Storia della porta

2158 Words
1 Storia della porta L’avvocato Utterson era un uomo dall'aspetto burbero, mai illuminato da un sorriso; freddo, asciutto e sgraziato nel parlare, poco incline ai sentimenti, era magro, smunto, trasandato e cupo, eppure con qualcosa di amabile. Durante gli incontri con gli amici, e quando il vino era di suo gradimento, compariva nei suoi occhi un barlume di profonda umanità; qualcosa, però, che non riusciva mai a trovare spazio nelle sue parole ma che si esprimeva nei muti tratti del volto, e non solo dopo cena, ma più spesso e più chiaramente, nelle azioni della vita. Era austero con se stesso: quando era solo beveva gin per mortificare la sua passione per i vini pregiati e da ormai vent’anni non varcava la soglia di un teatro, nonostante lo amasse. Con gli altri, al contrario, dimostrava un’apprezzabile tolleranza. Talvolta si stupiva, quasi con invidia, della straordinaria intensità delle pulsioni che spingevano la gente a commettere dei crimini ma, persino nei casi più gravi, era più propenso ad aiutare piuttosto che a condannare. «Io approvo l’eresia di Caino», era solito dire in modo eccentrico, «e lascio che mio fratello vada al diavolo come meglio crede». Con tale modo di pensare gli capitava spesso di essere l'ultimo conoscente rispettabile, l’ultima influenza benefica nella vita di individui alla deriva. E ad essi, nel momento in cui si recavano nel suo studio, mai aveva mostrato il benché minimo mutamento nel suo comportamento. Senza dubbio, la cosa non era difficile per il signor Utterson, dato che egli era l'uomo più discreto che potesse esistere e persino le sue amicizie sembravano fondate su una simile tolleranza. È tipico dell'uomo modesto accettare le amicizie così come gli vengono offerte dal destino, e così faceva l'avvocato. Tra le sue amicizie c’erano persone alle quali era legato da vincoli di parentela, oppure persone che conosceva da moltissimo tempo. I suoi affetti erano come l'edera: crescevano col passare del tempo senza ricercare particolari affinità. Senza dubbio, di questo tipo era il legame che lo univa al signor Richard Enfield, suo lontano parente e conosciuto uomo di mondo. In molti si chiedevano che cosa quei due trovassero l'uno nell'altro o quali argomenti avessero in comune. Chiunque li incontrasse durante le loro passeggiate domenicali riferiva che i due non si scambiavano parola, mantenevano lo sguardo nel vuoto e accoglievano la comparsa casuale di un amico con un certo sollievo. Tuttavia, i due uomini davano grande valore a queste passeggiate e le consideravano il momento più prezioso della settimana, pur di spezzarne la continuità. Infatti, non solo rinunciavano ad altre occasioni di svago, ma resistevano persino al richiamo del lavoro. Fu durante una di queste passeggiate che il caso li portò in una strada secondaria di un affollato quartiere di Londra. Era una via piccola e tranquilla ma che durante la settimana diventava piena di fiorenti commerci. Gli abitanti dovevano essere tutti benestanti e decisi a fare ancora di più negli affari mossi da uno spirito di concorrenza. Questo li portava ad investire il sovrappiù dei loro guadagni in civetterie per attirare l’attenzione. Non a caso, le vetrine delle botteghe lungo la via mostravano una certa aria invitante, come fossero due file di sorridenti commesse. Persino la domenica, quando le sue attrattive più appariscenti erano velate e passava poca gente, la strada spiccava, nel confronto con gli squallidi dintorni, come fosse un fuoco nella foresta. Con le imposte verniciate di fresco, gli ottoni ben lustrati e l’aria ordinata e gioiosa, attraeva e seduceva in un attimo l'occhio del passante. Due porte prima di un angolo della strada, sulla sinistra di chi si stesse dirigendo verso est, la fila di botteghe era interrotta dall'ingresso di un cortile. Proprio in quel punto, un edificio dall'aspetto sinistro incombeva sulla via con il suo frontone. Alto due piani e senza finestre, non aveva altro che una porta al piano inferiore e una cieca facciata scolorita nella parte superiore. Tutto mostrava un prolungato e squallido abbandono. La porta, senza campanello e batacchio, era scrostata e piena di screpolature. I vagabondi si trascinavano nella sua rientranza e accendevano i fiammiferi sui battenti; i bambini allestivano le loro bancarelle sui gradini e gli scolari erano soliti provare i coltellini sulle modanature. Per almeno una generazione nessuno era andato a cacciar via questi visitatori occasionali o a ripararne gli sfregi. Il signor Enfield e l'avvocato camminavano sull'altro lato di quella via secondaria e quando giunsero all’altezza dell’ingresso, il primo lo indicò al compagno alzando il bastone. «Avete mai notato quella porta?», gli chiese