1.

2981 Words
1. Dell’assunzione dei giardinieri non ero io a occuparmi. C’erano un capo-giardiniere e una responsabile delle risorse umane, nel nostro hotel: furono loro ad assumere quell’uomo. “Quell’uomo”. Lo chiamo così perché da quando mi accorsi di lui a quando appresi il suo nome, per me fu semplicemente “quell’uomo”. Quell’uomo era alto come un grizzly, con i capelli ispidi, le spalle possenti, il viso spigoloso. Le ospiti si voltavano per ammirarlo, mentre andavano verso le piscine. Le loro testoline avvolte negli asciugamani candidi si voltavano come in una coreografia, se quell’uomo stava potando le siepi lungo il viale che dal padiglione massaggi portava alla zona termale. Se il sudore gli incollava la maglietta alla schiena muscolosa, scatenava veloci tempeste ormonali. Alla vista del suo corpo scolpito dal lavoro, le signore inarcavano sopracciglia, sorridevano, si scambiavano occhiate e risolini. Anch’io mi ero accorta di lui quasi subito, ma per altri motivi. Non ho mai avuto una mente frivola e in quel periodo tutti i miei pensieri erano occupati dall’imminente passaggio di proprietà, quindi non era stato per il suo aspetto fisico. Avevo notato quell’uomo al suo secondo o terzo giorno all’hotel, una sera in cui aveva cacciato via da una delle piscine un gruppetto di ospiti adolescenti. Il Blue Springs Hotel è un albergo cinque stelle, con annessa spa, famoso per le piscine termali e i geyser. Non è un posto da ragazzini, di norma, perché né i bambini, né i teenager apprezzano i pomeriggi in ammollo e i lunghi massaggi. La nostra clientela è composta da coppie e gruppi di amiche. La maggior parte ha più di cinquant’anni, ma non mancano i trentenni e i quarantenni. Nessuno di loro, o quasi, osa portarsi dietro i figli. Non perché l’hotel non sia attrezzato per i bambini, ma perché i bambini, al Blue Springs, rischiano di morire di noia. Le attrazioni della zona comprendono le lunghe passeggiate nel parco naturale – un ecosistema aspro, ma di grande bellezza – visite alle pozze termali, escursioni nel sistema di grotte... Insomma, che in quel periodo al Blue Springs ci fossero ben tre adolescenti era un’eccezione. Come potete immaginarvi, tre ragazzini tra i tredici e i quindici anni, trascinati dai genitori loro malgrado in una spa piena di signore anzianotte, non erano molto felici. Si annoiavano e girellavano qua e là alla perpetua ricerca di qualcosa da fare. Quella sera vidi tutto dalla finestra - e fu una fortuna. Nella nostra zona, dopo il calare del sole, l’aria diventa piuttosto fredda anche d’estate. Erano più o meno le sette e la maggior parte degli ospiti era nel ristorante al piano terra, le cui vetrate affacciavano sulla parte posteriore del parco. La finestra del mio appartamento al primo piano, al contrario, affacciava su un lato e io stavo sorseggiando una tazza di tè, ammirando le volute che il vapore dipingeva sopra le piscine calde. Il calore era naturale, dipendeva dai geyser presenti nell’area, ed era una delle attrattive dell’hotel. C’erano dei momenti, momenti come quello, in cui l’acqua diventava troppo calda e di conseguenza le piscine erano chiuse. I geyser sono fenomeni stranamente abitudinari: i nostri geyser eruttavano la mattina presto e la sera. Più tardi durante la notte l’acqua sarebbe diventata di nuovo calda in modo piacevole. Quell’uomo, il tizio nuovo che le signore si mangiavano con gli occhi, stava tirando su dall’acqua qualche foglia con un lungo retino, facendo ben attenzione a non cadere. Io guardavo le piscine, l’ho già detto. Su quel lato ce n’erano quattro, dalla forma tondeggiante e dai bordi di pietra. Quell’uomo era pressoché invisibile, per me, come è sempre invisibile il personale di servizio. Non farsi notare è il loro lavoro. Quando vai in un ristorante non fai caso ai camerieri; in un hotel come il nostro non ti accorgevi degli inservienti, dei giardinieri e