2.
Isabelle
Al Duca e alla Duchessa de Moulberry
Manoir Santiage
Creanne, Planète Vert,
Bras Extérieur
Caro Padre, Cara Madre,
come ormai saprete la mia nave è stata intercettata da un vascello della Societas Intermundi ed è stato preso prigioniero. Sono stata trasferita sul pianeta Praesidum III, presso la residenza ufficiale del Governatore, Octavius Brant.
Mi è stato comunicato che i termini del mio riscatto saranno discussi direttamente con i nostri rappresentanti, mentre mi è stato fatto intuire che la mia permanenza su questo pianeta non sarà breve.
Vi scrivo dunque per informarvi della mia buona salute e morale. Sebbene le circostanze non siano delle migliori voglio anche farvi sapere che tutti si sono comportati con grande proprietà e non ho subito angherie, né maltrattamenti. Sono ospitata nella foresteria della tenuta, in relativa indipendenza, e posso passeggiare in giardino durante il giorno. Mi è stato anche assicurato che potrò tenermi costantemente in contatto con voi per via epistolare, anche se, com’era ovvio aspettarsi, le missive non saranno private.
Questa zona geografica di Praesidium è gradevole e temperata, il sole è simile al nostro, una nona gialla, la vegetazione è rigogliosa.
Il Governatore si è incaricato di occuparsi di ogni mia necessità pratica finché la situazione non verrà sistemata. Pauline è stata liberata, visto che una domestica non rivestiva alcun interesse per la Societas, ma ho una cameriera che si prende cura di me.
Spero di poter tornare presto a casa, portate il mio affetto a Mathis.
Nel frattempo vi abbraccio con calore,
Vostra,
Isabelle
+++
Chiusi la lettera e apposi il mio sigillo in fondo, ma lasciai la busta aperta, dato che sapevo che Brant l’avrebbe letta, prima di inviarla.
Guardai fuori dalla finestra di quello che era temporaneamente il mio studio, il parco della residenza, invaso di luce chiara, gli alberi con la chioma come una cascata rossa, i fusti verdastri e sottili.
Presi lo scialle e mi sistemai i capelli con un gesto distratto della mano. Indossavo uno dei miei abiti coloniali, dato che mi avevano recapitato il bagaglio che avevo con me sulla nave al momento della cattura. Questo significava che, quantomeno, non dovevo andare in giro in una delle tutine super-attillate di moda nella Societas. Invece indossavo il mio corpetto pieno di nastri e una delle nostre ampie gonne plissettate, che mi copriva le gambe fino alla caviglia. Mi avvolsi anche nello scialle, dato che comunque le uniche altre persone che avrei incontrato nella mia passeggiata erano i soldati di guardia e non volevo che vedendomi solo con il corpetto si facessero delle strane idee. Tutti conoscevano le abitudini degenerate della Societas.
Mi aggirai per il giardino, esplorando ogni angolo non avessi ancora visto nei tre giorni precedenti.
Anche se ai miei genitori avevo scritto il contrario, il mio morale non era molto alto. Mi sentivo come un topo in trappola, circondata da estranei solo apparentemente cortesi, ma che dentro di sé mi avrebbero volentieri fatto del male.
E non era neppure del tutto vero che non ero stata maltrattata, anche se dovevo ringraziare il cielo di essermela cavata con un livido su un braccio.
Tutti mi trattavano con freddezza. I soldati mi guardavano come se mi dovessero pesare con gli occhi. La mia cameriera mi tirava apposta i capelli quando mi pettinava, e anche se sapevo che era stupido, era una cosa che mi deprimeva profondamente.
Non avevo idea di quanto a lungo avrei dovuto restare lì. Supponevo finché le colonie ribelli – la Secessione, come ci chiamavano loro – non avessero catturato un esponente della Societas abbastanza importante da fare uno scambio.
Mi stavo giusto dicendo che pensarci era inutile quando vidi venire verso di me un bambino di circa dieci anni, seguito da una tata in una tutina bianca che le lasciava quasi del tutto scoperti i seni. Fu la tata a esclamare “Oh!”, quando mi vide.
Il ragazzino mi guardò con curiosità.
«E tu chi sei?».
Gli rivolsi un piccolo inchino.
«Isabelle Lefebvre. Sono...»
La tata prese il ragazzino e lo tirò via. «È una puttana della Secessione, Salonius. Andiamo, non parlarle».
Il ragazzino mi lanciò ancora uno sguardo incuriosito, mentre la tata lo spingeva verso l’edificio principale.
Venire insultata da una servitrice mi depresse un altro poco. Non era colpa mia, se ero finita lì. Non avevo nulla a che fare con la politica delle colonie. Eppure chiunque mi parlasse si sentiva autorizzato ad appiopparmi qualche epiteto, che fosse un generale o una cameriera.
Tornai verso la foresteria. Volevo solo chiudermi nelle mie stanze, aspettare l’inevitabile visita “di cortesia” del Governatore, cenare e mettermi a letto. Almeno durante il sonno non dovevo pensare.
