III.
La fanciulla fu immediatamente seguita da un uomo attempato, di fattezze singolarmente dure e d’aspetto ripugnante, e di statura così bassa da apparir nano, benchè la testa e la faccia fossero così grandi che si sarebbero adattati al corpo d’un gigante. Aveva gli occhi neri, che non stavan fermi un istante, astuti e scaltri; la bocca e il mento, ispidi d’una stoppia di ruvida barba; e la carnagione di quelle che sembrano non lavate mai e mai sane. Ma ciò che faceva più grottesca l’espressione di quella faccia era un sorriso spettrale, il quale essendo, come pareva, un semplice risultato dell’abitudine, giacchè non aveva alcuna relazione con un sentimento qualsiasi di gioia o di compiacenza, rivelava in continuazione le sparse zanne scolorate che rimanevano ancora nella bocca e davano a tutta la fisionomia la sembianza d’un mastino anelante. L’abbigliamento dell’uomo consisteva d’un grosso cappello a forma alta, d’un logoro vestito scuro, d’un paio di scarpe capacissime, e d’una sudicia cravatta bianca così gualcita e sfrangiata da mettere in mostra la maggior parte della gola setolosa. I capelli che ancora gli rimanevano erano d’un nero brizzolato, tagliati corti e ritti sulle tempie, e scendenti come una frangia scompigliata intorno alle orecchie. Le mani, che aveva ruvide come cuoio, erano sudicissime; le unghie, ricurve, lunghe e gialle.
Vi fu abbastanza tempo da osservare questi particolari, giacchè non solo erano bene appariscenti senza una lunga ricerca, ma trascorsero alcuni momenti prima che qualcuno rompesse il silenzio. La fanciulla si fece timidamente innanzi verso il fratello e gli diede la mano; il nano (se possiamo chiamarlo così) gettò una viva occhiata su tutti gli astanti, e l’antiquario, che sinceramente non si aspettava quello sgraziato visitatore, parve impacciato e sconcertato.
— Oh! — disse il nano, che con la mano stesa sugli occhi aveva squadrato attentamente il giovane. — Questi dovrebbe essere vostro nipote, vicino!
— Dite piuttosto che non dovrebbe essere — rispose il vecchio. — Ma purtroppo è.
— E questi? — disse il nano, indicando Riccardino Swiveller.
— Qualche amico suo, gradito qui quanto lui, — disse il vecchio.
— E questi? — chiese il nano, voltandosi e indicando me.
— Un signore che fu così buono da condurre Nella a casa l’altra sera, ch’ella aveva smarrita la via, venendo da casa vostra.
L’omuncolo si volse alla fanciulla come per sgridarla o esprimer la propria meraviglia; ma, siccome ella parlava al giovane, stette zitto e chinò la testa a origliare.
— Bene, Nella — disse il giovane ad alta voce. — Ti s’insegna a odiarmi, eh?
— No, no. Vergognati. Ah, no! — esclamò la fanciulla.
— A volermi bene, forse? — continuò il fratello con un sogghigno.
— Nè l’una nè l’altra cosa — essa rispose. — Non mi si parla mai di te. Proprio davvero.
— Ne sono proprio persuaso — egli disse scoccando uno sguardo amaro al nonno. — Ne sono proprio persuaso. Ah, proprio ti voglio credere!
— Ma io ti voglio tanto bene, Rico — disse la fanciulla.
— Senza dubbio.
— Davvero, e ti vorrò sempre bene — ripetè la fanciulla con gran commozione: — ma se tu finissi tormentarlo e di amareggiarlo, ti vorrei più bene.
— Già! — disse il giovane, chinandosi indolentemente verso la fanciulla, e dopo averla baciata, allontanandola — Ecco... va’ via, ora che hai recitata la tua lezione. È inutile piangere. Ci separiamo abbastanza amici, se si tratta di questo.
Egli rimase in silenzio, seguendola con gli occhi finchè fu entrata nella cameretta e non ebbe chiuso l’uscio, e poi volgendosi al nano, disse improvvisamente:
— Ascoltate, signor...
— Dite a me? — rispose il nano. — Mi chiamo Quilp. Potrete ricordarlo. Non è lungo... Daniele Quilp.
— Ascoltate, allora, signor Quilp. Voi avete qualche influenza sul mio nonno lì.
— Un po’ — disse Quilp con energia.
— E siete un po’ a parte de’ suoi segreti e dei suoi misteri?
— Un po’ — rispose Quilp con la stessa forza.
