1.
Lunaria
Fuori dallo studio del Colonnello Williams, al Ministero della Difesa, eravamo in quattro. Due erano in divisa, tutti lustri nelle loro uniformi nuove di zecca. A giudicare dalle mostrine venivano da qualche accademia dell’aeronautica. Un maschio e una femmina, entrambi antropomorfi.
Anche i due civili erano entrambi antropomorfi, ma eravamo anche entrambe femmine. Supponevo che la ragazza seduta accanto a me avesse un curriculum simile al mio: una laurea e una specializzazione nell’ambito della diplomazia, delle scienze politiche e degli studi interplanetari. Io ero stata la prima del mio corso in una prestigiosa università della Media Urbe, il distretto centrale di Oculus Caeli, chissà da dove veniva lei.
Sembrava un’ultra-sobria, ma non ero sicura che non provenisse solo da qualche pianeta esterno e che il suo aspetto severo non dipendesse da questo.
In quanto a me, ero d’accordo con i principi teorici dell’ultra-sobrietà. Pensavo che nella Societas troppo venisse regolato sulla base dell’estetica, della mera apparenza, ma ero convinta che l’ultra-sobrietà fosse solo un altro tipo di estetica. Non un’anti-moda, come la definivano loro, ma una vera moda, ancora più ipocrita di quella basata sulle apparenze.
Personalmente, cercavo di non essere troppo vistosa, ma non avevo alcuna intenzione di tagliarmi i capelli corti e indossare solo abiti coprenti e scialbi, volti a mortificare le forme.
La porta del Colonnello Williams si aprì e da dentro provenne una voce calda, sintetica:
«Lunaria Wilkinson? Può entrare».
Mi alzai.
Mentre entravo sentii la militare dire al suo collega: «Prenderanno lei, quanto ci scommetti?».
La cosa mi irritò, come d’altronde faceva sempre.
Era vero, avevo un aspetto gradevole per la maggior parte delle specie umanoidi, dai lunghi occhi dalle pupille lanceolate, di un color azzurro giaccio che molti consideravano attraente, alla figura snella e soda, ai capelli castano scuro, lisci e lustri. Indossavo una tuta integrale aderente nero lucido e una graziosa minigonna di tulle bianco. La tuta era scollata, ma nel limite del buongusto, e il rialzo sotto le suole era di soli otto centimetri di affusolato vinile nero.
Nella nostra società basata sull’estetica il mio aspetto mi aveva avvantaggiata più volte senza che io avessi bisogno di fare nulla, ma questo non mi aveva impedito di impegnarmi al massimo e di non scegliere una carriera basata sull’estetica. Che qualcuno desse per scontato che sarei stata presa per il mio aspetto era un’ingiustizia bella e buona.
Superai un piccolo atrio e entrai nello studio vero e proprio.
Il Colonnello Williams sedeva dietro a una grande scrivania, con alle spalle una vetrata da cui si vedeva uno stupefacente paesaggio aereo della Media Urbe.
«Dottoressa Wilkinson, si accomodi» disse, indicandomi la sedia lì davanti.
Era un uomo imponente, di mezza età, un terrestre o un ondino – non riesco mai a distinguerli.
«Se non le dispiace andrò subito al dunque: come inquadrerebbe, nel minor numero di parole possibile, la corrente situazione di conflitto con la Secessione?».
Era una domanda ingannevolmente semplice, dalle ramificazioni pressoché infinite. A una prima vista la guerra con la Secessione era pressoché in stallo. I mondi esterni che si erano allontanati dalla Societas avevano mire espansionistiche, ma non avevano i mezzi per una campagna militare su larga scala. La Societas, d’altro canto, a suo tempo aveva lasciato di buon grado che si separassero, perché non aveva le risorse per tenerseli in grembo contro la loro volontà.
«Credo che la spinta disgregatrice continui ad agire, sottotraccia. Se non interveniamo, avremo delle altre defezioni da parte di mondi esterni che non si sentono sufficientemente protetti, ma la vera debolezza sta nei pianeta serra e nella Fascia Asteroidale Remota, governatorati facili da rovesciare».
Williams annuì, di certo non impressionato oltre misura dal mio ragionamento, ma almeno non deluso.
«Il posto che vorrebbe ottenere è da assistente, niente di più e niente di meno. Dove pensa che potrebbe portarla?».
Anche quella era una domanda un po’ insidiosa, come tutte quelle di natura personale.