dei facchini. Ero la direttrice del Blue Springs da tre anni e amavo quel posto. Amavo il design raffinato di legno e vetro, amavo l’odore delle acque termali, amavo la tranquillità e la bellezza del grande parco dalle siepi dalle forme morbide, i prati su cui gli ospiti facevano yoga, le pozze e le piscine che punteggiavano l’intero complesso. I proprietari mi avevano assicurato che sarei rimasta io la direttrice per altri due anni almeno, nonostante stessero vendendo a un grande gruppo alberghiero, il Gruppo Almaz. Speravo che fosse vero. Sapevo che prima o poi avrei dovuto cambiare albergo – fa parte del lavoro – ma dubitavo che ne avrei mai trovato un alto immerso nella stessa pace. Ciò nonostante, era pur sempre un grande hotel: il nostro personale sfiorava il centinaio di persone e quell’uomo, quel giardiniere, l’avevo visto, ma non l’avevo mai notato. Lo notai quella sera, quando i tre adolescenti annoiati che avevo già visto in azione nei giorni precedenti scavalcarono i cancelli, entrarono nella zona momentaneamente chiusa al pubblico e iniziarono a spogliarsi. Li vide anche quell’uomo. Andò verso di loro, con il retino dal lungo manico in pugno, e disse qualcosa che non sentii a causa della distanza e della finestra chiusa. Uno dei tre provò a dribblarlo per arrivare alla piscina, ma lui gli spazzò letteralmente le gambe con il retino, facendogli prendere una panciata per terra. In quel punto le piscine erano circondate da un lastricato per nulla morbido, quindi forse il ragazzino si fece anche male. I suoi amici lo aiutarono a rialzarsi e pochi minuti dopo se ne erano andati. Gridarono qualcosa, prima di allontanarsi, e temevo di sapere che cosa fosse. Posai la tazza di tè e uscii dal mio appartamento. +++ Non mi stupii quando, meno di dieci minuti più tardi, alla porta del mio ufficio bussò il signor Reichs, il capo ricevimento. «Direttrice Staples? Dei clienti chiedono di vederla per un reclamo riguardo un dipendente». Scossi la testa, rassegnata. «Ho visto la scena dalla finestra». «Ha malmenato i loro figli?». Sulla sua fronte c’era una ruga scettica. «Ha impedito che uno di loro si buttasse in una piscina d’acqua rovente. Ma li faccia pure entrare, glielo spiego io». Reichs mi rivolse un sorrisino divertito e uscì di nuovo. Pochi secondi più tardi introduceva nel mio ufficio ben sei adulti e tre ragazzini. Per fortuna ho un ufficio abbastanza spazioso, ma non c’erano sedie per tutti. Un buon motivo per alzarmi a mia volta e non invitare nessuno ad accomodarsi. «Non crederà a quello che è successo» attaccò subito uno degli adulti, un signore sui quarantacinque con i baffi. Aveva un’aria di importanza ed era vestito in modo molto elegante. «Un membro del personale, un energumeno, un inserviente di qualche tipo...» «Un giardiniere» lo corressi, con un sorriso gentile. Disponibile. Sono sempre disponibile, con gli ospiti. Accogliente. Ma non simpatica, oh no. E non amichevole. Ognuno deve restare al suo posto, questa è la mia filosofia. «Quel che è. Ha aggredito mio figlio. Da una struttura come questa proprio non ce lo aspettavamo, direttrice. È inutile dire che ci lamenteremo in tutte le sedi. E pretendiamo che il giardiniere, o qualsiasi sia il suo ruolo, venga licenziato all’istante. Mio figlio poteva farsi molto male. Per fortuna è riuscito ad allontanarsi prima che...» «La prego» lo interruppi, a quel punto. Non mi piace quando mi dicono chi licenziare o perché. È l’altra faccia della medaglia, quando sei un lavoratore virtualmente invisibile. Gli ospiti a volte pensano a te come a un oggetto dell’arredamento: sostituibile. Non un essere umano con delle necessità, una professionalità, una famiglia. Il cliente con i baffi sbatté le palpebre, preso alla sprovvista dal mio tono: cortese, ma fermo. Lo avevo interrotto. Proprio io, una donna più giovane di lui di quasi dieci anni. «Si dà il caso che abbia visto la