— Allora che io gli dica, per vostro mezzo, una volta per tutte, che io entrerò ed uscirò di qui quante volte mi piacerà, finchè si terrà qui Nella; e che se vuole liberarsi di me, deve prima liberarsi di lei. Che cosa ho fatto per esser ritenuto un orco, e per esser disprezzato e temuto come un appestato? Egli vi dirà che io non ho alcuna naturale affezione, e che mi curo di Nella, per il semplice amore di lei, non più di quanto io mi curi di lui. Lasciatelo dire. Io mi curo, allora, del capriccio di venire e di andare, e di dimostrarle che esisto. Voglio vederla quando mi piace. È il mio punto. E oggi vengo qui a mantenerlo, e ci tornerò cinquanta volte con lo stesso scopo e sempre con lo stesso risultato. Ho detto che non me ne sarei andato senza ottener la vittoria. L’ho avuta, e ora la mia visita è finita. Andiamo, Riccardino.
— Un momento! — esclamò il signor Swiveller, mentre il compagno si dirigeva all’uscio. — Signore!
— Signore, sono il vostro umile servo — disse il signor Quilp, al quale quel trisillabo era rivolto.
— Prima che io lasci questa gaia e festosa scena, e le sale mondate di luce abbagliante — disse il signor Swiveller — io arrischierò, signore, con vostra licenza, una piccola osservazione. Oggi, son venuto qui, signore, con l’idea che il vecchio fosse d’accordo...
— Continuate, signore — disse Daniele Quilp; giacchè l’oratore s’era ad un tratto interrotto.
— Ispirato da questa impressione e dai sentimenti che ne originavano, signore, e sentendo da amico di tutti e due che il tormentarsi e l’assalirsi non fossero azioni intese a espandere le anime e a promuovere l’armonia sociale delle parti contendenti, m’assunsi di consigliare un metodo che è quello da adottarsi nella presente occasione. Mi permettete, signore, di bisbigliare una parola?
Senza attendere il permesso domandato, il signor Swiveller si avvicinò al nano, e poggiandogli una mano sulla spalla e chinandosi per arrivargli all’orecchio, disse con voce che fu chiaramente accessibile a tutti gli astanti:
— La parola d’ordine per il vecchio è... snocciolare.
— Che cosa? — domandò Quilp.
— Snocciolare, signore, snocciolare — rispose Swiveller, picchiandosi la tasca. — Siete sveglio, signore?
Il nano accennò di sì. Il signor Swiveller si trasse indietro e ripetè il cenno, e così via. Con questi mezzi egli raggiunse in tempo l’uscio, dove tossì forte per attrarre l’attenzione del nano e avere l’opportunità di esprimere con un gesto la fiducia più assoluta e la segretezza più inviolabile. Dopo aver fatto i segni necessari a una esatta trasmissione di queste idee, si lanciò sulle orme dell’amico, e svanì.
— Auf! — fece il nano con un’occhiata maligna e una scrollatina di spalle. — Tanto per i cari parenti! Grazie a Dio non ne riconosco nessuno! E neppure sarebbe necessario riconoscerli — aggiunse volgendosi al vecchio — se non foste debole come una canna, e quasi senza più spirito.
— Che vorreste che facessi? — ribattè il vecchio in una specie di infinita disperazione. — È facile chiacchierare e disprezzare. Che vorreste che facessi?
— Io sapete che farei, se fossi nel caso vostro? — disse il nano.
— Qualche cosa di violento, senza dubbio.
— Avete ragione — rispose l’omuncolo, compiaciuto altamente del complimento, perchè tale, certo, lo giudicava, e sogghignando come un demonio mentre si stropicciava le sudice mani. — Chiedetelo a mia moglie, alla leggiadra, ubbidiente, timida, affezionata signora Quilp. Ma ora che mi viene in mente... l’ho lasciata sola soletta, e starà in pensiero, e non avrà un istante di pace fino al mio ritorno. So che è sempre così quando sono via, benchè essa non osi dirlo, se non ve la induco e non l’assicuro che può parlare liberamente e che non andrò collera. Ah, molto bene abituata mia moglie!
Egli aveva un aspetto assolutamente orribile, con quella testa mostruosa e quel corpo minuscolo, mentre lentamente si stropicciava le mani intorno e ricominciava il giro — con qualcosa di fantastico anche nel modo di compiere questo piccolo gesto. Chinando le sopracciglia lanose e puntando minaccioso il mento in aria, egli guardò in su con un’occhiata furtiva di giubilo che un folletto avrebbe potuto imitare e appropriarsi.