e, dopo la sua risposta affermativa, aggiunse: «Nella mia mente quella porta è collegata a una storia molto strana». «Davvero?», disse il signor Utterson con un lieve cambiamento di voce, «E di che storia si tratta?». «Ebbene… accadde questo», rispose il signor Enfield, «Stavo tornando a casa da un qualche posto in capo al mondo. Saranno state le tre di un buio mattino d'inverno e la mia strada attraversava una parte della città in cui non c'era davvero nulla da vedere se non dei lampioni. Una strada dopo l'altra, e tutta la gente dormiva. Una via dopo l'altra, tutte illuminate come per una processione e tutte vuote come una chiesa. Ad un certo punto, piombai in quello stato d'animo in cui si tende l'orecchio e si comincia a sperare d’incrociare un poliziotto. Improvvisamente, vidi due figure: una era un uomo piuttosto piccolo che camminava speditamente verso est; l'altra era una bambina di otto o dieci anni che correva a più non posso giù per una via trasversale. Ebbene, amico mio, com’era facile immaginare, all'angolo della via i due si scontrarono. E proprio lì accadde la cosa atroce: quell'uomo calpestò tranquillamente il corpo della bambina e la lasciò a terra urlante. A raccontarla così può sembrare nulla, ma a vederla fu una scena orribile. Quello non era un uomo, ma piuttosto un maledetto Juggernaut [1] . Lanciai un grido di allarme, mi lanciai all'inseguimento, afferrai l’uomo per il colletto e lo riportai indietro dove si era già formato un gruppo di persone attorno alla bambina ancora in lacrime. Quell’individuo sembrava del tutto indifferente e non oppose alcuna resistenza, ma mi lanciò un'occhiata così spaventosa che mi trovai sudato come se avessi fatto una corsa. Le persone che si erano radunate attorno alla bambina erano i suoi familiari e ben presto fece la sua comparsa anche il dottore che lei era stata mandata a chiamare. Ebbene, la bambina non aveva nulla di grave ma era soltanto spaventata, come disse il segaossa [2] . E con questo la storia avrebbe potuto considerarsi chiusa, se non fosse stato per una circostanza curiosa. Già alla prima occhiata, quel tizio mi aveva suscitato ribrezzo, e la stessa cosa accadde ai familiari della bambina, il che era più che naturale. Ma ciò che mi colpì fu l’atteggiamento del dottore. Era il solito medicastro dai modi spicci e bruschi, di età e colorito indefiniti, con un forte accento di Edimburgo e impressionabile quanto una cornamusa. Ebbene, amico mio, anche lui reagì come tutti noi: ogni volta che il segaossa guardava il mio prigioniero, sbiancava in volto come se volesse fargli la pelle. Sapevo quello che aveva in mente, così come lui sapeva quello che passava nella mia. Ammazzarlo però era fuori questione, allora cercammo di fare quanto meglio possibile. Dicemmo a quell'uomo che avremmo potuto montare, e l’avremmo fatto, un tale scandalo su quella storia da infangare il suo nome in tutta Londra. Se avesse avuto delle amicizie o qualche reputazione, la faccenda le avrebbe sicuramente rovinate. Nel frattempo, mentre gli dicevamo tutto ciò, facevamo fatica a tener lontane da lui le donne che erano fuori di sé come arpie. Non ho mai visto facce così piene d'odio; e in mezzo c'era il nostro uomo, col suo ghigno gelido, spaventato anche lui, si vedeva bene, ma in grado di tener testa alla situazione quanto Satana in persona. “Se avete deciso di sfruttare questo incidente”, disse, “non posso oppormi. Qualunque gentiluomo preferisce evitare tali situazioni. Ditemi il vostro prezzo”. Beh, gli scucimmo cento sterline per la famiglia della bambina. Quel tizio, ovviamente, avrebbe voluto cavarsela con molto meno ma in tutti noi c'era qualcosa di minaccioso tale per cui, alla fine, cedette. A questo punto c'era solo da andare a prendere il denaro. E dove credete che ci portò se non proprio alla porta di quell'edificio? Tirò fuori una chiave, entrò e ritornò poco dopo con dieci sterline in oro e un assegno pagabile al portatore della Banca Coutts per il resto della cifra, firmato da un nome che… che non posso riferire, nonostante sia uno dei punti chiave della storia. Un nome, comunque, molto noto e che compare spesso sui giornali. La cifra era importante ma la firma valeva molto di più, ammesso che fosse autentica. Mi presi la libertà di far notare al mio “gentiluomo” che tutta la faccenda sembrava sospetta e che una persona, nella vita reale, non entra alle quattro del mattino in una casa per la porta dello scantinato e ne esce con un assegno di quasi cento sterline firmato da un'altra persona. Ma lui, sempre con un ghigno gelido, disse: “State tranquillo. Resterò con voi fino a quando aprono le banche e incasserò io stesso l'assegno”. Così ci incamminammo tutti quanti, il dottore, il padre della bambina, il nostro