scena dalla finestra del mio appartamento. Questi tre ragazzi sono entrati in una zona chiusa al pubblico e hanno cercato di buttarsi in una delle piscine». «Non mi sembra una valida ragione per...» Lo interruppi di nuovo. «Ci sono avvisi un po’ dappertutto sulla necessità di non sottovalutare i geyser, vero? A tutti gli ospiti spieghiamo che in certi periodi del giorno l’acqua nelle vasche è rovente e che un sistema monitora in modo continuo la temperatura per impedire incidenti. Sottolineiamo come sia indispensabile uscire dall’acqua non appena il personale lo richiede. È ragionevole, non pensa? A nessuno piacerebbe ustionarsi». «Certo, uhm...» «I vostri ragazzi avevano intenzione di immergersi in una piscina d’acqua bollente. Non è uno scherzo. Il nostro giardiniere li ha avvisati, ma suo figlio ha provato ad aggirarlo e buttarsi comunque. A quel punto il nostro dipendente gli ha fatto lo sgambetto con un retino per raccogliere le foglie. Salvandogli forse la vita». Il cliente con i baffi aprì la bocca come un pesce in secca. Una delle signore che erano con lui prese uno dei ragazzini per un braccio e sibilò: «È vero?». «Ora, come capirete, se i vostri ragazzi non sono in grado di adeguarsi alle regole dell’hotel, mettendo a rischio loro stessi e i nostri dipendenti, purtroppo non possono restare nella nostra struttura». «C-che... che cosa? Vuole buttarli fuori?». Sorrisi. Comprensiva. «No di certo, sono minorenni. Ma dovrò chiedervi di lasciare la struttura in anticipo». «Eh? Anche a noi?» esclamò una delle signore. Forse pensava di rimandare a casa il figlio in autobus, non so. «Mi creda, sono molto dispiaciuta, ma la sicurezza degli ospiti ha la precedenza su tutto. Come sa, le piscine solfuree sono precluse ai minori non accompagnati. Di solito gli ospiti comprendono l’utilità di questo divieto». I loro ragazzi, per inciso, fino a quel momento avevano scorrazzato dappertutto non accompagnati. Avevamo chiuso un occhio, perché in fondo erano adulti a sufficienza da non ficcarsi nei guai per sbaglio. Che si volessero ficcare nei guai volontariamente, in fondo, era anche prevedibile, ma non avrei mai pensato che scegliessero un modo tanto stupido. «Ma... abbiamo prenotato fino a domenica. È solo mercoledì!». «Posso venirvi incontro e rimborsarvi due giorni» dissi con un altro sorriso, questa volta contrito. «Che cosa?». «Mi dispiace. È stata un’infrazione grave delle regole dell’hotel». Feci un gesto fatalista, abbandonando il tono formale. «Vi rendete conto che avreste potuto ustionarvi in modo grave? Davvero-davvero grave, da trapianto di pelle?» dissi, rivolgendomi ai ragazzi. «Non avevamo capito che l’acqua fosse così calda» balbettò la ragazza. «Ma sei scema?» fece una delle donne adulte, presumevo la madre. «C’è scritto dappertutto che i geyser possono arrivare a centoventi gradi!». «N-non... non ci abbiamo pensato...» disse la figlia, in tono lamentoso. «Brava! Ora perderemo centinaia di dollari e le vacanze perché tu non sei riuscita ad arrivare a una cosa che era scritta dappertutto! Mark, dille qualcosa, non è possibile che questa bambina sia così...» Un altro ospite – Mark, presumevo – la interruppe tornando a rivolgersi a me. «Scusi, lei ha perfettamente ragione... ma non potremmo metterci una pietra sopra? Le assicuro che controlleremo i nostri figli con la massima attenzione, d’ora in poi. Non pensavamo che fossero così stupidi!». Il suo tono fu piuttosto buffo e io emisi una risatina comprensiva. «Se vi impegnate tutti...» Ricevetti rassicurazioni immediate. Solo l’uomo con i baffi non mi sembrò del tutto convinto. «A una condizione» dissi io. «Adesso andiamo alle piscine e faccio vedere a questi tre che cosa hanno rischiato. Per essere del tutto sicura che abbiano capito». E, in verità, per essere del tutto sicura che capisse anche Baffino, lì, che sembrava ancora sospettoso. C’è sempre qualcuno che pensa di