— Ecco — disse, mettendosi la mano in petto e avvicinandosi al vecchio, così dicendo — l’ho portato io stesso per paura di disgrazie, perchè, essendo d’oro, era un po’ troppo grosso e pesante per la borsa di Nella. Ella, però, ha bisogno di abituarsi a simili carichi per tempo, perchè ne avrà, da portare, quando voi sarete morto.
— Che il Cielo vi ascolti! Lo spero! — disse il vecchio, con un suono che era come un gemito.
— Lo sperate! — riprese il nano, appressandosi all’orecchio del vecchio. — Mi piacerebbe sapere in quali buoni investimenti vanno a finire questi rifornimenti. Ma voi siete più muto di una tomba, e conservate gelosamente i vostri segreti.
— I miei segreti! — disse l’altro con uno sguardo selvaggio. — Sì, avete ragione... io... io... li conservo gelosamente... gelosissimamente.
Egli non disse più sillaba, ma, prendendo il denaro, si volse con passo lento e vacillante, e si premè la mano sulla testa, come un uomo profondamente depresso. Il nano guardò intento il vecchio, mentre questi entrava nel salottino e chiudeva il denaro in uno scrigno di ferro sopra il caminetto; e dopo aver meditato per un po’, si preparò ad andarsene, osservando che se non fosse tornato presto a casa, la moglie, certo, sarebbe caduta in ismanie.
— E così, vicino — egli aggiunse — me ne andrò a casa, lasciando i miei saluti per Nella, e sperando che non si smarrirà più, benchè il fatto d’essersi smarrita una volta m’abbia procurato un onore che non m’aspettavo.
— Così dicendo, s’inchinò e mi guardò di sbieco, e con una occhiata penetrante data intorno intorno che parve comprendesse ogni oggetto per quanto piccolo o futile, egli si tolse di lì.
Io avevo parecchie volte tentato d’andarmene, ma il vecchio s’era sempre opposto, supplicandomi di rimanere. Siccome rinnovò le sue preghiere, una volta soli, e accennò con molti ringraziamenti alla prima volta che ci eravamo trovati insieme, mi lasciai persuadere volentieri, e mi sedetti di nuovo, col pretesto di esaminare delle curiose miniature e un po’ di medaglie che egli mi veniva mostrando. Non occorrevano molte sollecitazioni per indurmi a rimanere, perchè se la mia curiosità era stata destata in occasione della prima visita, ora indubbiamente era aguzzata.
Nella non stette molto a raggiungerci, e portandosi un lavoro di cucito presso il tavolo, si sedette a fianco del vecchio. Era un piacere osservare i fiori freschi nella stanza, l’uccellino nella gabbietta ombreggiata da un verde ramoscello, il respiro di freschezza e di giovinezza che sembrava alitare per la vecchia, malinconica casa e spirare intorno alla fanciulla. Era curioso, ma non altrettanto piacevole, volgersi dalla bellezza e dalla grazia della ragazza alla persona cadente, al viso affannoso e all’aspetto estenuato del vecchio. E siccome egli diventava sempre più debole e fragile, che sarebbe divenuto quel piccolo essere solitario se il vecchio, povero come era, fosse morto? Quale sarebbe stato il destino di lei?
Il vecchio quasi rispose ai miei pensieri, quando disse, mettendo una mano nella mano della fanciulla:
— Avrò più coraggio, Nella; ci dev’essere una buona fortuna in serbo per te... io non la desidero per me, ma per te. Tanta infelicità s’abbatterebbe sul tuo capo innocente, ch’io non posso credere che questo: che tentata, la fortuna finalmente verrà.
Essa lo guardò lieta in viso, ma non rispose.
— Quando penso — egli disse — ai molti anni... molti nella tua breve esistenza... che tu sei vissuta sola con me; alla tua vita monotona, senza compagni della tua stessa età e senza gli svaghi della fanciullezza; alla solitudine in cui sei cresciuta per essere ciò che sei, e nella quale, tranne che da un vecchio, sei rimasta separata da tutta la tua parentela... a volte temo di averti trattata molto duramente, Nella.
— Nonno! — esclamò la fanciulla con sincera sorpresa.