Accanto alla porta d’ingresso della foresteria stazionavano due soldati, perfetti e scultorei nelle loro uniformi di chissà quale branca delle forze armate della Societas. Con i pantaloni aderenti, gli stivali al polpaccio, le giacche kaki dalle spalline e le mostrine dorate, i berretti rigidi con la fiamma in centro, sembravano ancora più alti e prestanti di quanto fossero davvero. Mi guardavano sempre con un certo bonario sarcasmo, ma fino a quel momento non mi avevano mai rivolto la parola.
«Ehi, scusa» mi fermò uno dei due, quella sera.
Non era il modo appropriato per rivolgersi a una persona del mio rango – ed ero sicura che lo sapesse – ma non sembrava poco amichevole, così mi fermai e lo guardai con espressione interrogativa e aperta.
«Scusa, sai, ma non abbiamo mai incontrato una della Secessione... così da vicino, diciamo».
Guardò verso il suo collega e lui annuì. Ripeto: sembravano amichevoli. Rispettosi nonostante l’eccessiva familiarità.
«E ci chiedevamo se potevi rispondere a una domanda. Una curiosità, niente di serio. Non ti chiederemo mai questioni militari o politiche...»
«Non vi saprei neppure rispondere» dissi io, con un sorriso disponibile.
Loro risero educatamente.
«No, ecco. Niente del genere. Ci chiedevamo se vero, no? Quello che si dice sulle ragazze della Secessione».
Un campanello iniziò a suonarmi in testa, ma loro erano sempre così amichevoli e benintenzionati, con quei sorrisi aperti e rispettosi... mi dissi di non avere pregiudizi.
Inarcai le sopracciglia. «Sulle ragazze? Che cosa si dice sulle ragazze?».
«Be’... che la vostra società è molto puritana, no? Che non fate certe cose prima del matrimonio».
Ora... non era il genere di domanda da fare a una signorina, tra la mia gente, ma capivo che probabilmente la loro era solo una curiosità e che non ci vedevano nulla di male nel chiedere.
«Dipende» dissi, cercando di non dimostrarmi imbarazzata. «Non siamo così puritani».
«Quindi non è vero che una ragazza deve arrivare al matrimonio vergine, giusto? Come ai tempi dei nostri avi o roba del genere? Tu sei sposata?».
«Ehm. Fidanzata, ma comunque non...»
Lui rise. Amichevole. «No, ho capito che non l’hai fatto, è chiaro». Guardò il suo compagno. «Dicono che lo fate da dietro, no? Per preservare l’ingresso principale, diciamo. È così, mh? Hai il culo rotto a forza di darlo via?».
La cosa allucinante era che aveva sempre mantenuto lo stesso tono amichevole. Poteva quasi sembrare una domanda innocente, se non ascoltavi il contenuto.
Feci un passo indietro, scossa.
Posai la mano sul portone, sperando che si sbrigasse a riconoscermi e a farmi entrare.
Quei due emisero delle risatine leggere.
«Non c’è bisogno che scappi, dolcezza. Nessuno ti vuole fare niente». La porta si aprì. «Nessuno vorrebbe mai toccare una lercia secessionista come te».
Spinsi l’uscio e corsi dentro.
Scappai, proprio io che non ero mai scappata in vita mia. Con dentro una rabbia... un senso di umiliazione... avrei voluto prenderli a calci, avrei voluto sputargli in faccia... invece iniziai solo a singhiozzare di rabbia e frustrazione, consapevole del fatto che avrei dovuto restare tra quella gente per un bel pezzo.
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Non so quanto a lungo piansi. So che quando la cameriera venne ad annunciarmi l’arrivo del Governatore stavo ancora singhiozzando. Cercai di fermarmi, dicendomi che non potevo reagire così a una semplice volgarità. Anche se non era per quello, quei due soldati erano stati solo la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
Provai a ricompormi, ora seccata anche dal fatto che la cameriera mi avesse vista così.
Lei mi rivolse un sorrisino quasi soddisfatto.
«Forse preferisce che gli dica che non siete disponibile?».
Mi asciugai le guance con una mano.
«No. Digli che sarò subito da lui, Neutia, grazie».
La cameriera se ne andò sculettando. Indossava una guaina aderente come una seconda pelle nera, con un micro-grembiulino bianco e una crestina dello stesso colore. Quando camminava si vedeva ogni dettaglio anatomico del suo (perfetto) corpo.
Mi sciacquai la faccia, mi riempii gli occhi di collirio e mi feci rifare il trucco dall’apposito servo-programma. Alla fine non sembrava più che avessi pianto. Andai a raggiungere il Governatore in salotto.
Mi attendeva educatamente in piedi accanto al camino spento, visto che non era il tipo da accomodarsi prima di te. Era attraente come quasi tutti i funzionari della Societas. Non sapevo se si trattasse di ingegneria genetica o chirurgia plastica, ma non ne avevo mai visti di sgradevoli alla vista.
