gettavano ombre dense, il prato sembrava latte appena munto, e lui poteva vedere molto lontano; oh, molto lontano, oltre il prato e il giardino, e gli sembrava che tutto fosse diverso e ondeggiante. Un dolce profumo entrava dalla finestra aperta.
— Vorrei avere una colomba come Noè! — pensò.
La luna tonda brillava nel cielo
splendeva, e il suo splendore luccicava.
Dopo quelle parole che gli vennero improvvisamente alla mente, sentì una musica, dolcissima, incantevole. La mamma suonava! Si ricordò di un dolce di mandorle che aveva nascosto in un cassetto, andò a prenderlo e ritornò alla finestra. Si sporse in fuori, ora masticando, ora tendendo le mascelle per meglio udire. «Da» diceva che gli angeli in Paradiso suonano l’arpa; ma certo la musica del Paradiso non poteva essere bella come questa che suonava la mamma, mentre lui mangiava il pasticcino. Un maggiolino gli passò accanto ronzando, una falena gli volò sul volto, la musica tacque e il piccolo Jon si ritirò dalla finestra. Ora sarebbe venuta! Non voleva che lo trovasse sveglio. Rientrò nel letto e si tirò le coperte fin sulla testa; ma aveva lasciato le tende aperte, e filtrò un raggio di luna, che cadde sul pavimento, accanto ai piedi del Ietto; lui poté osservarlo muovere lentamente verso di lui, come se fosse vivo. La musica ricominciò, ma lui la sentiva appena ormai: musica dormigliona, bella — dormire — musica — dormire — dor...
Il tempo continuò a scorrere, e la musica salì più alta, si spense, tacque; il raggio di luna si avvicinò al suo volto. Il piccolo non si rivoltò nel sonno, finché rimase sulla schiena, tenendo ancora le coperte strette nel pugno bruno. Gli angoli dei suoi occhi fremevano — aveva cominciato a sognare. Sognava che beveva del latte da una padella che era la luna, vicino a un gatto nero che Io guardava con un sorriso furbo, come quello di suo padre. Lo sentì sussurrare: «Non bere troppo!». Certo quel latte era del gatto, e lui allungò la mano amichevolmente per accarezzare la bestia; ma il gatto non c’era più; la padella era diventata un letto, in cui lui era disteso, e quando aveva cercato di uscirne non era riuscito a trovare la fine; non la poteva trovare — non poteva uscire! Era terribile!
Si lamentò nel sonno. Anche il Ietto aveva cominciato a girare; era fuori di lui e dentro di lui; girava e girava, come infuriato, ed era la Mother Lee del Cast up by the sea che lo faceva muovere! Oh! com’era orribile il suo volto! Sempre più in fretta! -— finche lui e il letto e Mother Lee e la luna e il gatto, non furono più che un'unica ruota che continuava a girare, su, sempre più su — in modo orribile — orribile — orribile!
Si mise a urlare.
Una voce che diceva: «Caro, caro!» fece fermare la ruota, e lui si trovò in piedi sul letto, con gli occhi spalancati.
C'era sua madre, coi capelli sciolti, simili a quelli di Ginevra e, abbracciandola, lui ci seppellì il volto:
— Oh! oh!
— Va tutto bene, tesoro. Ora sei sveglio. Su! Su! Non è niente!
Ma il piccolo Jon continuava a dire:
— Oh! oh!
E la voce della mamma continuava, vellutata, al suo orecchio:
— È stato il chiaro di luna, caro, che ti cadeva sul volto.
Il piccolo Jon borbottò, nascondendo la testa nella sua camicia da notte:
— E tu dicevi che era bello. Ob!
— Non per dormirci dentro, Jon. Chi l’ha lasciato entrare? Hai aperto le tende?
— Volevo vedere che tempo era; ho.... ho guardato fuori, e ho.... ho sentito che suonavi... e ho... ho mangiato il mio pasticcino di mandorle.
Ma pian piano andava calmandosi; e subito rinacque in lui il desiderio di scusare la propria paura.
— C’era Mother Lee che mi correva dietro, tutta inferocita, — borbottò.
— È più che naturale, Jon, quando si mangiano dei pasticcini di mandorle dopo che si è già andati a letto.
— Ma ne ho mangiato uno solo; così la musica era ancora più bella. Ti aspettavo — e quasi credevo che fosse già domani.
— Angelo mio, sono appena le undici.
Il piccolo Jon tacque per un momento, strofinandole il naso contro il collo.
— Mamma, c’è il papà nella tua camera?
— Questa sera no.
— Posso venire?
— Se proprio lo vuoi, tesoro.
Ormai quasi completamente rientrato in sé, il piccolo Jon si tirò indietro per meglio guardarla.
— Sei diversa così, mamma, mi sembri ancora più giovane.
— Perché ho i capelli sciolti...
Il piccolo Jon li prese — densa massa d’oro bruno, con qualche filo d’argento.
— Mi piacciono, — disse. — E questa pettinatura ti sta proprio bene.
Le prese la mano e la trascinò verso la porta. E, quando furono passati, la chiuse con un sospiro di sollievo.
— Quale parte preferisci, mamma ?
— La sinistra.
— Benissimo.
Senza perdere tempo, temendo che lei potesse cambiare idea, il piccolo Jon entrò nel letto, che gli sembrò molto più morbido del suo. Tirò un altro lungo sospiro, affondò la testa nel guanciale e si mise a osservare la battaglia folta di carri, di spade e di lance, che si svolgeva sulle coperte, per effetto del riflesso dei capelli contro la luce.
— Ma non c’era nulla davvero? — disse.
Davanti allo specchio, la madre gli rispose:
— C’era solo la luna e la tua immaginazione. Non bisogna che tu agiti tanto, Jon.
Ma il piccolo Jon, benché non ancora del tutto padrone dei propri nervi, rispose vantandosi:
— Ma io non avevo affatto paura! — E di nuovo tacque contemplando la battaglia fitta di carri e di lance. Gli parve che fosse passato molto tempo.
— Oh! Mamma, fai in fretta!
— Devo intrecciarmi i capelli...
— Oh! non intrecciarli questa sera. Tanto, domani li dovrai sciogliere di nuovo. Ora ho sonno; se tu non vieni, tra un po’ mi passerà la voglia di dormire.
La madre si alzò bianca e florida, davanti allo specchio girevole; così poteva vederne tre, col collo girato e i capelli luminosi sotto la luce della lampada e gli scuri occhi ridenti. Ma era inutile, e disse:
— Vien... ti aspetto.
— Sì, amore, vengo.
Il piccolo Jon chiuse gli occhi. Tutto andava per il meglio, ma bisognava che la mamma facesse presto. Sentì muovere il letto, comprese che era salita. E, sempre con gli occhi chiusi, disse con una voce addormentata:
— È bello così, no?
Sentì la sua voce che diceva qualcosa, sentì il tocco delle sue labbra sul naso, e, accoccolandosi accanto a lei, che era ben sveglia, amandolo con tutta la sua anima, affondò in un sonno senza sogni, che si chiuse sul suo passato.