— Non con intenzione; no, no — egli disse. — Ho sempre mirato al tempo che tu saresti stata in grado di unirti con la gente più lieta e più bella, e ad avere un posto fra le persone più elette. Ma io miro ancora a quel tempo, miro ancora a quel tempo. E se fossi costretto a lasciarti, intanto, come ti avrei armata per la lotta della vita? Quel povero uccellino lì ha gli stessi tuoi mezzi per sostenerla, e per esser travolto alla deriva, stando alla mercè del mondo... Ascolta! Sento Kit di fuori. Va’, Nella, va’.
Ella si levò, corse via, si fermò, ritornò, e mise le braccia intorno al collo del vecchio, poi lo lasciò, e corse di nuovo via, ma più presto, questa volta, per nascondere le lagrime.
— Una parola all’orecchio, signore — disse il vecchio con un bisbiglio frettoloso. — Io sono stato inquieto per ciò che mi diceste l’altra sera, e posso soltanto affermare che ciò che ho fatto, l’ho fatto a fin di bene; che sarebbe troppo tardi ritirarsi, se potessi (ma non posso); e che pure spero trionfare. Ho dovuto sopportare la più dura povertà. Vorrei risparmiare a lei le sofferenze che accompagnano la povertà. Vorrei risparmiare a lei le miserie che portarono sua madre, la mia cara figliuola, a una morte precoce. Vorrei lasciar Nella... non con mezzi tali da essere facilmente consumati e sperperati, ma con ciò che la tenesse per sempre al riparo da ogni bisogno. M’intendete, signore? Essa non avrà un’inezia, ma una ricchezza... Zitto! Non posso dir di più, ora, o altra volta, perchè eccola qui di nuovo!
L’ansia con cui tutto questo mi fu sussurrato, il tremor della mano che mi stringeva il braccio, l’ardore e l’agitazione delle pupille che egli mi fissava addosso, la veemenza selvaggia e l’irrequietezza dei suoi modi, mi colmarono di stupore. Quanto io avevo udito o veduto, e una gran parte di ciò ch’egli stesso aveva detto, mi fecero supporre ch’egli fosse ricco. Non potevo formarmi alcuna idea del suo carattere, tranne ch’egli non fosse uno di quei tristi miserabili, i quali, avendo fatto del lucro il solo e unico oggetto della loro vita, ed essendo riuscito ad ammassare grandi ricchezze, sono costantemente torturati dal timore della povertà, ed oppressi da continue paure di perdite e di rovine. Molte cose da lui dette, che io non ero riuscito a comprendere, non s’accordavano con l’idea che m’era così sorta in mente, e alla fine conclusi che senza alcun dubbio egli era uno di quella infelice categoria.
Questa opinione non era il risultato d’una considerazione frettolosa che, d’altra parte, non era possibile formulare allora, perchè la fanciulla ritornò immediatamente fra noi e si accinse tosto a dare a Kit una lezione di scrittura. Sembrava che questi ne avesse due la settimana e una regolarmente quella sera, con gran gioia e divertimento sia di lui stesso, sia dell’insegnante. Riferire quanto tempo ci volesse per convincere la modestia di Kit e consentire a farlo sedere nel salotto, alla presenza d’un signore estraneo; come, nel momento si fu seduto, si rimboccasse le maniche e puntasse i gomiti e mettesse il viso rasente al quaderno e sbirciasse orribilmente le righe — come, dal primo momento che ebbe la penna in mano, cominciasse a sguazzare nelle macchie d’inchiostro, e a impiastricciarsene fino alla cima dei capelli — come a un tratto, quando aveva per caso scritto bene una lettera, la riducesse col braccio a uno sgorbio nell’atto di prepararsi a farne un’altra — come, a ogni nuovo errore, vi fosse un nuovo scoppio di allegria da parte della fanciulla e una risata più fragorosa e non meno cordiale da parte di lui stesso — e come, pur nondimeno, vi fosse sempre un gentile desiderio da parte di lui d’imparare — riferire tutti questi particolari occuperebbe senza dubbio più tempo e più spazio di quanto in realtà ne meritino. Sarà sufficiente dire che la lezione fu impartita; che passò la sera e le successe la notte; che il vecchio di nuovo divenne irrequieto e impaziente; che egli lasciò la casa furtivamente alla stessa ora dell’altra volta; e che la fanciulla rimase di nuovo sola soletta entro quei malinconici muri.
E ora, che io ho portato questa istoria fin qui in persona propria e presentati questi personaggi al lettore debbo, per la convenienza della narrazione, distaccarmi dal suo svolgimento ulteriore, e lasciar parlare e muoversi da sè quelli che vi hanno una parte necessaria e predominante.