«Ancora non lo so. Non ho un obiettivo preciso. Suppongo che mi chiarirò le idee con il tempo. Ovviamente è un punto d’osservazione formidabile sulle relazioni interplanetarie, un’importante occasione di arricchimento... e un trampolino di lancio piuttosto sicuro per una vasta gamma di carriere».
Williams si limitò a grugnire.
«Da come la mette, sembra che quasi non le importi. In tutta la Societas c’è un solo posto da assistente personale del Capo di Stato Maggiore per la Difesa, miss Wilkinson. Arrivare fuori dal mio studio non sarà stato facile».
«Non lo è stato» confermai. «Se non mi importasse mi sarei demotivata da tempo».
Mi rivolse un sottile sorriso.
«Bene. Io sono l’ultimo ostacolo sulla sua strada. Come pensa di superarmi?».
«Convincendola delle mie qualità? Ho un ottimo curriculum e delle note personali immacolate, i servizi segreti hanno già controllato che non abbia scheletri nell’armadio e i miei insegnanti hanno già confermato al suo dipartimento la mia dedizione al lavoro. Conosce il mio quoziente intellettivo e le mie origini. Se c’è ancora qualcosa che posso fare per convincerla non ha che da chiederlo».
Lui si accarezzò il mento.
«Non è un’ultra-sobria» considerò.
«Non sono neppure un’ultra-esteta. Semplicemente, non credo che il mio aspetto possa modificare il modo in cui lavoro, ma credo che possa mettere a loro agio i miei interlocutori».
Il suo sorriso si accentuò.
«Molto saggio. Pensa di poter fare qualcos’altro per mettermi a mio agio?».
Non mi piaceva la direzione in cui stava andando il nostro colloquio, così decisi di fare la finta tonta.
«Non la conosco. Se le chiedessi come va oggi o che cosa ne pensa dei risultati del campionato sembrerebbe che voglio simulare una confidenza che non abbiamo».
«Ma potremmo averla».
Ah, ecco. Quasi sospirai, dopo quella frase. Uno dei posti più delicati della Galassia o giù di lì e ovviamente sarebbe stato assegnato con una marchetta.
«Non penso. Non sarebbe molto corretto, non trova?».
Lui ridacchiò. «Ed è la sua ultima parola, eh? Peccato».
Lo fissai senza alcuna simpatia. «Già. Peccato».
«Può andare».
Mi alzai e gli rivolsi un piccolo inchino piuttosto sarcastico. Dentro di me ero così arrabbiata che avrei potuto mettermi a urlare, ma mi controllai.
Una volta nella sala d’attesa dissi a quella stronza di una militare: «Io non sarò presa di sicuro, ma tu e lei avete una chance, forse anche lui se è flessibile».
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Me ne tornai a casa di umore nero. Per arrivare ad avere quel colloquio ne avevo già sostenuti e passati altri cinque, durante i quali per lo più ero stata interrogata su ogni minuzia delle leggi interplanetarie, dei più recenti sviluppi bellici o sulla storia della Societas Intermundi.
E ora quel lercio depravato aveva mandato tutto a monte.
Per un attimo, appena uscita dal ministero, avevo pensato di denunciarlo. Avevo desistito quasi subito. Il nostro colloquio era stato riservato e sarebbe stata la mia parola contro la sua. Non avrei ottenuto nulla e, anzi, avrei messo a repentaglio qualsiasi altra carriera a cui potessi aspirare.
E ce n’erano, per fortuna. Anche solo essere arrivata fin lì significava aver passato una dura selezione. Potevo utilizzarla per fare domanda per un’altra posizione in un’ambasciata o al Ministero della Difesa. Certo che era frustrante.
In quel periodo abitavo in un minuscolo cubicolo su una delle Torri Laetae. Nonostante il nome, tra l’altro, di lieto non avevano niente. Erano solo altissimi parallelepipedi di plastica grigia, suddivisi in migliaia di piccoli loculi. Mi infilai nel mio, lo misi in modalità “igiene” e mi feci una doccia. Poi lo convertii in modalità notturna e mi buttai sul letto. Per quel giorno avevo fatto fin troppo... potevo deprimermi fino a sera e rimandare all’indomani qualsiasi ulteriore ricerca di un impiego.
Non pensavo di riuscire ad addormentarmi, invece lo feci. Il calo della tensione e gli esiti deludenti del colloquio mi tramortirono. Caddi in un sonno profondo, dal quale mi svegliò solo il trillo di una comunicazione in arrivo.
Una voce calda ma impersonale mi comunicò che la mia domanda era stata accettata e che ero l’assistente personale del Capo di Stato Maggiore della Difesa, in Generale Septimo Larsen.