Octavius Brant, come dicevo, non faceva eccezione: era alto e atletico, con un bel viso virile, la fossetta nel mento, le spalle larghe, il petto ampio, la pancia piatta e i fianchi stretti. Le gambe lunghe e muscolose erano fasciate da pantaloni aderenti neri e lucidi stivali al ginocchio. Sotto la giacca nera dalle lunghe code portava una camicia bianca piena di pizzi e leggermente slacciata sul petto. Aveva gli occhi dalle pupille lanceolate e i suoi capelli erano riccioli e bianchi, ma non per vecchiaia, dato che non doveva arrivare neppure ai quaranta. No, capelli e pupille dipendevano dalla sua razza, umanoide del centro galattico o qualcosa del genere. Sulle colonie non se ne vedevano molti. Eravamo quasi tutti umanoidi di un ramo più “recente” dei sapiens, con le pupille tonde e il fisico meno efficiente. Dicevano che avessimo un quoziente intellettivo più alto, ma pensavo che fossero sciocchezze. Almeno Brant, in ogni caso, era furbo quanto e più di noi.
«Prego, si accomodi. Mi scusi se l’ho fatta aspettare» dissi, indicandogli le poltroncine.
Mi rivolse un lieve inchino e aspettò che io mi fossi seduta prima di prendere posto. Feci segno a Neutia che poteva servire il tè.
«Non si scusi. Mi ha detto la cameriera che è stata... poco bene?».
Ovviamente la maledetta Neutia non aveva pensato per un attimo di essere riservata.
«Non era nulla».
Brant si piegò lievemente in avanti.
«Mi è stato anche detto che oggi pomeriggio ha incontrato Salonius... spero che non si sia comportato male».
«No, no» mormorai io. «Voleva solo sapere chi fossi».
Brant sospirò.
«Spero che sia come dice, miss Lefebvre. Sarei molto deluso se il ragazzo non si fosse dimostrato educato. Purtroppo...»
Si interruppe per rivolgere un cenno di ringraziamento alla cameriera, che stava posando il vassoio con il tè sul tavolino.
Brant versò l’acqua calda nella mia e nella sua tazza e pensai che non avrebbe finito la frase. Alla fine scosse la testa in modo quasi impercettibile e sospirò.
«Non intendo giustificarlo se è stato maleducato, ma la scomparsa di sua madre l’ha reso... caratteriale».
«Le assicuro che non ho nulla di cui rimproverarlo, mister Brant. Mi... mi dispiace per la vostra perdita».
Lui accettò le mie condoglianze con un gesto distratto e si portò la tazza alle labbra. Lo imitai.
«Mi rendo conto che la situazione in cui si trova possa essere penosa, per lei. Vorrei assicurarle che non la considero responsabile di nessuna delle divergenze tra le nostre nazioni». Un lieve sorriso. «Sarebbe sciocco il contrario. Spero che si senta libera di parlarmi di qualsiasi... difficoltà incontri durante la sua permanenza».
Chinai la testa. «La ringrazio. Lo farò, se necessario».
Il che naturalmente significava che no, col cavolo che l’avrei fatto.
Brant capì e abbandonò l’argomento.
«Il giardino è molto bello, in questo periodo dell’anno».
«È vero. Mi chiedo se le specie vegetali che ospita siano autoctone o vengano da qualche altro pianeta».
Brant si grattò una guancia. «Con esattezza non le so rispondere. Vede, non sono di qua».
«Lo supponevo» sorrisi io. «È... dei pianeti del centro, vero?».
«Del pianeta del centro, miss Lefebvre. Nato e cresciuto su Oculus Caeli».
«Dicono che sia incredibile».
Inarcò le sopracciglia. «Non c’è mai stata? No, certo, è troppo giovane» si rispose da solo, dopo un attimo. «È... precisamente il contrario di Praesidium III, suppongo. Come forse saprà Praesidium è abitato solo in minima parte. Oculus Caeli è coperto quasi completamente dal tessuto urbano della capitale. Non deve pensare a un mondo grigio e sintetico, tuttavia. In molti distretti la natura e la civiltà convivono in modo armonico».
Mi permisi un piccolo sorriso malizioso.
«Anche se ho sentito dire che ci sono interi fabbricati di cubicoli, dove le case sono poco più grandi di chi le occupa».
Lui rise in modo piacevole. «Vedo che tutto considerato è informata. Sì, nella Media Urbe, il distretto centrale. Ho abitato in uno di essi, per un periodo. Sono meno scomodi di quanto potrebbe pensare. Completamente convertibili. Ma, certo, sono fatti per dormirci e poco altro. E quando converti la cucina in camera resta nell’aria l’odore di quello che hai mangiato».
«Suppongo che a volte possa essere quasi un conforto».
Annuì. «A volte lo è. È buffo come l’odore del cibo crei una sensazione di casa. Non le ho chiesto se il cibo che le servono è di suo gradimento».
«È tutto perfetto» dissi io.
Continuammo a chiacchierare di nulla fino ad aver finito il nostro tè, come facevamo ogni sera, poi Brant si accomiatò e io gli consegnai la lettera per i miei genitori.
Il resto della mia serata andò come era andata nei tre giorni precedenti: Neutia mi servì da mangiare, io cercai di fare onore alla cena e poi andai a letto.