CAPITOLO 1-1

2123 Words
CAPITOLO 1 Il corridoio si estendeva a perdita d’occhio; contro le pareti bianche e liscie e sul pavimento spiccavano brillanti i tubi fluorescenti. Nell’atrio, fino ad allora deserto, arrivarono correndo un uomo e una donna. Si sarebbe dovuto percepire lo scalpiccìo delle scarpe sul linoleum lucido, ma quel loro inquietante passaggio non produceva alcun suono – se non l’immagine delle pareti vuote che sfrecciavano via. Il tempo era contro di loro, il tempo era loro nemico. Se non avessero raggiunto presto l’obiettivo, i terroristi avrebbero distrutto Los Angeles con la loro rudimentale bomba atomica. Ma il corridoio proseguiva, proseguiva, l’uomo e la donna correvano, correvano, mai una pausa per riprender fiato, mai una sosta per riposare. Sembrava attenderli un tragitto infinito lungo quel cunicolo silenzioso, mentre attorno a loro il mondo tratteneva il fiato. Non si guardavano mai l’un l’altro; i piedi planavano silenziosi sul pavimento liscio. Spasmodici. D’un colpo davanti a loro si parò la fine del corridoio. Girato un angolo comparve un uomo vestito di nero, armato di fucile, che sfoggiava l’emblema dei terroristi: un cobra rosso cucito sulla spalla sinistra. Lentamente, molto lentamente, sollevò il fucile per sparare alla coppia in avvicinamento. L’uomo che correva affrettò il passo per affrontare la minaccia, lasciando indietro la compagna. E in quel mentre il terrorista… si modificò. Il suo corpo tremolò, si fece sfocato: la figura singola della persona si divise per formare due immagini separate, distinte, due gemelli siamesi che imbracciavano fucili identici, in posizione minacciosa. Lui/loro sbarrarono il passo all’uomo in avvicinamento, impedendogli di proseguire oltre. L’uomo che correva si arrestò con una velocità impensabile per fronteggiare quella minaccia sdoppiata; in realtà il terrorista sembrava essere più un pericolo per se stesso che per chiunque altro. I suoi contorni si sfocarono ancor di più e toccarono il pavimento, cercando poi letteralmente di ricompattarsi. Le luci si affievolirono e i muri del corridoio iniziarono a vibrare, sparendo per poi ricomparire. Il fragile filo conduttore della realtà era sul punto di sbriciolarsi. Poi improvvisamente tutto fu di nuovo normale. Le pareti si stabilizzarono, le luci si rischiararono. C’era un solo terrorista con un solo fucile, ben deciso a tenere alla larga i due intrusi – assolutamente ignaro del fatto che proprio pochi secondi prima la sua persona si era spezzata in due. L’uomo che correva assestò un pugno al terrorista, allontanando il braccio e poi ripiegandolo, come un arco allentato, direttamente sul volto dell’altro. Fu un colpo ben sferrato; il contatto parve nulla di più dell’impatto con un cuscino. Il viso del terrorista esplose in una pioggia di scintille che ricaddero sul pavimento come polvere di fata. Il corpo privo della testa cedette lentamente verso il suolo, si sciolse in una pozza color carne e poi evaporò. Si udì un debole scampanellìo che solo l’uomo e la donna percepirono. “Andiamo” disse lui alla compagna. “Non ci resta molto tempo. La bomba esplode fra cinque minuti.” La donna acconsentì senza parlare e voltò sull’incrocio del corridoio da cui era apparso il terrorista. Iniziò di nuovo a correre e l’uomo l’affiancò proprio mentre attorno a loro il mondo svaniva… Wayne Corrigan era sdraiato nella sua cabina, fiocamente illuminata: ansimava per lo sforzo. Era il momento di disorientamento che sperimentava sempre nel passaggio dal Sogno alla realtà, l’istante in cui non distingueva il vero dalla finzione; poi il mondo si solidificava di nuovo e lui tornava “a casa”. Strano pensare a questo posto come casa mia, rifletté. Resto qui soltanto poche ore ogni tre giorni, per giocare alle illusioni. Eppure, a volte tutto ciò che per lui contava ed era reale si trovava in quel minuscolo cubicolo, mentre il mondo di fuori svaniva e si faceva insignificante. Aprì lentamente gli occhi per fissare il fievole candore del soffitto. Il cranio gli formicolava, infiammato nei ventiquattro punti in cui era stato punzecchiato; quella sensazione gli ricordò che c’era ancora del lavoro da terminare. Era solo un intervallo – l’ultimo della serata. Poi sarebbe stato di nuovo intrappolato nella realtà fino allo spettacolo successivo. Wayne tornò in fretta alla sua routine post-transazionale. Fletté