essere stato raggirato, anche se ha palesemente torto; è una legge della vita. +++ Trovai quell’uomo davanti all’entrata del personale. Non sembrava preoccupato, ma se era lì doveva esserci un motivo. Probabilmente qualcuno gli aveva detto che i genitori dei ragazzini erano venuti nel mio ufficio. «Non licenziarmi» furono le sue uniche parole. Aveva un accento dell’Est Europa e continuava a non sembrare preoccupato, tranne sulla fronte, tra le sopracciglia. Lì aveva un’increspatura che indicava ansia, timore e forse persino una punta di disperazione. «Non ti licenzio» risposi. «Ho visto tutto dalla finestra: hai impedito che quel ragazzino si buttasse in piscina». «L’acqua è calda, a quell’ora». «Già, infatti. Sei stato bravo». Lui annuì una volta e se ne andò senza aggiungere altro, né un ringraziamento, né un’ulteriore spiegazione. Molto sintetico, ma non maleducato, perché il suo annuire era stato un mezzo inchino rispettoso. E se durante l’episodio con i ragazzini di poco prima l’avevo differenziato dalla massa dei dipendenti di inquadramento lavorativo inferiore, vedendolo nella sua singolarità, in quel momento provai una punta di empatia nei suoi confronti. Per qualche secondo mi preoccupai per lui: aveva problemi economici? Quel lavoro da poco trovato serviva al mantenimento di molte persone? Temeva di poterlo perdere per il capriccio di un cliente? Quei pensieri sfumarono presto, mentre tornavo nel mio appartamento. Il mio ruolo mi chiedeva di empatizzare, ma anche di mantenere una certa distanza. Con il personale dell’hotel cercavo di essere amichevole, accomodante se necessario, senza però perdere il senso delle distanze. Con tutti, tranne con Mike, che le distanze le aveva accorciate da solo e che non avevo l’energia di allontanare. Lo trovai nel mio soggiorno, quando rientrai. +++ Mike. Ventidue anni e uno sguardo profondo, nero, liquido. Uno dei massaggiatori della spa. Non sapevo bene come fosse iniziata la faccenda e non ero pienamente soddisfatta di come le cose si fossero evolute. Era belloccio, troppo giovane, a volte invadente, spesso superficiale. Ma era anche un ventiduenne palesemente attizzato da me, che di anni ne avevo trentasette. Portati bene finché volete, ma era comunque una gradevole conferma. In definitiva trovavo quella sorta di liaison un po’ squallida, ma ignorare le sue avance era stato difficile e ora allontanarlo era superiore alle mie forze. «Oh, Dio, dovevamo vederci?» sospirai, trovandomelo seduto in soggiorno. Non il più caldo dei benvenuti, lo so. «No, ma avevo voglia di vederti». D’altronde i caldi benvenuti erano inutili, se Mike aveva un programma in testa. E il suo programma non era male, ne ero sicura. Non erano mai male. Mi liberai della giacca e al resto ci pensò lui. Le sue mani si infilarono sotto i miei vestiti, sciogliendo nodi e slacciando bottoni. Palpando, soppesando, accarezzando. Mi arresi al suo desiderio come facevo sempre. L’attrazione che provavo nei suoi confronti era blanda, avevo il cervello pieno di altre cose, ma cedere era più facile di negarmi. Negarmi avrebbe significato dare spiegazioni, blandire il suo ego ferito, sopportare il suo scontento. Abbandonarmi alle sue mani, invece, era semplice e alla fine non mi sarebbe dispiaciuto. Quando arrivammo sul letto eravamo entrambi nudi. Mike aveva il suo prezioso gel per i massaggi, suo strumento di lavoro e di piacere. «Mmm... senti qua, sei tutta irrigidita». Le sue mani sul collo, che mi scostavano i capelli. Lui seduto sul mio sedere, il sesso sulle mie natiche. Lo sentivo, capite? Sentivo i suoi testicoli rasati, un po’ pungenti, le sue cosce sudate, la sua asta che si strusciava sul mio culo, mentre lui mi massaggiava. Le dita che si piantavano nel mio collo, dure, convincendo i muscoli ad ammorbidirsi. Il suono del suo respiro affannoso. Quel massaggio intimo, pornografico, sempre più energico. Chiusi gli occhi. Il