amico ed io, e passammo il resto della notte nel mio appartamento. Il giorno seguente, dopo colazione, andammo tutti alla banca. Consegnai io stesso l'assegno, precisando che avevo ragione di ritenere che fosse falso. Beh, niente affatto! La firma era autentica». «Ma… ma…», fece il signor Utterson. «Vedo che anche a voi fa lo stesso effetto», proseguì Enfield. «Già, è una brutta storia. Quello era un tizio con cui nessuno avrebbe voluto avere a che fare, un essere veramente detestabile; mentre colui che ha firmato l'assegno è un modello di correttezza, ben conosciuto, e (quel che è peggio) uno dei vostri amici. Uno di quelli che fa quel che si dice… del bene. Ricatto, suppongo si tratti. Un uomo onesto costretto a pagare cifre esorbitanti per qualche peccato di gioventù. “Casa del Ricatto”, così chiamo quell'edificio con la porta», concluse, «Sebbene anche questo, sapete, non possa spiegare tutto». E con queste ultime parole sprofondò in uno stato pensieroso. Ne fu destato dal signor Utterson, che d’un tratto gli domandò: «E voi non sapete se la persona che ha firmato l'assegno abiti qui?». «Bel posto, non è vero?», ribatté il signor Enfield, «No, abita in una piazza da qualche parte; ho avuto occasione di vedere il suo indirizzo». «E non avete mai preso informazioni sulla... casa con quella porta?», domandò il signor Utterson. «No, per una questione di discrezione», fu la risposta. «Non sono molto dell’idea di fare domande, mi sa troppo di giorno del giudizio. Fare una domanda è come gettare una pietra. Te ne stai seduto tranquillo sulla cima di una collina e la pietra comincia a rotolare trascinandone dietro molte altre. All'improvviso, poi, un qualche individuo (l'ultima persona al mondo cui avreste pensato) si prende un colpo in testa mentre sta lavorando nell'orto e la famiglia è costretta a cambiar nome. No, signore, ne ho fatto una regola di vita: più una faccenda è equivoca, meno domande faccio». «Ottima regola», riconobbe l'avvocato. «Però ho studiato il posto per conto mio», proseguì il signor Enfield, «Non sembra una vera e propria abitazione. Esiste solo quella porta, e nessuno vi entra o vi esce, fatta eccezione di tanto in tanto per quel signore. Ci sono tre finestre affacciate sul cortile al primo piano mentre al piano terra nessuna; sono sempre chiuse ma hanno i vetri puliti. C'è poi un comignolo che di solito fuma, per cui qualcuno deve pur abitarci. E tuttavia non è così certo, perché gli edifici di quel cortile sono così attaccati uno all’altro che è difficile dire dove finisca uno e dove cominci il successivo». I due ripresero per un po' a camminare in silenzio, poi, ad un certo punto: «Enfield», disse il signor Utterson, «quella vostra regola è davvero opportuna». «Sì, lo penso anch'io», rispose Enfield. «Nonostante tutto», riprese l'avvocato, «c'è una cosa che vorrei chiedervi: vorrei sapere il nome dell'uomo che ha calpestato la bambina». «Beh, non vedo che male ci sia a dirvelo. Il nome di quel tizio è Hyde». «Mmm...», disse il signor Utterson, «… e che tipo è?». «Non è facile da descrivere. C'è qualcosa di oscuro nel suo aspetto, di detestabile addirittura. Non mi sono mai imbattuto in un uomo che mi risultasse tanto ripugnante, e francamente non ne saprei spiegare il motivo. Deve avere qualche deformità, si avverte qualcosa di deforme in lui, anche se non saprei dire dove. È un uomo dall'aspetto fuori dall’ordinario, eppure non riuscirei a trovare in lui niente d’insolito. Non saprei cos’altro aggiungere, non ci capisco nulla, non sono in grado di descriverlo. E non è per una cattiva memoria, perché persino in questo momento è come se l’avessi qui di fronte». Il signor Utterson riprese a camminare in silenzio, immerso nelle proprie riflessioni. «Siete certo che abbia usato una chiave?», domandò infine. «Mio caro amico...», cominciò Enfield, decisamente sorpreso. «Sì, lo so», lo interruppe Utterson, «so che vi deve sembrare strano. Il fatto è che, se non vi ho chiesto il nome dell'altra persona, è perché la conosco già. Vedete, Richard, la vostra storia mi ha toccato personalmente. Per questo, se siete stato impreciso su qualche punto, fareste meglio a correggervi». «Avreste potuto avvertirmi», replicò l'altro con una punta di risentimento, «Sono stato molto preciso, come dite voi. Quel tizio aveva una chiave e non solo, ce l'ha ancora, perché gliel'ho vista usare meno di una settimana fa». Il signor Utterson sospirò profondamente ma non disse altro. Fu il giovane a riprendere il discorso: «Ecco un'altra lezione che mi insegna a tacere. Mi vergogno della mia lingua lunga. Facciamo un patto: non parliamone più». «Accetto con tutto il cuore», disse l'avvocato. «Stringiamoci la mano, Richard».
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