le dita delle mani e dei piedi e lasciò che ritrovassero il sapore della realtà. Gli arti riprendevano vitalità e lui risucchiava la sensazione su per tutto il fisico, nei muscoli delle braccia e delle gambe; il calore nel petto si riaccese e fluì nuovamente nella testa, sul collo. Pochi esercizi isometrici per informare il corpo che disponeva di nuovo del pieno controllo e per allontanare la rigidità che glielo aveva sottratto mentre lui era via, nella terra dei Sogni. Ogni volta si stupiva di quanto il suo corpo si stancasse, anche se in realtà rimaneva disteso immobile e pacifico su un lettino. Aveva visto gli studi, però, aveva letto le schede tecniche. Nel Sogno il cervello continuava a inviare comandi silenziosi ai muscoli, ma di solito gli elementi inibitori impedivano al corpo di obbedire. Ed era naturale che il suo fisico ne risentisse, visto che lui proiettava una quantità di Sogni maggiore rispetto alla gente comune. Ernie White, l’operatore di turno quella notte, si affacciò nel cubicolo. “Si è svegliata, la Bella Addormentata?” domandò. Wayne sorrise e lo sforzo lo fece sussultare; erano induriti anche i muscoli facciali. “Mi sa che intendevi riferirti alla signora qui a fianco.” “Anche se fosse, è scortese notarlo.” E il viso di White, nero come una scultura d’ebano, svanì dalla soglia. Wayne si drizzò lentamente gemendo per lo sforzo e rimase seduto. La testa quasi gli sfiorava il soffitto della cabina – che, comunque, non era stata concepita per restare seduti o in piedi. Sollevò allegramente la sua personale corona di spine, la Calotta Onirica, se la tolse dal capo e la poggiò sul lettuccio accanto a sé; poi si mosse verso l’uscita. Dopo l’oscurità del cubicolo, le luci brillanti della stanza esterna gli fecero lacrimare gli occhi. Scivolando fuori dal suo bozzolo, Wayne ricacciò indietro gocce di pianto e guardò verso sinistra: lì, White aiutava Janet Meyers a uscire dal proprio alloggiamento. Janet sbatté le palpebre per la luce, proprio come Wayne; ma Wayne si era già ripreso e approfittò della momentanea cecità della donna per osservarla nei dettagli. Da un punto di vista prettamente tecnico Janet Meyers non era una bellezza. Era un po’ troppo alta con l’ossatura un po’ troppo grossa. Aveva il viso tondo e, sulle guance, delle lentiggini appena percettibili. I capelli castani erano secchi e mai perfettamente in ordine; qualche ciocca riusciva sempre a volar via da qualche parte, di solito in mezzo alla fronte. Era ben proporzionata; qualsiasi uomo dotato di gusti normali le avrebbe donato una lunga, persistente occhiata anche se forse non si sarebbe voltato al suo passaggio per dargliene una seconda. Non c’era nulla di speciale in lei che non si potesse trovare in centinaia di altre donne. E allora perché quando le sto intorno mi comporto come un orribile adolescente vergine? Si domandò Wayne, arrabbiato. Lei si abituò alla luce e lo fissò. Wayne voltò rapidamente lo sguardo verso l’orologio sopra la porta della cabina di regia; poi si inquietò con se stesso per quel senso di colpa che aveva provato guardando la donna. Giochetti stupidi da ragazzini, pensò, dovrei esserne fuori da anni. “Problemi?” domandò White. “Per un secondo mi è sembrato di veder saltare gli indicatori.” Questo ricordò a Wayne quel casino orribile con il terrorista, nel corridoio. “Ho avuto solo un problemino a coordinare un’immagine” rispose. “Stavamo inquadrando il personaggio in modi diversi, lui si è sfocato ed è saltato un po’ qui e un po’ lì prima che riuscissi a riprendere il controllo.” “E’ stata colpa mia” disse Janet. “Era un personaggio tuo, eri tu che dovevi gestirtelo. Avrei dovuto lasciarti il controllo completo nel momento in cui è apparso ma non ci ho pensato. Scusami.” “Non è stata colpa tua,” insistette Wayne, sentendosi molto protettivo. “Come ci si può aspettare la perfezione quando ci cambiano i copioni all’ultimo momento? Non abbiamo fatto neanche in tempo a leggerli, che possibilità avevamo di recitare…” “E’ stato soltanto un piccolo sbalzo durato un secondo o due” continuò Janet. “Potremmo anche averlo fatto apposta per ottenere un intermezzo comico rilassante, nel caso qualche spettatore se ne fosse accorto. Se poi gli spettatori c’erano, oltretutto.” “Ce n’erano ventiduemila, secondo il computer” affermò White. Wayne lo guardò severo. Mort Schulberg non sarebbe stato contento