suo peso sul sedere faceva sì che il mio sesso premesse sul copriletto. Un lieve sfregamento sul clitoride... mmm, mi stavo bagnando. Poi gli schizzi caldi del suo sperma sulla schiena, e le sue mani che lo spalmavano dappertutto insieme al gel profumato. Il suo uccello floscio e bagnato tra le natiche, infilato apposta lì, in modo da inumidirmi il buchetto che non gli avrei mai lasciato penetrare. Le sue dita che arrivavano i miei capezzoli, le mani che si infilavano tra me e il letto. Quei massaggi forti, dolorosi, eccitati. Ancora le spinte dei suoi fianchi, anche se aveva già finito. Pollice e indice a stringermi i capezzoli fino a farmi gemere, il suo sussurro nelle orecchie: Godi, vero? Godi come una porca. Quanta voglia ne hai, eh? Fammi sentire che ne hai voglia... E poi entrambe le sue mani sulle cosce, il suo corpo sulla mia schiena, le sue dita a stuzzicarmi, titillarmi, massaggiarmi la fica. Finiva sempre così. Con lui che mi faceva sollevare sulle ginocchia e mi leccava famelicamente da dietro. Il mento ruvido sulle grandi labbra, la lingua che si infilava dappertutto e le dita a schiacciarmi il clitoride fino a farmi venire, fino a farmi sobbalzare, fino a farmi gemere. Leccava via i miei umori e provava a mettermi dentro le dita, ma lo allontanavo con un movimento infastidito. Non insisteva. Sapeva che non volevo arrivare alla penetrazione, a nessun tipo di penetrazione. Serve intimità, per permettere a qualcuno di infilarti le dita o l’uccello nella passera. Un’intimità maggiore di quella che volevo condividere con lui. Una volta finito Mike cercava sempre di dilungarsi. Di restarmi attaccato, di accarezzarmi. Lo trovavo invadente e mi alzavo senza quasi accorgermi che lo stavo facendo. Andavo in bagno, mi buttavo sotto la doccia per eliminare qualsiasi traccia del suo gel, del suo sperma e della sua saliva. Quando tornavo in camera lui si stava rivestendo. «Com’è andata, oggi?». «Giornata impegnativa. La tua?». Rise. «Tardone mugolanti». Era quello che diceva sempre. D’altronde era il suo lavoro. Come massaggiatore era bravo, le clienti lo adoravano. Ed era di bell’aspetto, con quegli occhi grandi e scuri, espressivi come quelli di un cucciolo. Scambiammo altre due chiacchiere, ma tutto, in me, diceva che lo volevo fuori da casa mia. Tutto tranne le parole. Mike lo sapeva. Se ne andò poco dopo. +++ Me misi a letto senza cenare, troppo stanca per qualsiasi cosa. Le lenzuola avevano ancora l’odore del corpo di Mike, un promemoria che trovavo un po’ deprimente. Se pensavo a lui mi sentivo infastidita e colpevole. Infastidita perché fin dall’inizio non avevo avuto la forza di respingerlo, non in modo chiaro e definitivo. Avevo accolto le sue avance impudenti con un misto di civetteria e sdegno. Gli avevo detto di no, ma compiaciuta del suo interesse. Mike non si era fermato e io avevo accettato la cosa senza darle importanza. Il senso di colpa derivava dal fatto che non era deontologico, lo sapevo. Portarmi a letto (lasciarmi spupazzare) da un dipendente? Non era etico. Avrei potuto assolvermi se fossi stata innamorata di lui, ma non solo non lo amavo: non mi piaceva nemmeno in modo particolare. Era solo... lì. Uno di quindici anni più giovane, che chissà che cosa cercava in me. Forse anche nulla, alla fin fine. Perché tirare sempre in mezzo figure materne e paterne, quando a volte le persone si piacciono e basta, al di là dell’età? Ma a me non piaceva. Era carino. Quando mi toccava, lo faceva con una tale fame da eccitare anche me. Ma per strada non gli avrei rivolto una seconda occhiata e dal punto di vista personale proprio non mi interessava. Mi addormentai con un senso di insoddisfazione addosso. Insoddisfazione e preoccupazione latente, certo, perché fino a che la nuova proprietà non mi avesse confermata ufficialmente non avrei dormito sonni tranquilli.
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