di un indice così basso; ma, d’altra parte, raramente era contento di qualcosa, quello. “E Janet ha lavorato proprio due giorni fa” continuò lui per difenderla. “Sarà esausta. E’ una di quelle cose che potrebbe succedere a chiunque.” “Mica devi chiedermi scusa” sorrise l’operatore. “Io mi limito a giocare con le manopole, non lo sai?” “Abbiamo dieci minuti” interruppe Janet, lanciando anche lei un’occhiata all’orologio. “Questo errore ormai è fatto, ma se vogliamo evitarne altri faremmo bene a coordinarci.” Lei e Wayne entrarono nella stanza Sala Tattica, dove era stato preparato in tutta fretta un abbozzo della loro scena perché se la studiassero prima di ricominciare. “Il corridoio è lungo venti metri,” esordì lei, quasi meccanicamente. “Ci sono uomini appostati qui, qui e qui. Un cancello a griglia metallica, tipo le serrande che si usano per chiudere i negozi la notte, proprio qui, manovrato da un pulsante qui. Due uomini dietro la serranda. Pensi di riuscire a disinnescare la bomba da solo?” A quella domanda Wayne si sentì improvvisamente insicuro. Anche se era il Sognatore più giovane dello staff locale, aveva già fatto esperienza in altre sedi. Cercò di dissimulare i suoi sentimenti con una battuta leggera. “Tanto devo farlo comunque, no? Ormai è tardi per cambiare il copione. E poi tu avrai il tuo bel da fare, con tutti quei terroristi.” “Ah questo è sicuro. Voglio proprio chiedere a Bill come mai ogni volta ce ne sono di più. Mi sta facendo passare per un’accidente di Amazzone!” “Forse, se gli sorridi con dolcezza, la prossima volta ti ingaggia per una storia romantica.” “Oh Cielo spero di no!” Wayne si sorprese della veemenza della voce di lei. “Se c’è qualcosa che non voglio è un cumulo di immondizia sdolcinata per casalinghe frustrate. Piuttosto preferirei combattere con una mano sola contro orde di Mongoli.” Poi guardò Wayne e gli notò una strana espressione in viso. “E ora, che hai?” gli domandò. Wayne distolse rapidamente lo sguardo. “Nulla,” disse lui. Dalla reazione di lei aveva capito fin troppo chiaramente quali erano le sue opinioni del romanticismo al momento. “E’ meglio decidere chi dovrà gestire cosa nella scena, così evitiamo ulteriore confusione. Non vorrei rovinare il finale.” Rimasero alcuni minuti a esaminare la sceneggiatura punto per punto, discutendo chi sarebbe stato responsabile della visualizzazione di quali parti e di quali personaggi. Alla fine arrivò Ernie White che interruppe la discussione per farli tornare alle proprie cabine e poter iniziare in tempo. Mentre risalivano nei rispettivi cubicoli, inaspettatamente Janet rivolse a Wayne un sorriso e una rapida V di VITTORIA con le dita. Ciò in qualche modo sollevò l’uomo dalla depressione che lo aveva attanagliato; e si adagiò nella cabina. Seduto sul lettuccio, afferrò la Calotta Onirica e se la tenne in grembo per un attimo, rigirandola e osservandola dappertutto. Non c’era molto da vedere: due archi di plastica incrociati, con il bordo stondato, che formavano l’intelaiatura di un casco craniale; fili che partivano dal retro e finivano sul pavimento. I diversi quadranti della Calotta erano occupati da una rete di fili quasi invisibile che si congiungevano in ventiquattro punti nodali corrispondenti ad altrettante aree cerebrali. Eppure quel semplice congegno aveva creato intere nuove industrie e aveva rivoluzionato il settore dello spettacolo ricreativo. Le prime vere ricerche sui meccanismi del cervello erano iniziate decenni prima. L’elettroencefalogramma tracciava l’andamento delle onde cerebrali per poterle classificare e identificare: gli studiosi avevano scoperto che esistevano diverse aree del cervello responsabili di diverse funzioni corporee e avevano imparato che era possibile stimolare diverse porzioni della mente dall’esterno e ottenere modifiche di comportamento. L’esempio migliore era il classico esperimento in cui dei topi avevano elettrodi piantati nei cosiddetti centri del piacere del cervello: erano topi pronti ad attraversare una barriera che impartiva forti scosse elettriche pur di arrivare a premere una barra che stimolava i loro centri del piacere. I topi affamati non affrontavano volontariamente la barriera elettrica per ottenere cibo, ma ratti altrimenti sani rischiavano praticamente di tutto per una scossa nei centri del piacere.
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